la Repubblica, 20 agosto 2023
Biografia di Nicola Di Bari raccontata da lui medesimo
La carriera di Nicola Di Bari non è esattamente breve («compie sessant’anni, è iniziata assieme all’amore per mia moglie Agnese, il più grande successo della vita»). Ma in due diquesti anniMichele Scommegna – com’è stato registrato all’anagrafe quasi 83 anni fa salvo poi scegliere un nome d’arte in omaggio al suo santo preferito – fu semplicemente il primo e l’unico. Tra il 1971 e l 1972, due Sanremoe inmezzo Canzonissima,«che era più difficile del Festival, in cui andavi,cantavi una canzone una o due volte e via. No, lì dovevi partecipare ogni sabato, avere il consenso costante di cartoline postali e giurie popolari. E anche il successo ti stava appiccicato di più». Nessuna traccia, anche rivedendo le immagini di allora, di un’esultanza sopra le righe, un grido, qualcosa che somigli allo sfottò allo sconfitto. Anzi, dopo la vittoria de Il cuore è uno zingaro a Sanremo lui sparì nei sotterranei del casinò. Dovettero stanarlo per premiarlo.
Lei è sempre stato una persona, non un personaggio, una star. Mai un gossip, mai un collega che abbia potuto dir male di lei. Non sa come va il mondo, specie nella musica?
«Che devo dirle? Io non mi sono mai sentito una star: andavo su un palco e proponevo la mia musica al pubblico. La mia idea era quasi di dialogare con ogni singola persona. E non mi sono mai negato a nessuno, neanche fuori concerto».
Non si negò nemmeno a un gelataio restato senza voce.
«Avevo 16 anni, ero alla sagra del mio paese, Zapponeta. C’era un gelataio triste, col suo carretto. Una raucedine improvvisa gli impediva di attirare i clienti. Ci pensai io: presi il microfono e cominciai a gridare. Arrivò la folla.
Un amico suggerì che cantassi pure».
Un trionfo.
«Non sa quanto. Passò di lì un talent scout che volle a tutti i costi che andassi a Milano a fare il cantante. Lo desideravo anche io, non i miei genitori. Ero l’ultimo di 10 figli, gli altri avevano fatto i contadini, per me volevano che proseguissi negli studi.
Alla fine vinsi io».
Andò subito bene?
«Artisticamente i passi erano lenti.
Ma conobbi Agnese, la donna della mia vita. Eravamo su un bus pienissimo. Io le cedetti il posto. La rividi la sera e da lì nacque tutto».
E con Agnese ecco il successo.
“Amici miei”, “Amore ritorna a casa”, l’Italia inizia ad accorgersi diquesto tizio con occhialoni da nerd, il ciuffo un po’ ribelle e questa voce grezza, cavernosa.
«Che io temetti a lungo fosse il mio punto debole, invece mi distingueva da tutti».
Era a Sanremo nel 1967, l’anno di Tenco.
«Sono ancora sconvolto a pensarci.
Era un amico vero. La madre mi chiese un disco con le sue canzoni, “puoi farlo solo tu”. Ed ecco
Nicola Di Bari canta Luigi Tenco».
Stiamo a Sanremo, ma del 1970. È vero che Morandi si rifiutò di cantare “La prima cosa bella”?
«La proposi a Gianni, come a Patty Pravo, Modugno, Endrigo. Ma erano tutti già impegnati. E serviva l’accoppiata. Mi folgorarono i giovani Ricchi e Poveri. Fu la loro grande chance e la sfruttarono».
È davvero le chitarre in sala incisione le suonò Lucio Battisti?
«Certo. Un grande amico. A volte scontroso, ma che genio. Il testo fu risistemato da Mogol. L’avevamo scritto io e Agnese per salutare la nostra primogenita Ketty. Con un figlio nasce una storia nuova per la tua vita, se non lo provi non puoi capirlo. Sono uno strenuo sostenitore della famiglia».
Quella canzone fu la svolta.
«Mi diede la certezza che questo sarebbe stato il mio mestiere. L’anno
dopo tornai con Nada eIl cuore è uno zingaro.Vinsi grazie anche a lei, si capiva sarebbe diventata grande»
E poi “Canzonissima”, strappata all’ultimo a Massimo Ranieri con “Chitarra suona più piano”.
«Lui era formidabile e aveva un bel vantaggio. Ma furono le giurie popolari a cambiare la classifica.
Votarono gli italiani e così decisero».
Rivince Sanremo nel 1972 con “I giorni dell’arcobaleno”. E poi?
«E poi forse stavo chiedendo troppo al festival. Feci tour all’estero, e in America Latina sono tuttora popolarissimo».
Ma in Argentina censurarono una sua canzone, “Mia”, del 1976.
«A Buenos Aires mi dissero di non cantarla. Figuriamoci, Parlava d’amore, niente di politico. La cantai e non successe nulla. Semmai la censura la subii in Italia».
Questa ci manca.
«NeI giorni dell’arcobaleno c’era un verso, “la mano saliva e svelava il mistero”, che la Rca giudicò malizioso. Lo cambiò con “la notte si accese di mille colori”, che mi pare più esplicito».