il Giornale, 20 agosto 2023
Il conformismo degli atenei
Qualche giorno fa, in un programma televisivo, la biologa Antonella Viola (già messasi in mostra nel biennio pandemico) s’è presa la licenza di negare credibilità scientifica ad Antonino Zichichi per le sue tesi sul cambiamento climatico. Che ne può sapere di tali questioni chi studia linfociti e membrane cellulari? Nulla, ma in questo come in altri casi probabilmente era necessario allinearsi alle parole d’ordine prevalenti. Perché uno dei tratti essenziali di chi oggi di professione fa lo studioso sta proprio nella sua vocazione a rimanere nel gregge.
Le ragioni sono note. Ogni sistema di potere poggia sul controllo della forza, ma al tempo stesso il ricorso alla violenza deve essere limitato. Per conseguire questo risultato è indispensabile che vi siano istituzioni prestigiose che legittimano lo status quo agli occhi dei cittadini. In altre parole, ogni regime politico ha bisogno di apparati ideologici al proprio servizio e oggi le università sono in larga misura proprio questo.
Nate in età medievale quali spazi di ricerca gestiti direttamente dagli studenti oppure dai docenti, nel corso dei secoli le università hanno perso in larga misura la loro indipendenza per diventare apparati statali: anche quando sono formalmente private (e questo perché ricevono fondi pubblici, pure negli Stati Uniti, e sono sottoposte a una rigida regolamentazione). È allora comprensibile che in una serie di questioni culturali e scientifiche non vi sia quasi discussione, e che anzi vi sia la metodica repressione delle voci discordanti.
Le origini di tale disastro sono remote. Nel pieno della Rivoluzione francese la Convenzione diede vita all’Institut de France, con l’idea di creare un vero «parlement du monde savant» (parlamento del mondo intellettuale). Le élites giacobine ritenevano indispensabile legare a sé artisti, letterati e scienziati, conferendo loro prestigio e prebende. Quell’operazione fu la rielaborazione di quanto già i monarchi in precedenza avevano realizzato, dato che l’Institut mise assieme accademie preesistenti: tra cui l’Académie Française (creata nel 1635 dal cardinale Richelieu, primo ministro di Luigi XIII) e l’Académie des Sciences (creata nel 1666 dal cardinale Mazzarino). Già la monarchia, d’altro canto, aveva assorbito le università e limitato alquanto l’autonomia della ricerca.
Le conseguenze del crescente controllo che i sovrani hanno saputo esercitare su idee e istituzioni culturali saranno rilevanti. Lo stesso Voltaire, scrittore per altri aspetti assai polemico, dopo avere passato un anno alla Bastiglia e dopo esser stato esiliato, sarà accolto all’interno dell’Académie française anche grazie a una sorta di campagna elettorale che il letterato stesso organizzò con efficacia: così da garantirsi una sinecura.
Pure nel dibattito italiano post-unitario, la visione dell’istruzione pubblica che s’impose fu basata sull’idea, per citare Francesco De Sanctis, che la missione dello Stato «è veramente di essere il capo, la guida, l’indirizzo dell’educazione e dell’intelligenza del Paese». Ben prima dei regimi autoritari e totalitari (prima di Andrei Zhdanov, Giuseppe Bottai e Joseph Goebbels) il potere sovrano aveva insomma compreso la necessità di controllare la cultura: a partire dalle università, naturalmente. L’operazione non è mai stata troppo difficile dato che, a loro volta, gli intellettuali hanno spesso subito il fascino dell’autorità.
Il servilismo degli intellettuali non è allora qualcosa che caratterizzi in maniera esclusiva il nostro tempo. È comunque vero che nelle società occidentali, grosso modo equamente divise tra progressisti e conservatori, l’accademia è quasi interamente schierata a sinistra. I motivi sono vari, ma certamente molto dipende dalla struttura degli atenei e dalle modalità che presiedono all’ingresso in università e al progresso della carriera.
Oggi chi voglia avere successo in università deve realizzare progetti di ricerca. Il risultato è che uno studioso è ormai ritenuto valido non tanto se scrive volumi o articoli innovativi e importanti, ma invece se ottiene finanziamenti da istituzioni ritenute prestigiose. Il guaio è che nei bandi di questi concorsi si pensi a quelli che dai noi sono probabilmente i più importanti, quelli Horizon Europe si trovano quasi sempre gli stessi temi: e naturalmente si tratta delle questioni care a chi comanda e al mainstream (genere, riscaldamento globale, razzismo e inclusione, ecc.). Le classi politiche finanziano la ricerca, ma nel farlo l’indirizzano verso esiti a loro favorevoli: che permettano un’espansione del controllo che esercitano su di noi. D’altra parte, quando nei bandi si focalizza sempre e soltanto l’attenzione su alcuni argomenti si sta già predefinendo l’esito delle ricerche stesse.
La situazione attuale è quindi caratterizzata da una ben precisa gestione politica della scienza: al punto che perfino un premio Nobel della fisica che avanzi perplessità sull’origine antropica del riscaldamento globale può essere censurato (com’è successo a John Clauser). Va poi aggiunto che ormai sappiamo che durante la pandemia funzionari dell’Fbi si recavano negli uffici di Twitter per accordarsi con i manager di quell’azienda in merito alle misure da assumere: con il risultato che perfino alcune ricerche pubblicate dal prestigioso British Medical Journal hanno subito una sorta di censura. Perché oggi il potere non è confinato nei palazzi governativi, ma conta su tutta una serie di tentacoli gestiti dagli uomini di affari e dagli intellettuali.
È insomma chiaro che ormai il mondo accademico non solo è uniforme nei propri valori e nei propri orientamenti culturali, ma è pure sotto scacco: con il risultato che pure chi volesse dissentire troverebbe numerosi ostacoli dinanzi a sé. In effetti, un giovane che voglia diventare professore deve prima entrare in un programma di dottorato, poi ottenere una posizione da ricercatore e infine diventare prima associato e poi ordinario. In genere concluderà questo percorso dopo avere compiuto cinquant’anni e in tutto questo periodo avrà dovuto evitare ogni contrasto con il proprio barone accademico, con il dipartimento in cui si trova a lavorare e con l’intera disciplina in cui si colloca (se studia diritto costituzionale, ad esempio, con l’insieme dei costituzionalisti più affermati). Il rischio è che alla fine, dopo decenni di necessarie autocensure, sia più un pollo da allevamento che non uno studioso determinato a seguire scienza e coscienza.
Che fare? La questione istituzionale è cruciale ed è quindi necessario che lo Stato si ritragga il più possibile dalle università. Ma è egualmente cruciale che ovunque anche fuori dalle cittadelle universitarie, se necessario s’imponga un modo di studiare e insegnare che abbia quale criterio soltanto la ricerca della verità, e che muova da un più che giustificato scetticismo verso tutte le parole d’ordine imposte dalla presente alleanza tra la politica, gli affari e le idee.