il Giornale, 20 agosto 2023
L’amcizia di Joyce e Svevo
James Joyce, giovane artista, arriva a Trieste nel 1904 per insegnare inglese alla Berlitz School. Presto, in città, si favoleggia del signor Joyce, ottimo insegnante dai metodi poco ortodossi. Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, e sua moglie Livia hanno bisogno di padroneggiare la lingua inglese per motivi d’affari. Sono una famiglia della alta borghesia. Ettore spesso si reca a Londra per lavoro. Gli Schmitz decidono quindi di prendere lezioni private da Joyce. In effetti non è un professore comune. Con notevole faccia tosta, utilizza come testi di riferimento le proprie opere in corso di realizzazione. Agli Schmitz tocca in sorte uno dei migliori racconti mai scritti: The Dead, il morto, la conclusione del libro Gente di Dublino. Nell’ultima pagina, una soffice nevicata si stende sui morti e sui vivi, sui torti e sulle ragioni. Gli Schmitz si commuovono. Livia corre in giardino e taglia un mazzo di rose per Joyce. A Ettore si inumidiscono gli occhi.
È l’inizio di una «amicizia geniale», come la chiama Enrico Terrinoni, ma anche di una lunga fedeltà, capace di sopravvivere e addirittura di rinforzarsi persino nella lontananza. Terrinoni fornisce tutte le tessere del mosaico in La vita dell’altro. Svevo, Joyce: un’amicizia geniale (Bompiani, pagg. 242, euro 20). Non è un saggio biografico, ma anche una interessante ricognizione della presenza di Svevo (da qui in poi lo chiameremo così) nelle opere di Joyce e di Joyce nelle opere di Svevo. Anche chi abbia famigliarità con questi autori rimarrà stupefatto da quanto fosse profondo il legame tra i due e per quanto fosse estesa l’influenza reciproca.
A occhio non ci sono mai state due persone più distanti di James Joyce e Italo Svevo. Joyce è un ribelle. Se ne è andato dall’Irlanda in odio alle convenzioni religiose e borghesi. Convive con una donna, Nora, anche se in giro si crede che sia la moglie regolare. Joyce non naviga nell’oro ma ha l’abitudine di non mangiare mai in casa. Pranzo e cena, fuori. Frequenta però bettole per marinai e operai del porto. Ama i quartieri popolari, inclusi quelli malfamati e a luci rosse. La sera va spesso a teatro e ha un conto lungo un metro presso i librai. Trieste è perfetta per Joyce: multietnica e multiculturale, offre una eccezionale varietà linguistica. Joyce non solo imparerà l’italiano, lingua ufficiale in famiglia dopo la nascita dei figli, ma anche un po’ di triestino, che utilizza scherzosamente nel carteggio con Svevo per farsi recapitare gli appunti dell’Ulisse: «Se ghe xe qualche d’un de Sua famiglia...». Nei quattordici anni trascorsi nella città giuliana, Joyce conclude, pubblica, inizia o progetta il corpus della propria opera, quasi per intero.
Italo Svevo ha ventun anni più di Joyce. È ricco, timido e di buon cuore. Eppure, scavando un po’... Anche Svevo ha conosciuto i quartieri popolari dove si è innamorato di tale Giuseppina Zergol, traditrice seriale. Diventerà la protagonista del romanzo Senilità con il nome di Angiolina. Anche Svevo è attratto dalle identità culturali composite: come dimostra lo pseudonimo stesso, che allude alle doppie radici, italiane e mitteleuropee. Anche Svevo non può fare a meno di scrivere. I suoi due romanzi, Una vita e Senilità, sono stati pubblicati a sue spese e non hanno avuto risonanza. In città, il giudizio più diffuso è che Svevo non padroneggi l’italiano. La cosa non è un problema per James Joyce: l’irlandese pensa che le incertezze siano il punto di forza di Svevo. Italiano, triestino, costrutti di altre lingue formano un insieme altamente originale. Svevo trasecola davanti al giudizio positivo di quel giovane brillante. Iniziano a fare lunghe passeggiate nelle quali discutono anche di problemi artistici o di questioni culturali, come l’ascesa di Freud e della psicanalisi. Ettore Schmitz lascia il posto a Italo Svevo che inizia a cucinare il suo capolavoro, La coscienza di Zeno. Nel frattempo James Joyce mette mano al suo Ulisse. Leopold Bloom, personaggio centrale, è una trasposizione letteraria di Italo Svevo, come dimostra Terrinoni.
C’è un altro ramo dell’esistenza condiviso da Svevo e Joyce. Entrambi soffrivano di una gelosia atavica, incontrollabile e violenta. Livia, la moglie di Svevo, era una delle donne più belle di Trieste. Il marito, di fronte ai complimenti degli ammiratori, andava in crisi. Quando Livia parte per Salsomaggiore, dopo il parto, Svevo impazzisce e la tormenta con lettere nelle quali insinua un tradimento della moglie nella città termale. Anche Joyce perde la testa più volte, e riesce perfino ad accusare Nora degli amori passati. Quando si calma scrive lettere pornografiche, estremamente crude. Nora risponde a tono. Sono epistole bollenti, utilizzate per masturbarsi. Dettaglio strano: Livia, la moglie di Svevo, è Anna Livia Plurabelle, uno dei personaggi più affascinanti di Finnegans Wake, l’opera definitiva di Joyce. Dettaglio strano numero due: Svevo, dovendo ricambiare un favore, regala a Joyce un quadro della moglie Livia («tanto io ho l’originale», spiega all’amico).
Quando Joyce si trasferisce a Parigi, nel 1920, incontri e lettere si diradano. Ma qui emerge la lunga fedeltà. L’uno non si è scordato dell’altro. Le cose cambiano. Joyce ha pubblicato l’Ulisse ed è diventato un caso letterario internazionale. La sua rete di contatti è importante, va da T.S. Eliot, in Inghilterra, a Valery Larbaud, in Francia. Senza contare Ezra Pound. Joyce è sempre un ribelle, nonostante il successo. A Parigi va nelle bettole a bere. Quando rischia di prenderle, chiama in aiuto un amico: «Ernest, pensaci tu!». Si tratta di Ernest Hemingway, scrittore totalmente diverso da Joyce: eppure si stimavano come artisti e come beoni.
Joyce, alla fine del 1923, si trova tra le mani il romanzo dell’amico Svevo, La coscienza di Zeno. Ne resta folgorato. Inizia un periodo, lungo quasi due anni, nel quale Joyce promuove in ogni modo il libro dell’amico. Bussa a tutte le porte, lo fa per convinzione, non è certo un impegno formale né un modo di sdebitarsi dei tanti prestiti ricevuti.
Inizialmente, nonostante tutto, La coscienza di Zeno sembra destinato all’oblio. Ma Larbaud si appassiona alla pratica e inizia a tradurre alcuni brani di Senilità da pubblicarsi su rivista. Cosa che accade dopo alcune traversie. In Francia scoppia il caso Svevo. In Italia, il primo ad accorgersene è Eugenio Montale. Dopo gli interventi del poeta ligure, Svevo diventa oggetto di discussione anche in Italia.
Svevo è un uomo felice, forse per la prima volta. Viene invitato, come conferenziere, a Parigi, dove legge un toccante ritratto di Joyce. Dopo quattro anni di successi, Italo Svevo muore in un incidente stradale nel 1928. L’autista perde il controllo della automobile, esce dalla carreggiata e si schianta contro un albero. Quando arriva in ospedale, Svevo è ancora vivo. Non riceve, probabilmente, le migliori cure e un’insufficienza cardiaca fa il resto.
La notizia arriva subito a Joyce. L’irlandese si dice addolorato ma aggiunge: «Almeno negli ultimi anni è stato felice». Artefice non secondario di quella felicità fu Joyce stesso. Forse l’amicizia è una lunga fedeltà durante la quale ci si augura reciprocamente la felicità.