Domenicale, 20 agosto 2023
I taccuini di “A sangue freddo”
La narrativa di questi anni è in buona parte un remake ossessionante e interminabile di A sangue freddo, i cui derivati formano ormai un sottogenere talmente pervasivo che, se qualcuno ne vietasse improvvisamente la produzione, a una quota consistente di autori in attività non resterebbe che recarsi in massa a guardare cantieri. Anche per questo dare un’occhiata a cosa il libro veramente sia, e a come sia nato, riserva un certo numero di sorprese.
Ci sono molti modi per farlo – e si aumenteranno nel 2024, anno in cui, benché sia difficile immaginarlo, Capote avrebbe compiuto cent’anni. Ma volendo mettersi avanti col lavoro uno può già oggi procurarsi il volume che una singolare casa editrice francese, i Saints Pères, ha dedicato a In Cold Blood.
Non si può dire che i Saints Pères rispettino l’assioma fondante del marketing editoriale estremo, in base al quale il lettore si fa andar bene anche libri fisicamente impresentabili, purché tu glieli faccia pagare due Gratta e Vinci. I libri dei Saints Pères sono molto presentabili, di Gratta e Vinci ne costano circa un centinaio, e a parte questo non sono libri, bensì sontuose riproduzioni dei manoscritti di grandi libri, dai Fiori del Male al Voyage. Sono cioè oggetti che puntano dritti al lettore più esigente, quello affetto da voyeurismo letterario – e ovviamente anche editoriale. Com’è ovvio, leggibilità e interesse variano a seconda dei casi – il manoscritto di Alice è quello preparato dal reverendo Dogdson per la signorina Liddell, include i disegni del medesimo, e non si capisce perché non sia mai stato pubblicato sempre e solo così, mentre se uno vuole capire fino a che punto un autore possa tormentare un testo, e sé stesso, deve solo aprire la stesura originale di 1984.
Quello di A sangue freddo tuttavia è un caso ancora diverso, perché postula l’uso di un lentino – la grafia è minuscola, e non sempre leggibile – che finisce per modificare parecchie idee ricevute sul libro.
A partire dalla sua uscita (1966), A sangue freddo è stato sempre considerato il tentativo più lucido visto fin lì di raccontare un fatto cruento, del quale per vie ordinarie si sarebbe occupato il giornalismo di nera, con gli strumenti della letteratura. E a Capote si è sempre attribuito il merito di avere calpestato un numero tale di volte il confine fra i due territori che dopo di lui nessuno è più riuscito a ritrovarlo. Tutto vero, naturalmente, anche se la questione è talmente complessa, e al tempo stesso talmente futile, che ci siamo ancora impigliati. Solo che qui in realtà l’idea di partenza era più sottile. E più radicale. Almeno nelle prime fasi, infatti, quel crimine inspiegabile e la sua feroce coreografia avevano attratto Capote per una ragione squisitamente tecnica: la sensazione che raccontarli avrebbe richiesto l’invenzione di una scrittura ad hoc, che con un materiale più neutro non sarebbe stata necessaria.
Nel manoscritto si vede molto bene, anche perché l’edizione in realtà non riproduce il libro, ma i suoi celeberrimi taccuini preparatori. Quelli che vediamo, cioè, sono i blocchi gialli che Capote si era portato a Holcomb, e che la sera in albergo riempiva: prima in un verso, scrivendo sulla pagina di destra, e poi, capovolgendo i fogli, nell’altro.
C’è un fatto che salta subito agli occhi: le pagine dei taccuini, molto corrette, sono già le minute del racconto che poi uscirà sul «New Yorker» (tra settembre e ottobre 1965), e più avanti diventerà il libro. In altre parole, non recano quasi traccia dell’immane e complicatissimo lavoro di documentazione svolto giorno per giorno a Holcomb («Tu non sai cosa vuol dire essere me» sospirava Truman a chi gli chiedeva come avesse fatto – sottinteso, con quell’aspetto – a ottenere la fiducia e le confidenze degli indigeni). Questa singolare assenza aveva due ragioni. La prima è che, notoriamente, Capote non prendeva appunti, e a richiesta spiegava anche perché: «Mi ricordo a memoria il 70 per cento circa delle conversazioni, il resto non mi serve». La seconda è che, per lui, mettere la penna sulla carta significava una cosa sola, dedicarsi alla meticolosa costruzione della sua prosa. Basta leggere le prime righe del primo taccuino: «Holcomb è un villaggio che si staglia nelle alte pianure di frumento del Kansas, dove l’aria ricorda quella della Svizzera e a perdita d’occhio si apre un paesaggio solitario e stupendo – un paesotto come tanti, tagliato in due dai binari della ferrovia di Santa Fé». Aggiungendo le cancellature e le correzioni che si vedono a quelle che si possono immaginare, è abbastanza semplice connettere questo attacco alla sua, giustamente leggendaria, versione a stampa: «Il villaggio di Holcomb sta sulle alte pianure di frumento del Kansas occidentale, un’area solitaria che gli altri abitanti del Kansas chiamano “laggiù”».
Ecco. Siamo abituati a guardare A sangue freddo con una lente panoramica, la stessa che nella sequenza d’apertura Capote applica alle distese del Kansas. E va benissimo così, ma da ogni riga dei taccuini emerge l’evidenza che la sua prosa dà il meglio vista da distanza ravvicinata, dove ne emergono qualità e moventi – che in lui sono sempre strettamente intrecciati. Si potrebbero fare moltissimi esempi, ma il migliore che mi viene in mente è quello di un racconto poco noto, In viaggio attraverso la Spagna. Sono sette, otto pagine in cui, al contrario di A sangue freddo, nulla accade. Ma proprio nulla. Capote è su un treno che avanza nella pianura (di nuovo) fra Granada e Algesiras, in un caldo infernale – cioè verosimilmente, trattandosi degli anni 50, nel tepore dei 30°. Tutto qui. Col passare delle righe, non ci si può non chiedere perché mai Truman abbia scritto quelle pagine, e la risposta non arriva. A un certo punto, in aperta campagna, il treno si ferma. Sale a bordo la Guardia Civil, che cerca un ordigno. Con calma. Passa altro tempo, scorrono – piuttosto sonnolente – altre righe. La domanda è sempre lì, molesta quanto il caldo. Poi la Guardia Civil scende, e il treno riparte. Molto lentamente, dice Capote. A capo: così lentamente, che le farfalle entravano e uscivano dai finestrini. Fine. E allora eccolo lì il movente, lo stesso che spinge alcuni registi a girare un intero film per giustificare la sequenza sotto i titoli di testa: scrivere quell’immagine. O, volendo essere ancora più diretti, scrivere.