Avvenire, 20 agosto 2023
Tutti pazzi per la psiche. Un viaggio in libreria
In che direzione va la scrittura delle donne? È una domanda che, sul filo della logica, non può non implicarne un’altra riguardante gli uomini. La scrittura delle donne, oltre a esistere con risultati importanti nel quadro della letteratura coeva, mostra, salvo qualche eccezione, una certa compattezza e una grande consapevolezza ideologica. Non così quella degli uomini i quali, invece, sembrano procedere solitari e in ordine sparso, senza alcuna solidarietà di genere, ma anche, per ciò stesso, con un’insolita libertà che non è solo di sperimentazione ma anche di poetica, con riferimenti certi nella tradizione più o meno recente.
Ci occuperemo qui di scrittori appartati e di sicuro talento, talvolta esordienti, ma lontani dalla celebrità mediatica. Stiamo, allora, al romanzo- romanzo, quello che non rinuncia alla fiction e che ci si presenta in differenti articolazioni. Ecco, per cominciare, quello del Sud, ancora fertile laboratorio, con le proposte di due siciliani: Linea di confine (Porto Seguro, pagine 198, euro 15) del gelese Marcello D’Alessandra, originale studioso di Sciascia, col suo Alberto Tempesti insegnante di letteratura e amante dei libri (le domeniche in campagna, le partite di pallone), e il giallo Ti uccido per gioco (Mondadori, pagine 280, euro 17.50) del palermitano Gian Mauro Costa, che accampa la già nota “sbirra” Angela Mazzola, irregolare nel lavoro come nella vita. Se nel primo abbiamo a che fare con un romanzo di formazione, che muove dal Meridione dell’infanzia e approda alla Milano della maturità, ma che poi si risolve in rocambolesco dossier sull’amore e sulla letteratura, nel secondo troviamo una rimodulazione dei codici della detection italiana di successo. Sempre nell’isola (una Sicilia interna di boscose montagne), ma nel 1763, è ambientato La figlia dell’avvelenatrice (Vallecchi, pagine 112, euro 16) di Vito Catalano, già autore di romanzi in cui si rivisita, all’ombra dell’enigma non di rado inquietante, il genere dell’indagine controstorica (da L’orma del lupo del 2010 a Il pugnale di Toledo del 2016), di cui il citato Sciascia fu maestro. Il giovane studioso palermitano di scienze naturali, Emanuele Rinaldi, si trasferisce da Palermo nel palazzo del conte Paruta per condurre le sue ricerche sulla fauna di quelle zone. Arriverà l’amore per Rosa: quale sarà il segreto che avvolge la storia dei suoi genitori e della sua nascita?
Di disposizione psicologica ed esistenziale, a cui corrisponde una notevole consapevolezza retorico-stilistica, sono L’uomo della posta (Castelvecchi, pagine 256, euro 22) di Nando Vitali, scrittore di raffinata cultura con una storia già importante, e Ombra mai più (Neo edizioni, pagine 216, euro 15) di Stefano Redaelli. Siamo, insomma, là dove non si sa se la vita sia caos e guazzabuglio o incognita trama d’un destino. Il protagonista del libro di Vitali, Lorenzo, impiegato delle poste e frequentatore degli Alcolisti Anonimi, è l’ultima e convincente incarnazione dell’inetto travet che ha dominato il migliore Novecento narrativo italiano, ma può contare anche sulla bella padronanza linguistica del suo autore, che talvolta accende le pagine di bagliori espressionisti. Non bisognerà dimenticare, però, l’altro imprescindibile personaggio, Maria Pesce, pure frequentatrice degli Alcolisti Anonimi, che diventerà cruciale nella vita dell’uomo. È il giorno delle pensioni. Questo lo spettacolo che si prospetta a Lorenzo: «Giungevano vecchi cadaveri propaggine dell’inferno». E poi: «Le teste secche, incartapecorite, infilzate sui corpi incerti come quelle che il capitano Kurtz, in Cuore di tenebra, inalberava sul fiume». Ritornato dai suoi anziani genitori (e dal suo amatissimo platano) dopo tre anni di internamento nella Casa delle farfalle, «Centro di Riabilitazione Psichiatrica», l’Angelantonio di Redaelli è circondato dall’ostilità dei ragazzi del suo quartiere perché appunto «è stato lì». I confini tra salute e pazzia sono labili. Sicché capiamo subito che questo è il romanzo d’un chiasmo: mondo della follia o follia del mondo? Anche in tali pagine la lingua s’impone: per le sue dense concrezioni, per le continue innervature saggistiche e meditative. Così nel prologo, intitolato Fame: «Non siamo noi che abbiamo fame di letteratura. È la letteratura che ha fame di noi». E di seguito: «Si nutre di tutto, avidamente: di quello che abbiamo vissuto, di quello che vorremmo vivere, di quello che ci manca, di quello che possediamo (già ci sta per mancare), dei sogni (di notte, a occhi aperti), della realtà, di quello che vorremmo tacere, portarci nella tomba (per vergogna), di quello che andrebbe gridato dai tetti, come una liberazione». Chiudiamo con
Aurora (HarperCollins, pagine 320, euro 19) di Giorgio Nisini, perché dal romanzo di finzione passiamo di fatto al metaromanzo, e cioè a un romanzo che implicitamente mette in discussione ciò che di consueto è assunto come ovvio, ovvero il semplice dogma del narrare fine a se stesso: e tutto ciò in pagine che veramente ci restituiscono, sin dall’inizio, quel senso di sottile angoscia delle fiabe nere della nostra infanzia, sospingendoci dentro quella condizione assai bene rappresentata dal Charles Perrault citato qui in epigrafe: «Era precipitato in certe caverne orrende, dove la luce non penetrava mai». Parlare del libro di Nisini, infatti, significa anche presupporre un discorso sulla Bella addormentata nel bosco (ma anche sui fratelli Grimm, oltre che su Perrault, e persino su Giambattista Basile): a insinuare gli acidi postnovecenteschi proprio nel corpo d’una tradizione che vive innanzi tutto nella smemoratezza d’una gioia puerile. Le storie, per Nisini, sono sempre importantissime, ma – ci pare di capir – bisogna saperle meritare, con una coscienza critica che resti vigile. Perché, però, La bella addormentata nel bosco? Stefano, ultimo discendente degli aristocratici Orsini Gianotti, appagato e brillante dirigente della fabbrica di lampadine fondata dal mitico nonno Umberto negli anni Venti, la Fulgor, ha una figlia adolescente, Aurora, avuta tardi e dopo molti tentativi falliti. Due sono i fatti che, all’inizio, catalizzano il racconto: una misteriosa telefonata notturna che allude a oscuri segreti del protagonista; la caduta di Aurora – ecco il riferimento alla favola – in uno stato di sonno che nessun medico sa spiegare. Una domanda di non poco conto relativo all’altro decisivo personaggio del romanzo, Carola (la moglie di Stefano), la cui prima apparizione la vede «coricata nel grande letto matrimoniale della loro villa sulle colline laziali»: un’altra bella addormentata?