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 2023  agosto 20 Domenica calendario

Intervista ad Alessandro Robecchi

La storia che ridere è una faccenda serissima, usata, stra-usata, sembra però la casa perfetta per Alessandro Robecchi. Lui la risata la strappa da tanti anni, pure ogni mercoledì sulle pagine del Fatto, eppure tratta la questione in maniera serissima, come giusto; come chi ha nella memoria gli anni passati nella redazione di Cuore e a Radio Popolare, o nel presente le riunioni per una delle poche trasmissioni satiriche della televisione italiana, Fratelli di Crozza. Poi ha trovato il tempo di costruire uno dei personaggi più amati tra gli appassionati di noir, Carlo Monterossi, interpretato da Fabrizio Bentivoglio.
Cosa sono i libri per te?
Subito così difficile?
È difficile?
Sono sempre stati un oggetto anche un po’ sacro: ne compro più di quanti ne riesco a leggere; (pausa) è la costruzione di mondi nei quali è possibile immergersi, sono vite parallele, sono giocattoli.
Come diventi giornalista?
Da ragazzino volevo scrivere e c’era l’istinto di raccontare gli episodi prima degli altri; (sorride) comunque in maniera fortuita, nel 1980, mi sono iscritto a una scuola di giornalismo, poi mi hanno mandato all’Unità per uno stage e da lì non sono più uscito.
Chi hai trovato?
A Milano, nella stanza degli spettacoli, c’erano Maria Novella Oppo, Andrea Aloi e Michele Serra, colleghi con i quali ho condiviso Cuore (storico inserto satirico). Io felice e incredulo.
Perché incredulo?
Non avevo parenti giornalisti, alcuna entratura, quindi per me era una festa quotidiana.
Com’era la redazione di Cuore?
Cinque, sei o sette matti che da una stanzetta prendevano per il culo il mondo; (ci pensa) detesto l’autore satirico che regala la vignetta alla “vittima”, magari ci va a cena o addirittura ne diventa amico…
Mentre…
Devi partire da un principio arrogante: tu hai ragione, loro torto. (pausa) Lo so, non è elegante esplicitarlo.
Chi dava il “la”…
Cuore nasceva dopo infinite riunioni di apparente cazzeggio dove in realtà si parlava molto e bene di politica, dove c’era un passione; poi un titolo poteva uscire in un attimo di genialità.
A quale titolo pensi?
“Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti” è un pezzo di storia.
Avete mai temuto di essere andati oltre?
Quell’allarme c’è sempre, è importante, ma come diceva Andretti (pilota di F1): “Se hai tutto sotto controllo significa che stai andando troppo piano”.
Sei un esperto di F1?
(Ride) No, mi piace la frase.
Ti segni le frasi per poi riportarle nei libri?
Mai. Eppure dimentico tutto, sbaglio pure le citazioni.
E con i romanzi?
Quando ne inizio uno ho già in testa la storia dall’inizio alla fine, poi magari cambio qualcosa, sistemo un intreccio.
Per Fabrizio Bentivoglio Monterossi ti assomiglia.
Lo trovo più simile a lui.
Chi ha ragione?
Smentisco la questione dell’autobiografismo.
A volte è inevitabile.
Certo, noi siamo quello che abbiamo visto, letto, ascoltato, pensato, e davanti a una pagina bianca tutto ciò entra in maniera inevitabile.
Con il passare del tempo il personaggio si emancipa.
Il suo carattere è quello: Monterossi è più chic che radical, io sono più radical e non so neanche se andremmo d’accordo.
Ti hanno mai accusato di essere un radical chic?
Eccome, ma è talmente banale e qualunquista da non toccarmi; (ride) sono davvero poco chic e poi chi rivolge quest’accusa è sempre più chic di me.
Da autore satirico da te cosa si aspettano le persone in privato?
Esco poco, sono un po’ orso, la mia vita non è mondana.
Però…
Quando chiacchiero con gente che non conosco, l’argomento Crozza, i retroscena della trasmissione, se ci divertiamo o meno, è preponderante; evito lo spettacolino a tutti i costi.
Se tu sei riservato, Crozza è peggio di te.
Sempre per il discorso di prima, ricordo la scena di Forattini che regala la sua vignetta ad Andreotti; Maurizio non lo farebbe mai.
Crozza appare pochissimo fuori dalla trasmissione.
E a tutti noi che lavoriamo con lui questa storia piace tantissimo: parliamo con la trasmissione, uno spazio a settimana nel quale possiamo dire tutto, senza limitazioni né censure. È un privilegio.
Come mai romanziere?
Sono un appassionato di noir, tifoso di Chandler e un’estate ho provato a scrivere una storia che mi frullava nella testa; forse un po’ mi annoiavo, avevo del tempo da impiegare.
E poi?
Erano trent’anni che scrivevo per giornali, radio e tv, quindi sempre all’interno di spazi definiti, sentivo il bisogno dell’illimitato, il potere di decidere; poi una volta terminato il libro l’ho mandato a un amico editor e lui a Sellerio; (sorride) sei mesi dopo Sellerio stesso mi ha risposto: “Quando mi consegni il secondo?”.
Il secondo è più complicato.
Perché diventa un esame di conferma, però è anche vero che hai imparato dei trucchi, hai acquisito dei meccanismi.
Sei meticoloso?
Sono uno che legge e rilegge, butta via, riprende, poi magari lo ributta un’altra volta; anche oggi se ritrovo cose vecchie vengo avvolto dai dubbi: “Questa frase la costruirei sempre così?”; scrivere è pensare una cosa e quando l’hai scritta è meglio di quando l’hai pensata; quando avviene è un piccolo miracolo.
Per alcuni giovani scrittori non sono fondamentali i classici della letteratura.
È un’enorme stupidaggine; per carità non muore nessuno, nessun ricovero, però sono della linea di imparare da quelli bravi; penso a Zola e al suo Teresa Raquin, scritto nel 1876, ed è un giallo perfetto per trama, tempi e ricostruzione dell’ambiente; oppure, chi può parlare di rimorso se non ha affrontato Delitto e castigo?
Cosa ti chiedono i lettori?
Li adoro, spesso sono dei matti.
Cioè?
Mi piacciono le presentazioni e le domande sono in genere di due tipi, la prima tecnica: quando scrivo, come, se prendo appunti o meno, a mano, al computer; la seconda è sugli aspetti più tecnici del noir: se specifico pistola e invece è un revolver, ti sgridano.
Le care, vecchie incongruenze.
In Flora, a un certo punto, c’è un pedinamento e un lettore mi ha scritto “molto belle quelle pagine, ma se andava a destra (per le vie di Milano) c’era un semaforo in meno”.
E tu?
Ho controllato: aveva ragione.
Fai molti sopralluoghi?
Tanti, sono importanti.
Hai l’ansia?
(Resta zitto) Sarebbe un problema se non ci fosse; mi assale anche per gli articoli, mi domando se ci sono refusi, se ho scritto cazzate; (pausa) la prima settimana dopo l’uscita di un romanzo è il panico: è in quei giorni che si palesano gli erroracci, magari un tizio che hai fatto morire a pagina 20, poi beve il caffè a pagina 150.
Il terrore…
C’è una frase bellissima della Achmatova, quando sale su un tram a San Pietroburgo, poi si guarda intorno e riflette: “Com’è felice questa gente che non ha un libro in uscita”.
Hai mai segnalato un’incongruenza?
Lo farei solo con un amico vero, ma a quel punto sei talmente amico vero che preferisci glielo dica qualcun altro.
Però hai anticipato una sorta di delitto televisivo.
Che ho combinato?
In Flora, il personaggio della conduttrice cinica e spietata per molti è la D’Urso.
Ci sono elementi che possono riportare a lei, ma in Italia non c’è un problema di Flora, ma di florità: ci sono quattro o cinque programmi con quel tipo d’impasto; (cambia tono) l’Italia è l’unico Paese al mondo dove una mamma scopre del ritrovamento del cadavere della figlia in diretta tv e con la telecamera in faccia; siamo l’unico Paese dove un ministro va in televisione a recitare le preghiere per i morti di Covid. Quindi il trash travalica la D’Urso.
Flora la interpreta la Signoris, moglie di Crozza….
Carla è straordinaria, possiede tutti i registri, compreso quella della satira.
Vai sul set?
Ogni tanto, un po’ per dirlo agli amici e un po’ perché mi incuriosisce quel mondo lì.
E…
Ho scoperto che è un lavoro pazzesco; quando scrivi sei tu e solo tu, è una situazione intima, mentre sul set devi accettare che quella scena immaginata in un modo, viene cambiata dal regista o dal direttore delle luci; oppure l’attore preferisce pronunciare una frase in un modo differente.
Sei geloso?
Se accetti che tre cervelli sono meglio di uno solo, tutto diventa bellissimo.
Bentivoglio…
Quando me l’hanno presentato sembravamo protagonisti di un matrimonio iraniano: tutto combinato; invece dopo cinque minuti abbiamo rotto il muro dei formalismi, anche grazie ad amici comuni, stesso ambiente, più o meno letture simili; è un attore pazzesco. Siamo diventati amici.
Anni fa hai pubblicato una biografia di Manu Chao.
Genio vero, uno con l’orecchio assoluto; poi è un grande affabulatore; dopo aver scritto il libro l’ho contattato e lui: “Vieni a Barcellona”. E lì ho assistito al mixaggio di Clandestino.
Il suo album più celebre.
Il mixaggio avveniva attraverso un computer portatile: sembrava un artigiano al lavoro, non una star internazionale. Io stupito. E quel disco ha venduto milioni e milioni di copie.
Manu Chao è considerato un artista molto coerente: quando sei stato orgoglioso della tua coerenza?
(Inizia, si ferma, cerca di fuggire, poi torna) Oddio, e ora? Se domani mi chiamasse un giornale di destra, rifiuterei.
È capitato?
Sì, ma in realtà non lo considero eroismo, solo normalità.
Della Nouvelle Vague dei tuoi colleghi di gialli e noir, chi ti piace?
Non mi mettere nei guai, sono tutti bravissimi… (ride)
Dai…
A Manzini voglio proprio bene e Malvaldi fa anche ridere; comunque in Italia c’è un bel movimento, con una cinquantina di bravi scrittori.
Come ti posizioni tra i 50?
Non me lo puoi chiedere! Cerco di avere una mia cifra.
Da ragazzo chi sognavi di diventare?
Solo uno che scriveva.
È andata meglio di come immaginavi?
Potrei rispondere di sì, ma non mi ero creato film eccessivi.
Tu chi sei?
(Ride e inizia con un “porc….” poi si ferma e trova la soluzione) Uno bravino che ha avuto culo.