Domenicale, 20 agosto 2023
Storia dell’Almanacco Bompiani
A volte ritornano. Per tutti quelli che si sentono rassicurati dalle tradizioni, la recente decisione di Bompiani di riprendere la pubblicazione del suo Almanacco, con il titolo L’anno del fuoco segreto, curato da Edoardo Rialti e Dario Valentini, è certamente un segnale confortante. Si tratta, infatti, del recupero di un’iniziativa editoriale che ha alle sue spalle quasi un secolo di storia, quasi sempre piuttosto gloriosa.
Importanti sono già le origini, a metà degli anni 20 del Novecento. La Mondadori di Arnoldo è la casa editrice del futuro: pubblica i più brillanti autori italiani contemporanei, e sta corteggiando furiosamente Gabriele d’Annunzio e Luigi Pirandello, che in breve cederanno alle sue lusinghe. Solo un marchio con tanta ambizione può avere l’idea di fare un punto annuale sullo stato delle lettere, pubblicando un Almanacco. I collaboratori dell’editore hanno l’idea, il fondatore approva e la affida la pubblicazione al suo braccio destro, Valentino Bompiani, che ne cura i primi quattro numeri.
Quando, dopo un breve rodaggio, il giovane Valentino sente di avere le ali per volare in solitaria, chiede al capo di poter portare con sé quella iniziativa. Arnoldo acconsente. Nasce così nel 1929 l’«Almanacco Letterario Bompiani», che vive la sua prima fase di grande spolvero. Anche in quella casa neonata le ambizioni non mancano; certo, non ci sono le forze per pubblicare i classici della contemporaneità; ma giovani di successo sì: sono i Moravia, i Bontempelli e gli Zavattini che danno subito lustro al catalogo, ben presto affiancati da un manipolo di autori stranieri, soprattutto americani, scelti da Elio Vittorini e tradotti da Montale o altri grandi (va detto che in quel catalogo, insieme a varie opere di convinta adesione al regime, si trova anche l’Adolf Hitler di Mein Kampf: ombra cupa che non andrebbe mai omessa quando si racconta questa storia; e invece troppi lo fanno). Sono questi giovani autori che animano le pagine dell’Almanacco, affiancati da un giovane grafico brillante come Bruno Munari, che mostra una creatività continua e sovente quasi acrobatica. Alcune sue trovate, come la faccia di Mussolini che occhieggia su alcune fotografie da un buco nelle pagine, via di mezzo tra piaggeria e derisione, sono ancora oggi citate nelle scuole. E se, come detto, della partita non fanno parte i maggiori, nulla vieta di parlarne: come nel 1937, quando l’intero numero viene dedicato a Pirandello appena morto.
Tra le sue tante nefandezze, la guerra ha anche quella di interrompere le cose belle. Nel 1943, dopo quasi 20 anni di onorato servizio, l’Almanacco non esce. Rimarrà assente dalle librerie per un periodo quasi altrettanto lungo: l’edizione successiva è quella del 1959. 17 anni di pausa possono essere pochi o molti, a seconda dei punti di vista, e portare cambiamenti immensi o soltanto parziali. L’Almanacco si pone nel mezzo: dal punto di vista della grafica continua ad affidarsi a Bruno Munari, non più irriverente come negli anni fascisti, ma sempre curioso sperimentatore di forme, geometrie, colori. Se quelli dell’anteguerra erano fascicoli dall’aspetto rigoroso, più austero che no, questi, patinati, corposi, sono decisamente più affini all’Italia del boom. Il cambio più evidente riguarda i contenuti, alla corte di Valentino Bompiani, ormai “zio Val”, è approdato un gruppo di altri giovani curiosi e variamente indisciplinati, capitanati da uno che non ha neppure trent’anni e talento da vendere: Umberto Eco. La rinascita dell’Almanacco si deve soprattutto a lui, che insieme a Fabio Mauri decide di farne una bussola per i tempi che vengono, mettendo un argomento al centro del fascicolo di ogni anno. Nascono così numeri monografici che idealmente affiancano le collane di saggistica più in voga, e – letti in successione – danno la cartina più precisa della mutazione in corso: si spazia dal difficile dialogo tra le generazioni («Ciò che i vostri figli non vi dicono», 1971) all’«Inquietudine religiosa» (1969) o al protagonismo del cinema («L’età dell’immagine», 1963) senza trascurare temi di più tradizionale natura letteraria («L’industria della narrativa», 1965). A testimonianza della centralità delle tematiche, tutte le case editrici concorrenti usano abbondantemente la pubblicazione per pubblicizzare i loro titoli; e anche questo, oggi, è un importante strumento per analizzare la produzione letteraria.
All good things come to an end: dopo altri vent’anni anche questa fase giunge a compimento. D’altronde lo Zio Val ha venduto il marchio, Munari ha passato la settantina e l’Italia della Milano da bere non è quella dei due decenni precedenti. L’ultimo numero giunge nel 1980, anno di passaggio non solo tra decenni, ma proprio tra mentalità.
Questa volta per riprendere l’iniziativa di anni ce ne sono voluti più di 40. Inutile dire che i protagonisti delle fasi precedenti stanno tutti, da tempo, nell’album dei ricordi. In questo caso, quindi, dare qualche segnale di continuità era più complesso. E infatti, all’apparenza, questa edizione (pagg. 234, € 25), che presenta una selezione di autori giovani provenienti dal blog Nazione indiana è più simile a un’antologia di nuova fattura che ai precedenti descritti sopra. Lo stesso può essere detto del tema, che si legge nel sottotitolo «Il nuovo sconcertante italico» e vuole sottolineare il terreno comune scelto: racconti finalizzati a «rispondere a una medesima domanda che è anche una sfida: che cosa vuol dire scrivere un racconto sconcertante nell’Italia di oggi?». Diciamo che per chi è abituato a generi assai più tradizionali la risposta non pare essere così convincente. Ma forse è la stessa perplessità che provavano i lettori più attempati quando nel 1929 il giovane Moravia iniziava il suo romanzo con le sole due parole «Entrò Carla». E comunque anche i nostri nonni avranno salutato con piacere la novità di un Almanacco che dava spazio a voci diverse da quelle dei soliti noti.