Corriere della Sera, 20 agosto 2023
In morte di Roberto Colaninno
Manuel Follis per La Stampa
Aveva compiuto 80 anni lo scorso 16 agosto e anche quest’anno lo attendevano in Salento a passare qualche giorno di relax e vacanza nella villa a picco sul mare a San Gregorio. Ieri è però arrivata la notizia della scomparsa di Roberto Colaninno, imprenditore che guidava il gruppo Piaggio e che è stato per oltre 30 anni tra i protagonisti della finanza e dell’industria italiana.
«Visionario» e «illuminato» sono tra gli aggettivi più frequenti che si trovano tra le parole di commento di chi ieri ricordava l’imprenditore. A fine Anni ’90 ha intuito, prima di molti altri, che il mondo della telefonia poteva essere una gallina dalle uova d’oro e dal 2000 in poi ha trasformato Piaggio dal semplice «gruppo della Vespa» a un colosso internazionale delle due ruote. Ripercorrere la sua carriera è un po’ come fare un viaggio sulle montagne russe.
Inizia tutto a Mantova dove la sua famiglia si trasferisce dal Sud. Il luogo di origine è Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari (paese in cui esiste anche una via intitolata a «Roberto Colaninno»). L’anno fondamentale nella storia del manager è il 1969, quando l’allora 26enne Colaninno, diplomato in ragioneria, fa il suo ingresso nella Fiaam, azienda mantovana di componentistica auto di cui è prima direttore amministrativo e poi amministratore delegato. Il ’69 è anche l’anno in cui sposa Oretta Schiavetti dalla quale ha due figli, che oggi lavorano entrambi in azienda: Matteo, nato nel 1970, è vicepresidente esecutivo del gruppo Piaggio (ed è stato deputato del Pd e oggi di Italia Viva) e Michele, classe 1976, che è amministratore delegato e dg di Immsi, la holding che controlla Piaggio.
La scalata alle vette della finanza e dell’industria inizia nel 1981 quando Colaninno fonda la Sogefi, sempre a Mantova e sempre nel settore della componentistica per auto, società che sarà poi assorbita dalla Cir della famiglia De Benedetti. Il grande passo arriva nel 1996 quando viene nominato amministratore delegato di Olivetti. L’azienda di Ivrea è famosa nel mondo per le macchine da scrivere e per i computer, ma è ormai in crisi. Ci pensa il «visionario» Colaninno, che senza indugi dice addio all’informatica e trasforma la società in una holding di telecomunicazioni. Sono gli anni di Infostrada e di Omnitel. Proprio la cessione di quest’ultima ai tedeschi di Mannesmann per oltre 15 mila miliardi di lire (circa 7,6 miliardi di euro) è il punto di partenza dell’opa alla Telecom, società che due anni prima è stata privatizzata.
Inutile girarci intorno, la vicenda Telecom è quella che ha proiettato Colaninno nella storia, ma per molti non dalla parte giusta. Nel corso degli anni si sono susseguite testimonianze e analisi convinte che l’opa di Colaninno e Chicco Gnutti, la “razza padana”, su Telecom (operazione accompagnata dalla silenziosa approvazione dell’allora governo guidato da Massimo D’Alema), sia in qualche modo l’origine dei mali della società tlc. Telecom Italia vede più che raddoppiare il peso dei suoi debiti finanziari che passano da 8 a 19 miliardi nel 2000 per poi salire ancora verso quota 24 miliardi nel 2001, ma nel frattempo ai soci viene distribuito quasi tutto l’utile netto e i dividendi raddoppiano a oltre 2,3 miliardi l’anno.
Proprio nel 2001 Gnutti decide però di cedere il controllo di Telecom a Marco Tronchetti Provera. Quella del bresciano è un’impostazione prettamente finanziaria. Colaninno è in disaccordo e si dimette ma l’affare va in porto e i soci della scalata ne ricavano una cospicua plusvalenza. «Ero ricco, ma anche incazzato» commenterà anni dopo il manager.
Il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, lo ha definito tra le altre cose «imprenditore instancabile». La tenacia di sicuro è una delle caratteristiche che contraddistingue la vita di Colaninno. Uscito da Telecom, tempo un anno e parte una nuova avventura.
Nel 2002, grazie anche alla buonuscita e alle stock options ottenute da Olivetti, il manager mantovano riparte acquisendo Immsi, società del settore immobiliare. Ma non è il real estate il business che interessa a Colaninno, che trasforma subito Immsi in una holding industriale e nel 2003 conquista Piaggio, che sotto la guida e le scelte del manager mantovano cresce anno dopo anno, affiancando al settore degli scooter quello delle moto. Nel dicembre 2004 infatti il «visionario» imprenditore amplia il perimetro industriale del gruppo e acquista i marchi Aprilia e Moto Guzzi. Basta un rapido flash forward di 20 anni per capire cosa è successo sotto la guida di Colaninno. Il bilancio 2003 si era chiuso con ricavi per 900 milioni di euro ma anche con una perdita di 138 milioni, mentre nei soli primi sei mesi del 2023 il gruppo, che nel frattempo è stato quotato in Borsa, ha registrato conti record con un fatturato di 1,17 miliardi e un utile netto di quasi 65 milioni.
Certo, non tutto è sempre andato come previsto. Nel 2008 Colaninno risponde alla chiamata del premier Silvio Berlusconi per il salvataggio di Alitalia. Immsi è tra i soci fondatori di Cai (Compagnia Aerea Italiana) e Colaninno presiede la società che punta a rilanciare la compagnia di bandiera. Una mission impossibile ostacolata da indecisioni politiche, dagli appetiti di Air France e dal miraggio Ethiad.
Riservato, concreto, senza troppi fronzoli, Colaninno era uno di quei manager capaci di tenere rigidamente separati il lavoro e la famiglia e non a caso in società raccontano che dava del «lei» a molti dei suoi collaboratori e quasi nessuno lo ha mai visto accompagnato dalla moglie. Però amava la vita di azienda, i macchinari, le linee di produzione. Ricordando i tempi di Telecom diceva «non toccavo il prodotto, vedevo le bollette, ma mi mancava la sensibilità fisica della produzione». Andy Warhol sosteneva che aver successo negli affari è il più affascinante tipo di arte. L’industria italiana ieri ha perso un protagonista che quell’arte la conosceva bene. —
Giovanni Pons per Rep
Se ne va un protagonista del capitalismo italiano degli ultimi trent’anni, Roberto Colaninno, classe 1943, un imprenditore verace che dalla provincia di Mantova è riuscito a scalare le vette delle grandi società quotate in Borsa, con alterne vicende: prima con la Sogefi, poi all’Olivetti, quindi il salto carpiato in Telecom Italia, il ritorno sulla terra con il rilancio della Piaggio e il tentativo finito male di risollevare l’Alitalia.
Un manager che ben presto è diventato imprenditore, fin da quando aveva il 5% della ex Fiamm (poi Sogefi), società che vendeva filtri per auto e che agli inizi degli anni ’90 portò in dote all’Ingegner Carlo De Benedetti, l’uomo che da quel momento fu determinante per la sua carriera.
Dopo aver dimostrato caparbietà e tenacia in un settore difficile e poco glamour come la componentistica auto, Colaninno nel 1995 viene chiamato proprio dall’Ingegnere per una “mission impossible”, il rilancio dell’Olivetti che stava rischiando di caracollare a causa del declino nel business dei Pc, ma che aveva in pancia una pepita d’oro non ancora valorizzata del tutto, Omnitel. È già in quel frangente, raccogliendo il guanto di sfida in cambio di generose stock option, che il ragioniere di Mantova, così veniva chiamato, mostrò il suo coraggio ed entrò nel grande giro del capitalismo italiano, sebbene non ne avesse mai frequentato i salotti, neanche successivamente. L’impresa era ardua, si trattava di smantellare ilcore businessdella società di Ivrea, puntando tutto sul crescente sviluppo della telefonia mobile che l’Ingegnere era riuscito a strappare dalle mani di Berlusconi con un’offerta generosa e appena prima che il Cavaliere diventasse presidente del Consiglio per la prima volta.
Per Colaninno il famoso coniglio dal cappello spuntò fuori grazie a Giorgio Garuzzo, manager Fiat, che gli presentò i tedeschi della Mannesmann, azienda manifatturiera che stava affrontando un percorso simile all’Olivetti avendo appena vinto la gara per gestire la telefonia mobile in Germania. Forte della sua indiscussa capacità nel condurre le trattative, anche con toni aspri, partì alla volta di Dusseldorf con i consulenti più fidati, il banchiere della Lehman Brothers Ruggero Magnoni e l’avvocato Sergio Erede, facendo tappa a Saint Moritz dove riuscì a strappare l’ok dell’Ingegnere allavendita di una quota di minoranza della Oliman, la scatola che controllava Omnitel. «Se ce la fa, lei è Mandrake», raccontano che gli disse De Benedetti e al ritorno, forte dell’accordo con i tedeschi, riuscì a strappare al banchiere Pier Francesco Saviotti una linea di credito di 100 miliardi di lire con cui riuscì a pagare gli stipendi ai dipendenti Olivetti.
Ma l’accordo conteneva una clausola capestro, che condizionò il futuro delle telecomunicazioni in Italia: dopo tre anni era prevista la possibilità per Mannesmann di prendere il controllo di Omnitel senza pagare un premio di maggioranza. È da questa spada di Damocle che nacque nel 1999 la pazza idea di vendere tutta Omnitel ai tedeschi (che poi sarà rivenduta alla Vodafone) per ottenere i soldi necessari a scalare Telecom. L’Opa del secolo, 100 mila miliardi di valutazione dell’azienda, arrivò come un fulmine (quasi) a ciel sereno mentre Massimo D’Alema aveva appena raccolto i cocci di un governo Prodi caduto sotto i colpi di Bertinotti e Franco Bernabè da due mesi era al vertice della società di tlc appena privatizzata. È in questo contesto che Colaninno e la “razza padana”, formata da un nugolo di imprenditori bresciani capeggiati da Emilio Gnutti, si lanciarono all’attacco del “piccolomondo antico” del capitalismo italiano, sostenuti da D’Alema e da Pierluigi Bersani, dalla Consob di Spaventa, dalla Mediobanca di Cuccia che scelse di affiancare le grandi banche internazionali, Lehman, Chase Manhattan, Dlj, nel finanziamento di un’offerta ostile senza precedenti in Europa. L’impresa riuscì ma da quel momento cominciarono i guai. I due anni vissuti pericolosamente da Colaninno a capo della Telecom, tra tagli dei costi, operazioni finanziarie volte a ridurre il debito, acquisti spericolati nel bel mezzo della bolla internet (Seat fu valutata 20 miliardi di euro), finiscono con lo stop del banchiere Silvano Pontello che chiede a Gnutti e soci di rientrare dai debiti e con Erede che fa da ponte alla discesa in campo dei Benetton e della Pirelli. Per il ragioniere di Mantova, che esce abbattuto nell’animo ma ricco nel portafogli (più di 350 milioni in tasca), si apre un nuovo capitolo della carriera.
Dopo aver per un momento messo gli occhi sulla Fiat, torna con i piedi per terra puntando i suoi soldi sul rilancio della Piaggio, che gli riesce benissimo, mettendo a frutto le sue capacità di manager e imprenditore attento ai costi e rispettoso dei rapporti con i lavoratori. Capisce ben presto che il marchio Vespa può aprire nuove frontiere e si lancia alla conquista dei mercati del sud est asiatico, prima in Vietnam, contro il parere di tutti, poi in India e quindi in Indonesia, dove lo scorso marzo ha inaugurato un nuovo stabilimento. Anche le moto di Aprilia e Guzzi sono rimesse su un percorso positivo, la scelta di entrare nella Moto GP è ancora sua, e si rivela azzeccata. Sulla sella di Piaggio Colaninno si afferma sempre più come l’industriale dei trasporti italiano, anche se fallisce dove nessuno è riuscito finora a guadagnare un soldo, l’Alitalia. Nel 2008 Berlusconi torna al governo, rompe l’accordo con i francesi di Air France-Klm e sollecita una cordata di “capitani coraggiosi” a scendere in campo. Colaninno si fa attirare dalla sirena della sfida per le imprese impossibili, vorrebbe una rivincita dopo l’esperienza troncata sul nascere in Telecom, fa ancora di testa sua e si getta nella mischia. Ma le paludi romane lo risucchiano e deve capitolare con 100 milioni di perdite per la sua Immsi. Ora toccherà ai figli Michele, che già gestisce la holding di famiglia, e Matteo, per tre legislature eletto nelle liste del Pd, raccogliere il testimone, soprattutto alla Piaggio dove non esiste un piano di successione ben definito.
Michelangelo Borrillo per il CdS
«E se poi lancia un’Opa sulla General Motors?». La frase attribuita a Gianni Agnelli in risposta a Luca Cordero di Montezemolo che lo avrebbe visto bene alla Fiat, rende perfettamente l’idea del ruolo che si è costruito in mezzo secolo di impresa Roberto Colaninno. L’uomo delle scalate, sociali e finanziarie, vere o presunte. Da ragioniere di Mantova a protagonista dell’economia italiana, attraverso la madre di tutte le Offerte pubbliche di acquisto, quella della Telecom nel 1999, due anni dopo la privatizzazione. Quando la principale società italiana era nelle mani del cosiddetto «nocciolino duro» composto dall’Ifil degli Agnelli e dalle principali banche italiane e venne conquistata sul terreno della Borsa dall’offerta del ragioniere di Mantova. Che riuscì a convincere con una offerta cash (a debito) gli investitori istituzionali, tanto da meritarsi non solo la laurea honoris causa in Economia e commercio dell’Università di Lecce che cancellò il «rag» dinanzi al suo cognome, ma anche l’appellativo di «capitani coraggiosi» coniato dall’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema per lui, Emilio Gnutti e gli altri imprenditori bresciani della cordata Telecom che avevano messo all’angolo i poteri forti.
Un’impresa da magnate della finanza per un manager che, però, non amava essere definito finanziere. Nato in una famiglia originaria della terra del Sud – di Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari – radicatasi nel profondo e operoso nord padano, Colaninno ha sempre preferito la concretezza dell’impresa alla volatilità della finanza. E da imprenditore è morto ieri, dopo aver compiuto da pochi giorni 80 anni (lo scorso 16 agosto), lasciando non solo la carica di presidente di Immsi, la finanziaria di famiglia, ma anche quella di presidente e amministratore delegato di Piaggio, l’azienda della Vespa acquistata nel 2003, portata in Borsa e rilanciata anche con l’acquisizione dei marchi motociclistici del «made in Italy» Aprilia e Moto Guzzi.
Senza clamore, come da carattere riservato ma tenace e capace di anticipare i cambiamenti. Una riservatezza che mantiene anche la famiglia che ha deciso per i funerali in forma privata senza rendere noti la data e il luogo esatto.
Ma quello nel gruppo motociclistico con base a Pontedera è solo il secondo tempo della carriera professionale di Roberto Colaninno, iniziata nel 1969 alla Fiaam, azienda mantovana di componentistica auto di cui è prima direttore amministrativo e poi amministratore delegato. «Il primo tempo», titolo della sua biografia fino al 2006 – pagine in cui per la prima volta il solitamente riservatissimo Colaninno si racconta – è legato al mondo delle telecomunicazioni e a Carlo De Benedetti. Nel 1995 è amministratore delegato di Olivetti nel momento della massima crisi d’identità dell’azienda. Colaninno si rende conto che bisogna uscire dall’informatica: l’azienda di Ivrea famosa nel mondo per macchine da scrivere e computer ha necessità di cambiare pelle, perché il mondo sta cambiando. Così trasforma il gruppo in una holding concentrata soprattutto nelle telecomunicazioni con Omnitel – prima compagnia di telefonia mobile privata – e Infostrada, gestore della rete fissa in alternativa a Telecom, all’epoca monopolista. Una visione. Che si rivela ben presto redditizia: nel 1998 riesce a vendere per oltre 7 miliardi di euro Omnitel, all’epoca secondo gestore nazionale dei cellulari, ai tedeschi di Mannesmann (poi passerà alla Vodafone). Proprio partendo da quel «tesoretto tecnologico» nasce l’idea coraggiosa dell’Opa su Telecom Italia che rese Colaninno un manager e imprenditore di fama internazionale con il successo della scalata della «razza padana». Successo che non venne replicato con l’Alitalia, nel tentativo di salvataggio del 2008 di Cai, la Compagnia Aerea Italiana di cui fece parte anche Colaninno.
Unanime ieri il cordoglio del mondo della politica (a partire dai ministri Gilberto Pichetto Fratin, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Guido Crosetto e Anna Maria Bernini) e dell’imprenditoria (con i concittadini Emma e Antonio Marcegaglia in prima fila) che lo ha ricordato come grande industriale e italiano apprezzato nel mondo. Parole che non potranno che far piacere alla famiglia Colaninno. Dalla moglie Oretta Schiavetti, sposata nel 1969, Colaninno ha avuto due figli: il primo, Matteo, è vicepresidente esecutivo di Piaggio; il secondogenito, Michele, è amministratore delegato e direttore generale della holding industriale Immsi. Ai vertici di quella montagna imprenditoriale costruita partendo dal nulla dal manager delle scalate.
Michelangelo Borrillo e Nicola Saldutti per il CdS
Roberto Colaninno è stato un protagonista dell’economia italiana: Olivetti, Telecom, Piaggio. È morto a 80 anni. De Benedetti: «Eravamo concorrenti, è diventato un amico».
«È l’unica persona che ha vissuto un pezzo di strada importantissima con me. Aveva con me una sorta di rapporto di figliolanza, anche se avevamo soltanto nove anni di differenza. L’Italia perde un grande imprenditore, aveva una capacità di lavoro, un coraggio e un ottimismo di cui c’è un gran bisogno per questo Paese».
Carlo De Benedetti ripercorre la lunga storia insieme con Roberto Colaninno. Due uomini profondamente diversi, le cui strade si sono incrociate tanti anni fa: «Colaninno lavorava in un’azienda a Mantova, la Fiaam Filter, di filtri olio e aria per auto. All’epoca ero a capo della Gilardini. Eravamo concorrenti…».
Concorrenti?
«Sì, anche noi producevamo filtri. Ci siamo conosciuti allora e ho visto in lui un grande potenziale, non soltanto come manager, ma come imprenditore. Così insieme abbiamo fondato la Sogefi nel 1981, lui amministratore delegato, io presidente. Il nostro lungo rapporto è nato così».
Poi la svolta dell’Olivetti?
«Quando in Olivetti mi ritrovai senza amministratore delegato, con l’uscita di Caio, conoscendo le sue capacità, la sua dedizione al lavoro e le sue doti gli proposi di lasciare Sogefi. E diventò lui il capo azienda dell’Olivetti. E per la verità mi ricordo che non disse subito sì…»
Perché?
«Era molto legato a sua moglie Oretta, tornò a Mantova per parlarne con lei. Poi venne a Ivrea e accettò la sfida. Prendemmo insieme la decisione di vendere la perla Omnitel (la società di telefonia mobile, ndr ) ai tedeschi di Mannesmann che poi la rivendettero a Vodafone. In quegli anni fece un lavoro straordinario, cercò di ridurre i costi anche perché l’Olivetti era in una strana situazione, non c’erano più i prodotti per cui era nata, le macchine da scrivere, ed era diventata la società più liquida d’Italia, una specie di cassaforte che però continuava a perdere sul suo business tradizionale…».
Allora partì per l’avventura Telecom. Era stata la madre di tutte le privatizzazioni e diventò la madre di tutte le sc alate...
«Entrò in contatto con il gruppo dei soci bresciani, in particolare Gnutti, e inventarono di comprare Telecom Italia. Un’operazione alla quale, e glielo dissi, ero assolutamente contrario perché non ritenevo avessimo la squadra per gestirla. La consideravo un’impresa ardua e sbagliata. Lui la fece lo stesso perché era una persona totalmente indipendente e determinata. Si organizzò l’Offerta pubblica di acquisto, poi mio figlio Marco andò con lui e Colaninno lo scelse come amministratore delegato di Tim».
C’è la storia della finanza e dell’impresa in Italia, in questo suo racconto di Colaninno, protagonista di un pezzo di storia del Paese...
«È così. Quando Gnutti vendette la Bell (la holding che deteneva il controllo di Telecom, ndr ) ci rimase malissimo, ruppe i rapporti. La sua passione per fare l’imprenditore, la sua capacità di lavoro, il suo coraggio, erano troppo importanti per lui. Che infatti decise di comprare la Piaggio».
Un’impresa dalle grandi tradizioni, ma che allora non era un gruppo in buone condizioni, ora è diventato un gioiello…
«A Pontedera fece un lavoro straordinario, resuscitò un marchio come la Vespa e pure essendo un gruppo piccolo rispetto ai giganti giapponesi, è riuscito a renderlo protagonista del mercato mondiale. Un uomo partito da Mantova, con il titolo di studio di ragioniere ma con una capacità imprenditoriale veramente notevole. Era attaccatissimo alla sua famiglia, quando lavorava all’Olivetti partiva la mattina dalla sua città per venire a Ivrea e tornava anche di notte per ritornare dalla moglie Oretta e dai suoi figli Matteo e Michele. Perdo un amico vero».
Vi sentivate ancora?
«Per lungo tempo ci siamo sentiti la domenica mattina alle dieci. Lo facevamo sempre. Lui mi parlava dei suoi progetti, dall’apertura del nuovo stabilimento in Vietnam a nuove idee di imprese possibili. Questo era Colaninno e queste conversazioni sono uno dei ricordi più belli che custodirò di noi».