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 2023  agosto 20 Domenica calendario

In morte di Carlo Mazzone


Antonio Barillà per La Stampa
È andato via a 86 anni, nel giorno d’apertura del campionato di Serie A: da centrocampista l’aveva solo annusato – due presenze nella Roma prima di diventare bandiera dell’Ascoli, in C – ma da allenatore aveva inciso un’impronta profonda, 792 partite che valgono il record assoluto.
Non è stata solo la statistica, però, a regalare a Carlo Mazzone un posto nella Hall of Fame e la Panchina d’Oro alla carriera: ha vinto poco, ma insegnato calcio ovunque e costruito miracoli in provincia, ha lanciato Totti a 16 anni e inventato Pirlo playmaker, illuminato il tramonto di Baggio. Allenatore papà – non ne esistono più – che aveva a cuore i ragazzi prima dei campioni, burbero e insieme bonario, capace di instaurare rapporti forti ed eterni: se il Codino pretese a Brescia una clausola per svincolarsi in caso di suo esonero, Guardiola ch’era suo compagno gli ha dedicato la prima Champions vinta con il Barça.
Lascia un ricordo dolce ai mille figli allevati in una vita dedicata al calcio, alla famiglia che ha sempre coccolato pur cambiando dodici città in trentotto anni, da Ascoli a Livorno -, a chi l’ha conosciuto solo in tv ma ne ha apprezzato, oltre alle idee tattiche, la schiettezza e la simpatia, il sorriso istrionico e i modi ruspanti. E si badi che è sempre stato diretto, nemico di diplomazie spicciole o adulazioni scaltre.
Lo chiamavano Sor Carletto o Sor Magara per quel marcatissimo accento romano mai perso, imparato da piccolo nel primo “stadio”, piazza Santa Maria in Trastevere dove correva sempre a giocare allontanandosi dall’officina di papà Edmondo e mamma Iole, riassunto in una corsa sfrenata diventata simbolo di genuinità e passione: allenava il Brescia e durante un derby acceso con l’Atalanta i tifosi bergamaschi lo coprirono d’insulti, sul 2-3 si voltò verso la curva e sibilò «se pareggiamo vengo lì». E quando Baggio ci riuscì al 90’ – punizione deviata da Rinaldi – scattò come invasato e a stento trattenuto: «Li mortacci...». Tuta e pancetta, scena alla Oronzo Canà – nell’"Allenatore nel pallone 2” ha interpretato se stesso in un cameo – lontanissima dallo stereotipo dei tanti damerini ingessati e incravattati di oggi, che ben descrive, però, un uomo puro e verace.
Lui non s’è mai pentito, noi sbaglieremmo a fermarci a quell’immagine, Mazzone era molto di più, era un allenatore preparato e innovativo: «La tecnica è il pane dei ricchi – diceva -, la tattica è il pane dei poveri» e quando lo definirono «Trapattoni dei poveri», replicò che era «Trap il Mazzone dei ricchi».
Ad Ascoli, sua città adottiva, dove ieri ha chiuso gli occhi per sempre, applicava la zona mista e contaminava i ruoli quando il pallone nostrano viveva di rigide marcature, difatti i tifosi chiamavano Via del bel calcio la strada che portava allo stadio.
Altra frase cult: «Ho cucinato di tutto, senza mai servirmi al mercato delle prime scelte». Però vuoi mettere l’Ascoli pilotato dalla C alla prima Serie A della storia, le due salvezze di fila a Catanzaro, il sesto posto a Cagliari? Strappi alla provincia profonda furono la Fiorentina – terzo posto e Coppa di Lega italo-inglese -, il Napoli dove fu meteora e, soprattutto, la Roma. La sua Roma. La squadra che da piccolo andava a vedere in tram con gli zii e per la quale ha sempre tifato. Quella che lo spinse a dipingere di giallorosso la serranda di un amico laziale. Quella di cui, da avversario, disse: «È mio dovere provare a batterla, ma è come uccidere la propria madre». Fu lui a lanciare Totti («Perché sprecare soldi? Abbiamo lui» replicò al presidente che pensava a Litmanen), consigliarlo e proteggerlo: quando i giornalisti l’abbordarono famelici dopo il debutto intervenne, «A ragazzì vatte a fa a doccia che ce parlo io». Non è un caso che il docufilm a lui dedicato da Di Cosimo, uscito poco più di un anno fa su Prime Video, si intitoli “Come un padre” e non è un caso che partecipino tanti suoi figli: Pirlo, ch’era mezzapunta e ribattezzò regista cambiandogli vita, Guardiola che rimase esterrefatto per quella corsa ma ha imparato subito ad amarlo, e poi Materazzi, Di Biagio, Ranieri e Signori. A Bologna, quando gestì Beppe-gol, era ormai vicino ai settanta: «Alla mia età – disse nello spogliatoio – fatico a capire le vostre 25 teste: vi chiedo di capire la mia che è una sola». Poi andò ancora al Livorno e disarcionò Nereo Rocco dal trono di recordmen delle panchine di A. Lui, che ha conosciuto la gavetta, custodisce anche quello assoluto: 1.278 panchine ufficiali.
Lascia un vuoto, si dice sempre così ma è verissimo. E lascia mille aneddoti, mille storie, mille siparietti gustosi. Una volta, ai tempi della Roma, si rivolse ad Amedeo Carboni, terzino che s’era sganciato: «Quante partite hai fatto in serie A?» «350, mister». «E quanti gol?». «4, mister». «Allora vorrei sapere ‘ndo ca… vai: torna in difesa». —

Maurizio Crosetti per RepSe ne va papà, se ne va nonno. Tra Mazzone e Roberto Baggio correvano trent’anni esatti, tra lui e Totti trentanove, quello era ancora un calcio di equilibrio e distanza filiale, di profondo rispetto generazionale attorno alla tavola della domenica. Per questo adesso ci sentiamo orfani, veramente. E non poteva esserci titolo migliore, “Come un padre”, per il film di Alessio Di Cosimo che lo scorso anno non ha avuto bisogno della scomparsa del protagonista per raccontarlo per quello che era, cioè un classico dello sport, ma anche di un pezzo di società italiana che il tempo inevitabilmente sfarina. Padri, figli, nipoti, bisnipoti. E naturalmente madri, nonne, zie, sorelle, tutta la densissima umanità femminile che con Mazzone ha fatto famiglia, cominciando dalla sua Maria Pia, sposata sessant’anni fa. Come si guardavano, ragazzi, quei due, anche da vecchi.Il maestro di vita, si dice così. A volte è retorica, nel caso di Mazzone no. Perché c’era un profondo rapporto pedagogico tra lui e i giocatori, senza mai salire in cattedra ma con strumenti più sottili e persuasivi: l’ironia, la passione, il sentire insieme, zero prediche, solo l’esempio.«Per il mister mi sarei buttato nel fuoco», ha detto Baggio. «Mi ha insegnato a stare al mondo», questo invece è Totti. «Tra noi è stato amore a prima vista», ecco Pirlo che è tra quelli che possono liberare Mazzone dalla trappola folkloristica, perché Carlo gli inventò il ruolo che fece la sua fortuna, e lo stesso con Giannini. Il primo Totti, l’ultimo Baggio, poi Guardiola che dopo la vittoria in Champions avrà letto il messaggio del maestro su Twitter: “Come un figlio, siamo sempre con te”. Ancora lì si torna, a questa magnifica famiglia allargata.Diciamo dunque addio a uno degli ultimi padri fondatori dell’amore magistrale, socratico, su un campo di calcio. Uno come il Trap, come Radice e Bearzot, Vicini e Liedholm, Bagnoli e Boskov, Mondonico e Ranieri, e potremmo continuare. L’allenatore al quale si dava del lei e che non era quasi mai coetaneo dei calciatori, come a volte accade oggi, non era una star, non replicava colleghi tutti uguali, a modino, plastificati, ben pettinati, assai ben stipendiati, abili nel parlare molto per dire niente. L’esatto contrario degli aforismi fulminanti di Carletto. Averne ancora? Magara.Come un padre, questo tipo di allenatore sapeva dire e si faceva capire anche tacendo, fossero tattica o sesso o destini da rincorrere. Non è un caso che il suo territorio fosse la provincia. Mazzone ha vissuto ad Ascoli, e smise di allenare perché dopo i settanta non poteva tornare a casa in macchina tutte le domeniche di notte. Il senso della piccola patria come motivo fondante di tanto orgoglio: «Sono felice di aver fatto parlare della città di Ascoli in tutt’Italia». Una geografia di periferie che rappresentano invece il cuore pulsante più vivo del nostro Paese. Carlo Mazzone le abitava sentendosi a casa, e lo era incredibilmente anche sui social, dove negli ultimi anni si mostrava con nipoti e bisnipoti («Nonno, ci facciamo un selfie?». «Un selfie? E che dovemo da fà»?»), dolcissime foto piene di cuoricini in cui il patriarca appariva sempre più vecchio, più smagrito e fragile, come un bimbo che torna a casa. Ed è lui che ora accarezziamo, come padri.


Luca Valdiserri per il CdS
«La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è quello dei poveri». Carlo Mazzone, morto ieri a 86 anni, quasi 40 dei quali vissuti da allenatore, ha avuto spesso a che fare con il pane duro. Le sue 792 panchine sono state figlie di una gavetta vera, non gli è stato regalato nulla. Però, ogni volta che ha potuto, ha intinto quel pane nel caviale del calcio più paradisiaco. Lo hanno spesso accusato di essere un difensivista, ma ha conquistato il cuore dei numeri 10 più raffinati – da Roberto Baggio a Francesco Totti – e ha dato qualche dritta a chi poi, con le idee e con i soldi, ha fatto davvero la rivoluzione del pallone: Pep Guardiola.
Carletto se ne è andato a 86 anni, proprio quando il campionato stava per cominciare. Le parole più belle non le ha dette un calciatore ma un musicista, Marco Conidi, grande tifoso giallorosso come Mazzone: «Forse sei voluto andare via prima di vedere un altro campionato così lontano dal calcio che hai insegnato tu, dove il rispetto e l’educazione erano tutto...Forse non volevi vederlo più questo calcio senza uomini, senza bandiere».
Francesco Totti ha esordito in serie A con Vujadin Boskov in panchina, su suggerimento di Sinisa Mihajlovic, ma è stato Mazzone a schierarlo per la prima volta da titolare in giallorosso: «Padre, mister e maestro. Eternamente grazie. Sei e sarai sempre nel mio cuore. Grazie per tutto quello che hai fatto per me». E Roberto Baggio, al Brescia, è tornato Divin Codino quando in tanti lo avevano scaricato: «Era un gigante di umanità. Per lui avrei fatto l’impossibile. Gli ho voluto bene perché è sempre stato un uomo puro. Con lui c’era un rapporto senza filtri di rispetto reciproco. Lui più di tutti aveva capito che persona sono. È andato oltre quello che gli avevano raccontato di me».
Quella mitica corsa
Quella corsa verso gli ultrà dell’Atalanta: «Se famo er 3 pari, je vado sotto la curva...»
Mazzone ha girato l’Italia in panchina trentotto anni, di emozioni e risultati. Ha portato l’Ascoli in serie A; a Firenze ha dato la fascia di capitano a Antognoni e vinto un trofeo Anglo-Italiano; ha riportato il Cagliari in Europa dopo 21 anni di assenza; ha vinto una Coppa Intertoto con il Bologna; ha inventato Pirlo regista al Brescia; è stato il primo allenatore dell’era-Sensi alla Roma e ha lanciato Totti, che vale più di uno scudetto. La vittoria che più gli era rimasta nel cuore è stata il derby contro la Lazio del 27 novembre 1994: un 3-0 contro Zeman, che veniva presentato come il calcio moderno contro il suo calcio antico. Ai laziali, però, quando era sulla panchina del Perugia ha fatto un grande regalo: battere la Juve nel pantano e decidere il campionato 2000. «Ci voleva un romanista per far vincere lo scudetto alla Lazio», disse il sor Carletto. Anche i siti laziali, ieri, erano pieni di ricordi e ringraziamenti.
Era un uomo vero, che sapeva riconoscere gli errori che tutti commettiamo, rendendoli umani. Come la corsa folle del 30 settembre 2001, che gli costò 5 giornate di squalifica. Allenava il Brescia, perdeva 1-3 contro l’Atalanta e la curva nerazzurra lo scherniva. Poi il 3-2 e un pensiero in romanesco: «“Se famo er tre pari, je vado sotto la curva”». Pareggia Baggio, Carletto parte davvero. «Ma quello non ero io – dirà poi —. Era il mio gemello».
Lo chiamavano Er Magara perché alla vigilia di una missione impossibile con il Catanzaro contro la Juventus, un giornalista romano gi disse: «La tua squadra va forte, potete mettere in difficoltà la Juve?». Lui rispose: «Magari!». Poi il giornalista esagerò: «Potete pure vincere». E lì uscì il Mazzone vero: «Magara!». Che in romanesco è un magari moltiplicato cento.
Da tempo era lontano da un calcio che non era più il suo. Un calcio senza riconoscenza, come Mazzone aveva capito quando Francesco Totti, il suo preferito, fu prima umiliato e poi praticamente costretto a smettere: «Non doveva finire così, non è stato giusto per chi ci ha fatto così tanto divertire». E anche noi, col Magara, ci siamo divertiti. Come in una corsa sfrenata contro l’ingiustizia.