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 2023  agosto 21 Lunedì calendario

La vera «grande riforma»

È possibile che l’effetto più pericoloso dell’intervento del governo sulle banche (sul quale, comunque, diversi economisti competenti hanno dato un giudizio negativo) sia il fatto di avere legittimato – sdoganato, se si preferisce – l’espressione «extraprofitti». Fior di addetti alla comunicazione se ne sono impadroniti e la usano dando a intendere di sapere di che cosa stanno parlando. Il rischio è grosso. Nel momento in cui entra, per restarci, nel nostro malandato e approssimativo lessico politico, la suddetta espressione, è breve il passo che porta a designare come «extraprofitti» quelli di qualunque azienda capace di fare il suo mestiere, ossia di guadagnare e magari anche di guadagnare tanto. In un Paese ove le propensioni populiste sono così diffuse, a destra come a sinistra, ove tanti continuano a diffidare del mercato, ci vuole poco per ritrovarsi in una situazione nella quale, superata una certa soglia di utili (arbitrariamente definita), gli utili in più vengano dichiarati «extra» e quindi illeciti: una misura dello sfruttamento del popolo. Dal momento che sarebbe la politica, applaudita dai settori più populisti dell’opinione pubblica, a decidere quale sia la soglia al di là della quale scatterebbe l’illecito guadagno. Bisogna ricordare che fra tutti i Paesi europei l’Italia è quello che ha, ha sempre avuto, le più forti affinità culturali con certi Paesi dell’America Latina.
L’ America Latina è la patria del populismo anti-mercato. È un attimo e ci si ritrova, se non in Venezuela, quanto meno in Argentina.
Giorgia Meloni, come le riconoscono anche gli avversari, è una leader di qualità. Dovrebbe mostrarsi ancora più ambiziosa di quanto già non sia. Prima che termini (e inevitabilmente prima o poi terminerà) la luna di miele fra il suo governo e la parte del Paese che l’ha votata, ella dovrebbe decidersi a innescare sul serio una grande trasformazione. Dovrebbe decidere, con uno strappo autentico rispetto alla sua personale storia politica, di legare il suo governo a un solo, fondamentale, obiettivo: imporre il principio della concorrenza in tutti i settori nei quali la concorrenza non c’è o è insufficiente. Con un sicuro vantaggio per il «popolo» (la grande platea dei consumatori) e a danno di ristrette minoranze che prosperano grazie alla protezione dello Stato. Imporre il principio della concorrenza significa colpire al cuore l’Italia corporativa, l’Italia dei gruppi monopolistici, grandi e piccoli, che si avvantaggiano delle barriere (statali) che bloccano la concorrenza.
Quello dei taxi è solo un caso. Il più visibile, il più appariscente. Proprio perché il governo non è stato capace di aggredire il male alla radice, la «soluzione» da esso offerta è risultata un palliativo, una non-soluzione. Eppure c’è una parte del popolo, quella composta dagli utenti dei taxi, che aspetta, come se fosse il Messia, un governo che finalmente decida la piena liberalizzazione del settore.
Ma è solo un caso e un esempio. L’Italia corporativa allunga i suoi tentacoli ovunque, in tanti ambiti della vita economica e sociale. Anche se molte corporazioni precedono l’avvento del fascismo, fu il regime fascista a dare loro riconoscimento e forza politica. È una eredità che la Repubblica, in ampia misura, si è tenuta ben stretta. Il riconoscimento dell’importanza fondamentale della concorrenza per garantire il benessere collettivo non ha mai fatto davvero presa né nella classe dirigente né nell’opinione pubblica.
Oltre a tutto, consideri Meloni che se scegliesse questa strada ne deriverebbe una conseguenza paradossale. In quel caso, sarebbero infatti settori della sinistra, probabilmente, a prendere le difese di strutture corporative di derivazione fascista. Per essi, infatti, il babau si chiama «liberismo». Ciò che intendono per liberismo è semplicemente il mercato concorrenziale.
L’obiezione a quanto scritto è ovvia, scontata: si tratta di wishful thinking, scambiare i propri sogni per realtà. Una ingenuità, insomma. È un fatto che siamo tutti quanti condizionati dalla nostra personale storia passata e non fanno eccezione coloro che ora occupano ruoli di governo, Meloni e i suoi collaboratori. E il governo, anche se si è fin qui mosso (banche e tariffe aeree escluse) con una certa prudenza, sembra piuttosto interessato a rilanciare e a rinvigorire lo statalismo, la presenza dello Stato in tutti i settori che esso definisce «strategici», piuttosto che a favorire la concorrenza dei privati. Diciamo che il governo potrebbe, quanto meno, scegliere la strada del compromesso: una volta definiti e delimitati i settori in cui, a ragione o a torto, ritiene che il controllo statale risponda a ciò che esso definisce «interesse nazionale», potrebbe favorire l’affermazione piena del principio di concorrenza in tutti gli altri ambiti.
Certamente l’Italia corporativa si ribellerebbe e Meloni perderebbe voti. Ma forse ne guadagnerebbe ancora di più: da parte di quei consumatori che, in un settore o nell’altro, grazie alla concorrenza, percepirebbero il vantaggio, in termini di migliori servizi nonché di prezzi meno esosi. È nota l’obiezione: l’Italia corporativa è composta da minoranze coese, organizzate e ricche di risorse. Le minoranze coese di solito sconfiggono le maggioranze disorganizzate (i consumatori). È spesso vero ma non sempre. Se fosse vero sempre non avverrebbero mai cambiamenti.
È ben conosciuta la distinzione fra la «Costituzione formale» (un documento scritto) e la «Costituzione materiale» (il modo in cui è concretamente organizzata la vita pubblica di un Paese). La proposta/ bandiera di Meloni e il suo partito è la riforma della Costituzione formale: il presidenzialismo. Ma se ella volesse davvero perseguire tale progetto scatenerebbe ferocissimi conflitti, spaccherebbe il Paese ancora più di quanto non sia oggi spaccato. E i risultati sarebbero comunque assai incerti. Difficoltà per difficoltà perché non puntare invece a una meta persino più impegnativa, ossia modificare, in un aspetto essenziale, la Costituzione materiale della Repubblica? Sposare il principio di concorrenza e smantellare le gabbie corporative significa innescare una grande trasformazione non solo economica ma anche sociale e culturale. Ma serve davvero molta ambizione.