Domenicale, 20 agosto 2023
Riflessioni sul silenzio
IL SILENZIO ELOQUENTE DI DIOContemplazione. Il teologo Magnus Striet propone sei suggestive «meditazioni» e Luigi Nason considera l’eterna domanda «come mai?» davanti al maleGianfranco RavasiLisa Sorgini Cercando la luce. Lisa Sorgini, «Behind Glass», Ragusa Foto Festival, fino al 27 agosto «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Mai forse un appello come quello che Wittgenstein aveva incastonato nel suo famoso, e per altro, fitto Tractatus logico-philosophicus (1929) è stato smentito. È, infatti, curioso che la bibliografia sul silenzio abbia accumulato migliaia di testi e un oceano di parole. Oggi, poi, sui viali dell’infosfera avanza incessantemente una valanga di frasi, spesso irripetibili, e ben pochi sono quelli che confessano – soprattutto tra le figure pubbliche e i politici – quanto riconosceva due millenni fa Publilio Siro in una delle sue circa settecento Sentenze a noi pervenute: «Mi sono pentito spesso di aver parlato, mai di aver taciuto».
In realtà, l’ossimoro «silenzio eloquente» ha una sua grande validità: si pensi solo alla contemplazione mistica (dal greco myein, «tacere») o al «segreto messianico» di Cristo o alle lezioni taciturne di Buddha o alla «voce di silenzio sottile» nella quale il profeta biblico Elia scopre la teofania. Per questo è significativo scovare ampi e profondi studi antropologici, come quello Sul silenzio di David Le Breton (Cortina 2018) o le deliziose «variazioni» sul Silenzio nella musica del violoncellista Mario Brunello che ama suonare sulle cime dolomitiche, nel deserto, nei monasteri (il Mulino 2014). Tra l’altro, la pausa in musica dev’essere «eseguita» rendendola grembo generativo delle note precedenti e susseguenti.
Proviamo, allora, a render conto di qualche nuovo anello di quella catena bibliografica a cui accennavamo, segnalando che persino una rivista, «Luoghi dell’infinito», ha monograficamente affidato il numero dell’aprile scorso alla «Voce del silenzio», quasi in contemporanea con un incontro del Cortile dei Gentili, tenuto a Milano tra cristiani, buddhisti e non credenti proprio sull’eloquenza del silenzio. Due sono i volumi che presentiamo nei quali il silenzio è, in realtà, un’atmosfera destinata a far respirare un’esperienza radicale e drammatica, quella del dolore. Quando vi si è immersi, le reazioni possono essere antitetiche: l’eccesso di parole che rasentano l’urlo anche blasfemo (come non pensare a Giobbe e al suo grido lacerante?), oppure lo sconsolato e impotente ammutolirsi della vittima.
In entrambi i casi, però, sovrasta un altro silenzio, quello del Dio apparentemente remoto e indifferente. In questo intreccio di sensazioni, ma con una netta apertura oltre la tenebra e il vuoto verso un’alba di luce e un pieno d’armonia, si colloca lo scritto del teologo tedesco Magnus Striet, 1964, docente a Friburgo in Brisgovia. Sono sei «meditazioni» molto suggestive, spesso sostenute da epifanie artistiche o letterarie piuttosto inattese, a partire dalla «scommessa» su Dio, basata sull’angustia, di Heinrich Heine, testimone di «una fede legata all’aldiquà». Oppure la rivelazione è affidata al Cristo morto di Hans Holbein il Giovane, un’immagine brutale fin nei segni della tortura e dell’esecuzione sulla croce. Infatti, sul Figlio che aveva gridato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» incombeva il rovescio della domanda dell’Eden: «Adamo, dove sei?», trasformata in «Dio, dov’eri?», che è l’interpellanza anche di Auschwitz.
È la volta, poi, di un musicista, Brahms, incredulo sul potere salvifico della musica, oltre che in quello redentore di un Dio, tant’è vero che a questa «meditazione» Striet associa una riflessione sul suicidio. Le sue pagine grondano di una folla di voci della cultura moderna che si confrontano con l’abisso oscuro e muto delle varie crisi della fede, posta di fronte al male. Semplificando di molto possiamo dire che quello scetticismo non accademico ma esistenziale è da innestare nella stessa regione del credere come suo necessario compimento. Detto in modo simbolico, il nostro giorno è il Sabato santo quando il Cristo giace nel sepolcro e si percepiscono solo i brividi dell’alba successiva pasquale con la risurrezione, un po’ come accade nel prodigioso corale che suggella la Passione secondo Matteo di Bach.
Una fede, quindi, che non cancella il grande e inquietante «eppure». Tante altre emozioni riserva il viaggio proposto dal teologo tedesco al credente e al non credente, un percorso che l’autore fa intuire essere in filigrana anche autobiografico. Ma ora passiamo a un ben diverso saggio, più distaccato nonostante manipoli un testo sacro rovente già nel titolo ebraico ’êkah, «come mai?», l’eterna domanda davanti al male. In questo caso è una rovina nazionale generata da un’invasione militare, quella babilonese del 586 a.C. con la distruzione di Gerusalemme. Emblematico sarà, allora, anche il titolo della versione greca Threni, «Lamentazioni», così come lo è quello assegnato al suo commento dal biblista milanese Luigi Nason, La poetica del silenzio di Dio.
Sono cinque pagine bibliche non omogenee tra loro che qui vengono analizzate secondo i canoni storico-critici, cercando di perforare «il silenzio di Dio pervasivo e assordante» che avvolge e travolge gli attori di questi capitoli, a partire dalla «figlia di Sion», la città santa che «piange incessantemente nella notte, lacrime sulle sue guance. Non ha nessuno che la consoli» (1, 2). La frase finale è sospesa, segnata dallo scoramento ma forse anche dall’attesa che il silenzio divino si infranga: «A meno che tu non ci abbia rigettati per sempre, non ti sia adirato senza misura contro di noi…» (5, 22).