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 2023  agosto 20 Domenica calendario

Morire sognando l’Europa

Centottanta chilometri dividono Lampedusa da Sfax, la seconda città della Tunisia e la più vicina all’isola italiana. Sono 180 km di mare illuminato dalla luna, falsamente piatto a tratti, insidioso quando improvviso s’alza il vento. È fine luglio e brillano le navi da carico, che fanno la fila per entrare nel porto di Sfax, la capitale economica della Tunisia, il suo più grosso agglomerato industriale. Nella notte buia pesta, la pattuglia della Guardia nazionale è già in mare, sempre più attiva a intercettare i barchini. Per salvare vite, dicono loro, ma quante volte l’operazione, condotta in modo violento, finisce male? Tra i naufraghi recuperati, non ci sono solo nordafricani, in fuga da Paesi assediati dai jihadisti o scombussolati dalle scorribande della Wagner, né esuli del Corno, sconquassato da conflitti etnico-politici che ciclicamente riesplodono, ma pure tre amici kurdi siriani. «Siamo partiti nel 2017 – racconta Majd —. Siamo passati in Libano, da lì in aereo in Libia, poi in Algeria e alla fine in Tunisia. Ci siamo arrangiati, abbiamo lavorato». Majd ha 23 anni. «Sogniamo l’Europa della democrazia, il rispetto dei nostri diritti. Io sono cuoco e anche un bravo artigiano della ceramica: mi piace lavorare». Le loro famiglie hanno combattuto i jihadisti, in Europa allora li esaltavano. Ma oggi non li vogliono. Nel primo trimestre dell’anno oltre 34mila persone sono state intercettate e riportate indietro. Dal porto i più si dileguano per le vie della città, densa e polverosa, dove l’atmosfera è sempre più brutta per loro.
«Ci vuole una certa resilienza ormai per vivere qui», spiega Loic Oyono, ingegnere del Camerun, che vive a Sfax da sette anni e qui si è laureato, come tanti subsahariani. Oyono ha creato un’azienda di assist senza informatica e comunicazione digitale, che funziona molto bene. Ha una bella faccia e un sorriso che rassicura: un ottimista disarmante. «Viviamo ormai una situazione di apartheid, come quella che c’era in Sudafrica». Vuole spiegare cosa sia successo: «Sono quasi due anni che il grosso del flusso migratorio proviene dall’Algeria». Dopo il Covid e la crisi del grano, a chi era già qui e mai avrebbe pensato di emigrare «si sono aggiunti altri arrivati solo con l’obiettivo di partire per l’Italia. Tanti di loro vivono per strada, non hanno soldi. Si sono create tensioni con la popolazione locale e le autorità non hanno saputo gestire questa situazione. Così tutti i subsahariani sono diventati il capro espiatorio della crisi economica in Tunisia».
Per i Paesi della sponda Nord del Mediterraneo, però, Kais Saied è un interlocutore privilegiato. Anzi, «partner strategico», a detta della commissaria Affari Interni Ue, Ilva Johansson. Lo è stato da subito per il governo Meloni, fresco di vittoria conquistata anche promettendo il pugno di ferro contro arrivi che non riesce a fermare. Lo è per l’Ue che sulla Tunisia conta per rendere concreto il nuovo “Patto per immigrazione e asilo” in discussione a Bruxelles, che ha tra i suoi pilastri l’individuazione di Paesi terzi “sicuri” in cui respingere tutti coloro che da lì sono transitati e vengano ritenuti non meritevoli di asilo e protezione. Alla sua corte si sono presentati tutti.
Tutti in fila da Saied
Giorgia Meloni è venuta in visita a Tunisi il 6 giugno e poi con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e Mark Rutte, il premier olandese, è ritornata l’11 giugno e il 16 luglio, quando è stato firmato un piano di cooperazione tra la Tunisia e l’Unione europea. Comprende 150 milioni di euro da iniettare subito nel bilancio pubblico del Paese (che è a rischio default), 900 milioni di assistenza macrofinanziaria (ma potranno essere sbloccati solo quando il Fondo monetario internazionale concederà a Tunisi un prestito da 1,9 miliardi di dollari) e, infine, 150 milioni di euro, subito disponibili, per «il controllo delle frontiere, la ricerca e il salvataggio dei migranti»: insomma, in cambio di soldi, Saied deve frenare la corsa dei migranti verso l’Europa. «Concentrando politiche e finanziamenti sul contenimento e sull’esternalizzazione del controllo delle frontiere piuttosto che sulla costruzione di percorsi sicuri e legali per coloro che cercano di attraversare i confini in sicurezza, i leader dell’Ue – ha dichiarato Eve Geddie di Amnesty International – stanno ancora una volta intraprendendo politiche fallimentari che si basano su un insensibile disprezzo per gli standard fondamentali dei diritti umani. Da mesi, per ordine di Saied, le violentissime intercettazioni in mare della Garde nationale aumentano. Ma le partenze non si sono mai fermate. «E non finiranno, perché in Tunisia – dice Hassan, nome di comodo di uno dei più importanti passeur di Sfax – la gente è come strozzata: impedirgli di partire significherebbe ucciderli subito. Ad agosto ho già trenta viaggi completi e pronti a partire. Meloni si deve rassegnare». Lei, intanto, si mette nelle mani di Saied.
Ma l’Europa può fidarsi del presidente tunisino? A Tunisi, il palazzo presidenziale domina il mare, in periferia, a Cartagine. È un sobborgo di ricchi e di ville bianche, che si è sviluppato intorno alle rovine antiche. Ma nelle spiaggette che guardano alla dimora del rais, in questa estate torrida, famiglie della Medina vengono a dormire in tende improvvisate intorno agli ombrelloni, scossi dalla brezza marina (loro a casa non hanno l’aria condizionata). Arrivano dal centro con un trenino scassato e sporco. Di giorno, mentre i bimbi sguazzano in acqua, gli adulti sonnecchiano sulla sabbia per dimenticare i prezzi che galoppano e gli stipendi che stagnano (il livello medio dei dipendenti è di mille dinari, poco più di 300 euro), mentre subito lì dietro, al Monoprix di Cartagine, teoricamente tempio consumistico di un ceto abbiente, mancano riso, olio vegetale, zucchero, farina. Mancano le medicine nelle farmacie e negli ospedali pubblici (sanità ed educazione erano i fiori all’occhiello della Tunisia di Habib Bourguiba, il padre dell’indipendenza): se ti diagnosticano un cancro e avrai bisogno della chemioterapia, difficilmente avrai accesso ai farmaci necessari. Puoi morire e basta.
Saied esce sempre più di rado dal suo palazzo. Ancora più di rado viaggia all’estero. Ha fatto eccezione per l’«amica» Giorgia Meloni il 23 luglio scorso. È andato a Roma per la Conferenza internazionale su sviluppo e migrazioni. Ha pronunciato uno dei suoi discorsi contorti e messianici. «Il dovere – ha detto – ci obbliga oggi a creare una nuova istituzione finanziaria mondiale, che sarà alimentata dai prestiti, dopo aver annullato quelli precedenti, e dai fondi già saccheggiati, dopo che saranno recuperati, per stabilire un nuovo ordine umano». Il nostro vuole fare tabula rasa del Fondo monetario internazionale, dal quale deve ricevere un prestito fondamentale.
Personaggio complesso e contraddittorio, Saied naviga tra un conservatorismo islamico sui temi di società e un velleitarismo panarabo e antioccidentale per il resto. E, ancora, fra un populismo vetero-terzomondista e un discorso dai toni razzisti sui migranti in arrivo dall’Africa subsahariana. Sessantacinque anni, Saied è originario di un quartiere popolare della capitale, figlio di una famiglia del tipico ceto medio tunisino di un tempo, non miserabile e con un certo livello intellettuale. Laureato in legge, ha fatto una carriera da docente nella facoltà di Scienze giuridiche e politiche all’università pubblica di Tunisi, specialista di diritto costituzionale. Ma è sempre rimasto assistente, perché non è mai riuscito a discutere la tesi di dottorato (lui assicura che sia stata persa dal proprio professore: nasce forse pure da lì una foga anti-élite, che si trascina dietro ancora oggi). «Negli anni della dittatura – spiega Hatem Nafti, ricercatore, autore diTunisia, verso un populismo autoritario? (editore Riveneuve) – Saied era un marginale e non ha mai partecipato alla dissidenza contro Zine el-Abidine Ben Ali, una società civile molto attiva che si era sviluppata intorno ai diritti umani».
Nel 2011 in Tunisia scoppiò la rivoluzione. E Saied (che fra gli studenti si era ricavato un’immagine di interlocutore comprensivo, benevolo e flemmatico) iniziò a mescolarsi tra i giovani rivoltosi, che bivaccavano davanti ai palazzi del potere, alla Kasba di Tunisi. Spiegava loro con pazienza i temi di diritto costituzionale e le sue teorie di una democrazia «senza partiti ed emanazione del popolo». Si unì a un gruppo di intellettuali di estrema sinistra, che ancora oggi, da presidente, sono fra i suoi principali consiglieri, come Ridha El-Mekki (soprannominato Lenin) e Sonia Charbti, cui si aggiunge Naoufel Saied, fratello di Kais, che negli anni ’70 si riconosceva negli scritti dell’iraniano Ali Shari’ati, uno dei precursori della rivoluzione a Teheran del 1979. Siamo in pieno nella “sinistra islamica”, affascinata da Khomeini. Ma Saied è di sinistra? «No, assolutamente, è soprattutto un conservatore islamico – continua Nafti —, che nella sua nuova Costituzione, fatta approvare un anno fa, è riuscito addirittura a inserire, all’articolo 5, il rispetto della sharia. Neppure gli islamisti di Ennahdha, al potere per una decina di anni e oggi fortemente screditati, erano arrivati a tanto». Non lo era neanche nel 2011, quando iniziarono a invitarlo nei talk-show in tv. Divenne un commentatore, austero e un po’ asceta, che mai alzava la voce.
La deriva autoritaria
Si presentò alle presidenziali del 2019 (nessuno ci scommetteva), ma passò (con il 18,4% dei voti) al secondo turno, dove vinse (con il 72,7% dei consensi), sfruttando il rifiuto dei tunisini della corruzione e dell’inconcludenza degli anni della democrazia. Sottovalutato all’inizio da tanti, Saied ha applicato testardamente quelle che erano le sue idee da tempo: la Costituzione, adottata dopo un referendum di un anno fa, ha svilito il ruolo del Parlamento, degli enti locali e annullato l’indipendenza della magistratura, introducendo un regime iperpresidenzialista. Da lì si è scivolati verso quella che in tanti considerano oggi la sua «deriva autoritaria». Da febbraio è finita in carcere una trentina di oppositori politici al rais. Sono accusati di «attentato alla sicurezza dello Stato», ma le inchieste a loro carico appaiono sempre più inconsistenti (le accuse si riducono spesso al semplice fatto di aver incontrato l’ambasciatore d’Italia o di Francia, i due Paesi che alla fine appoggiano incondizionatamente Saied). Tra gli arrestati, c’è anche Noureddine Boutar, direttore diRadio Mosaique, emittente privata molto seguita. È uno dei pochissimi che è riuscito a uscire dal carcere al prezzo di una cauzione salatissima e ad andare ai domiciliari, ma rimane indagato.
Mosaique
è uno dei paradossi della Tunisia di oggi, che non è (almeno per ora) una dittatura. La radio non risparmia nessuna critica a Saied e, malgrado l’arresto di Boutar, è ancora attiva ed è la più ascoltata in Tunisia (così come tutta la società civile del Paese, critica sul presidente, è ancora molto tonica). A mezzogiorno, Midi-Show è il programma di approfondimento politico. Pura insolenza, per nulla clemente con il presidente: l’audience oscilla fra il 40% e il 60% ogni giorno, l’ascolta anche chi appoggia Saied. Tra gli animatori, Haythem Mekki, ex giovane blogger ai tempi della rivoluzione dei gelsomini, oggi giornalista sagace e ironico. Al di là delle sue contraddizioni, il sostegno a Saied resiste. «Gli istituti di sondaggio – osserva Mekki – indicano che la sua popolarità è ancora a livelli molto alti, anche perché beneficia dell’assenza di una concorrenza seria». Insomma, non ci sono alternative. «Il sostegno a Saied – continua Mekki – secondo alcuni sondaggi arriva fino al 60%, mentre i suoi rivali non superano il 10%. I tunisini vedono che la crisi persiste, ma pensano che lui sia al momento la scelta migliore». Sì, ma al referendum sulla Costituzione di un anno fa partecipò il 30% degli elettori e alle legislative di sei mesi fa, poco più dell’11%. «Il presidente resta popolare ma non il suo progetto politico», conclude Mekki. I tunisini pensano che Saied, al di là delle sue stranezze, sia una persona onesta (e probabilmente lo è davvero) ma solo «non lo fanno lavorare».
E poi, chi potrebbe fare meglio? È una situazione fragile, perché le prospettive di un miglioramento della situazione socio-economica sono deboli. Il negoziato per il prestito del Fmi sono bloccate e senza quello anche il grosso degli aiuti promessi dall’Ue non arriverà mai. «Saied ha una sua fragilità, che Meloni e compagnia stanno sottovalutando – aggiunge Hatem Nafti —. E poi è imprevedibile e, quindi, inaffidabile. Per ora fa quello che deve fare, anche sui migranti, ma potrebbe cambiare idea. È sensibile ai sondaggi e al “feeling” con il popolo. Se capisce che qualcosa non va da questo punto di vista, può cambiare improvvisamente direzione. Potrebbe pure farlo riguardo alla volontà europea che la Tunisia gestisca i suoi flussi migratori da Sud. Per ora ubbidisce, ma a un certo momento potrebbe dire basta, da un giorno all’altro». Da Bruxelles l’instabilità non si vede o non si vuol vedere.
«Quello che l’Europa non capisce è che la Tunisia in questo momento è un Paese a rischio da tutti i punti di vista”. Ex deputato dei Verdi, dal 2009 in Italia, Majdi Karbai guarda la sua terra da lontano “e mi sento impotente”. Da poco ha scoperto di non poter tornare, anche sul suo capo pende l’accusa di complotto contro lo Stato.
“Come faccio a fidarmi della giustizia tunisina oggi? – chiede – Saied ha sciolto il Consiglio superiore della magistratura e ne ha eletto uno di suo gradimento. E pensare che l’Europa ha messo 60 milioni per un progetto asostegno dell’indipendenza dei giudici». Solo il primo giugno 2022 – fa sapere Amnesty International – 57 ne sono stati licenziati «per accuse vaghe e politicamente motivate di terrorismo, corruzione morale ed economica, adulterio e partecipazione a feste a base di alcool». Altri hanno subito la stessa sorte nei mesi successivi. Ha paura Karbai «per i miei fratelli, i miei genitori che sono ancora lì e potrebbero subire ritorsioni». Essere spaventati delle possibili conseguenze è pensiero comune. «Molti hanno smesso di pronunciarsi persino sui social, sono come annichiliti». La legge 54, sulla carta utilizzata per controllare le presunte fake news usate per «attentare ai diritti altrui o di pregiudicare la sicurezza pubblica e la difesa nazionale, o di seminare il terrore nella popolazione», con pena prevista fino a dieci anni, è diventata un bavaglio. Il rispetto pedissequo e in senso iper-restrittivo delle norme sul contrasto all’immigrazione clandestina ha fatto il resto. «Tra marzo e aprile circa duecento rifugiati sono rimasti in sit-in davanti alla sede dell’Unhcr – racconta Tiziano di Mediterranea Saving Humans – Una medica, che si era avvicinata per prestare assistenza, è stata arrestata». Anche per ong e associazioni straniere – minacciate dalla “riforma” con cui Saied punta a limitarne l’attività – sono diventate necessariamente più caute. «Non ci sono stati arresti, ma cerchiamo di lavorare sotto traccia, anche per non esporre gli attivisti tunisini con cui collaboriamo», spiega una ricercatrice europea da tempo in Tunisia, chiedendo l’anonimato.
Identificati come origine e causa di tutti i guasti economici e sociali del Paese, i migranti subsahariani sono diventati un bersaglio inerme. E la loro è una strada senza uscita. «Quasi tutti – spiega Sophia di Alarm phone, la rete internazionale di attivisti che raccoglie e rilancia le richieste di aiuto che arrivano dalle frontiere in terra e in mare – sono accusati di essere irregolari, ma le prospettive di regolarizzazione sono praticamente nulle». In molti hanno tentato di fuggire con qualsiasi mezzo, in molti lo fanno ancora. Anzi, sempre di più. Se nel 2022, stima Unhcr, il 31% degli sbarchi proveniva dalla Tunisia, seconda solamente alla Libia, oggi la situazione si è ribaltata. Secondo un calcolo di Openpolis su dati Ispi datato 23 luglio, dei circa 80mila naufraghi approdati in Italia, 51.510 sono partiti dalla Sfax, Mahdia e dalle isole Kerkennah. Per tutti, il porto sicuro più vicino è Lampedusa, pezzo d’Europa geograficamente più vicino alla sponda Sud del Mediterraneo che alla Sicilia.
Il 29 giugno, in meno di 24 ore oltre quarantasei barchini sono stati intercettati al largo delle Pelagie dalle motovedette di Finanza e Guardia costiera, che a dispetto di leggi e decreti utilizzati per limitare l’operatività della flotta civile, devono chiedere supporto a navi e velieri ong. Da soli non ce la fanno. Ma la politica dei porti lontani, pena fermi e multe, non cambia. Le “piccole” Mare Go, Aurora, Louise Michel sono state spedite a Trapani. Trenta ore o più di navigazione. Le navi anche fino a La Spezia o Ravenna. Geo Barents, dopo 12 salvataggi, di “porti lontani” ne ha dovuti raggiungere almeno due: Carrara e Livorno. Risultato, la cosiddetta zona operativa rimane sguarnita, gli assetti istituzionali tornano in affanno e in mare si muore.
Secondo l’agenzia Onu per le migrazioni (Oim) sono 1.831 le vittime registrate dall’inizio dell’anno al 31 luglio sulla rotta del Mediterraneo centrale. Solo in Tunisia, da gennaio al 15 luglio in mare o sulle spiagge sono stati recuperati 901 corpi. Sono le vittime di naufragio che il Mediterraneo restituisce, maltrattate come cenci. Almeno 289, undici a settimana, dice l’Unicef, sono bambini. Numeri approssimati per difetto perché il Mediterraneo è un posto pericoloso, in cui è facile perdere la vita. Ancor di più su quei barchini in latta che basta un’onda a far ribaltare o inabissare, vagoni di serie Z riservati ai subsahariani che dalla Tunisia tentano di fuggire da un Paese che per loro non è sicuro. E poi c’è la Garde nationale, che pur di fermare i barchini in partenza – come Repubblica con diversi video ha documentato – malmena, bastona, porta via i motori, non si cura se con una manovra uno di quei gusci in ferro o in legno va giù. Adesso – ha scoperto la procura di Agrigento diretta da Salvatore Vella – a minacciare chi tenta la traversata ci sarebbero anche gruppi di sedicenti pescatori tunisini, che intercettano i barchini, portano via motori, cellulari e soldi e abbandonano i naufraghi alla deriva. Se si tratti di «pirati», come sono stati definiti, o «corsari» che agiscono su mandato di milizie, gruppi o autorità come da tempo succede in Libia, toccherà alle indagini stabilirlo. Tra chi ci è passato, qualcuno, arrivato a Lampedusa, è riuscito a raccontarlo, molti non possono farlo più.
Non si ha notizia di tutti i naufragi. Di alcuni si finisce per sapere solo perché sulla sponda Sud rimane qualcuno ad attendere una chiamata che non arriverà mai e prova a cercare informazioni. Un numero imprecisato di barchini semplicemente viene inghiottito dal mare, che sempre o quasi si porta via nome e storia anche di chi ci viaggiava. Di molti migranti rimane giusto una foto, che diventa simbolo dell’ennesima tragedia, troppo presto sostituita da un’altra. Lo è stata la bimba – tutina rosa, cappellino grigio – trovata fra le onde davanti a Sfax. Dopo sono arrivate le immagini dell’obitorio della città, saturo di corpi maltrattati dal mare prima, trascinati e lasciati a terra come stracci dopo, a raccontare il lato oscuro dei naufragi, le persone che erano carne, ossa, nomi, storie prima di essere “anonime vittime”. Ancora, il video girato da un gruppo di pescatori tunisini, che in una notte di giugno ha tirato su corpi di bimbi come se fossero tonni. Orrore che regolarmente si ripete.
Walid per mesi ha cercato il corpo di sua moglie e di suo figlio. Erano sullo stesso barchino quando un’ondata provocata dalla manovra della Garde Nationale lo ha fatto ribaltare. Il piccolo lo ha perso di vista, della donna ha recuperato solo il corpo senza vita. A Sfax lo hanno obbligato a lasciarlo sulla banchina e per poter provare a riconoscerlo fra le centinaia ammassati fra morgue, obitori e sepolture senza nome, ha dovuto lottare. «Per i subsahariani – dice Dorra, ricercatrice e attivista di Mem.Med, associazione che da anni lavora per restituire un nome e una storia a chi è rimasto impigliato nel Mediterraneo trasformato in tagliola – anche dare sepoltura ai propri cari è complicato». Impastoiati da una burocrazia complessa, i riconoscimenti sono possibili solo su convocazione della Croce rossa, cui è delegato il match fra denuncia di scomparsa e possibile ritrovamento. E da mesi nessuno viene chiamato.
Walid non si è arreso, si è affidato a un legale, ha ottenuto la convocazione, tra i tanti corpi senza nome ha trovato quello di sua moglie. «È un precedente importantissimo», spiegano da Mem.Med. Una speranza anche per chi, sepolti i propri morti, può elaborare il lutto e ricominciare a vivere. Per Walid, che da anni viveva e lavorava in Tunisia e mai avrebbe pensato di lasciarla prima del 21 febbraio, andare avanti ha significato attraversare il mare. Rimanere lì era diventato troppo pericoloso, soprattutto dopo il tre luglio.
La battaglia del deserto
A Sfax una rissa finisce male, un tunisino rimane a terra. Noti gruppi razzisti come Sayeb el Trottoir usano i social per chiamare alla «vendetta per il fratello ucciso». E contro i subsahariani si scatena una nuova «caccia al nero». Chi può si nasconde. Nelle strade della città iniziano a girare vere e proprie ronde che nella totale impunità braccano, picchiano, sequestrano, secondo alcune fonti stuprano chiunque abbia la pelle nera. Persino in aeroporto, subsahariani arrivati con regolare visto vengono rispediti indietro. Polizia e Garde nationale nelle stesse ore costringono centinaia di persone a salire su anonimi furgoni per scaricarli nelle zone desertiche alle frontiere con l’Algeria e con la Libia. Senza acqua, né cibo, perduti nel nulla. Non è una novità. Già nel 2021 Alarm phone aveva denunciato alcuni casi di deportazione a sud di naufraghi intercettati e costretti a tornare indietro. Adesso però la pratica è diventata sistematica. «Abbiamo ricevuto le prime chiamate all’inizio di luglio – spiega Sophia di Alarm phone – Come in caso di persone in pericolo in mare, abbiamo cercato di tenerci regolarmente in contatto con loro e di allertare le autorità, le agenzie delle Nazioni Unite e altri attori non governativi a terra». Risposta? Oim e Unhcr al momento non reagiscono alle segnalazioni. «La Mezzaluna Rossa tunisina è ambigua: alcune persone sono state soccorse e riportate in salvo, ma a volte sembra che l’aiuto umanitario sia subordinato all’accettazione di un cosiddetto “volontario” ritorno nel Paese di origine».
Secondo le stime di associazioni e ong, almeno 1.800 sono stati deportati nel deserto. I social sono diventati lugubri bacheche di annunci. «Si cerca Lionel», che dal Camerun qualcuno ha irretito con sogni di gloria grazie al pallone e solo in Tunisia ha scoperto che quel progetto era una patacca. Sono scomparsi quattro ragazzi burkinabé, «li hanno portati nel deserto, se qualcuno ha notizie chiami». In mezzo, avvisi come: «Evitate la posta centrale di Sfax, oggi arrestano». E ancora: «State lontani dal commissariato, pattuglie in azione». Ogni singolo giorno, i post sono decine. «Ci sentiamo impotenti – spiega Sophia – Ogni giorno riceviamo richieste di soccorso da parte di persone disidratate, che temono per la propria vita, non hanno un posto dove andare o sono sotto il fuoco incrociato di autorità tunisine e libiche o algerine». Dal deserto arrivano storie di donne costrette a partorire tra la sabbia o che il bambino che aspettavano lo hanno perso per la fame e per la sete, di feriti dai manganelli, se non dai proiettili sparati dalla frontiera tunisina, di chi attraversa chilometri di terra arsa per raggiungere un villaggio, per poi essere arrestato e deportato ancora. Di morti come Fati Dosso e Marie, madre e figlia ammazzate dalla sete e dalla fame e morte all’ombra di un cespuglio rachitico. «Lei voleva che nostra figlia avesse la possibilità di studiare, per questo siamo partiti», ha raccontato Pato, il padre della piccola, rintracciato da Refugees in Libya, che con loro era nel deserto e miracolosamente si è salvato. Ma è solo una delle tante famiglie spezzate. Stando a foto e video diffuse dalla Guardia di frontiera libica, almeno altre sei persone sarebbero morte, tra cui un padre e un bambino non molto più grande di Marie. Numeri sicuramente approssimati per difetto, dice chi sta monitorando la frontiera. «Potrebbero esserci ancora 300 persone bloccate lì. Ma il Sahara è enorme, basta un po’ di vento a cancellare le tracce dalle dune e la gente si sposta a piccoli gruppi, dunque è impossibile dire con certezza quanti siano ancora lì», dice David Yambio, portavoce della rete Refugees in Libya, che dall’Italia continua la battaglia per dare voce ai rifugiati iniziata quando protestava di fronte alla sede dell’Unhcr di Tripoli. «Ogni giorno ci sono espulsioni, ogni giorno la guardia di frontiera libica soccorre qualcuno».
Ormai noti anche in sede Onu per torture, abusi e detenzioni arbitrarie, i libici con video, foto, informazioni, dettagli, si mostrano al mondo come soccorritori. «C’è una sorta di competizione per accreditarsi agli occhi dell’Europa. In ballo ci sono i finanziamenti, quindi è chiaro che la Libia al momento ha tutto l’interesse a mostrare quello che succede per scoraggiare l’invio di fondi in Tunisia. Ma la storia di Fati, Pato e Marie mostra plasticamente quale sia la situazione: prima di morire alla frontiera, loro sono stati intercettati, respinti e incarcerati per quattro volte in Libia». Un manuale illustrato della politica di esternalizzazione delle frontiere e delle sue conseguenze. Per chi muore, per chi sopravvive. Perché di chi viene soccorso – spiega Yambio – non si sa più nulla. «Dove sono queste persone? Vengono considerati migranti irregolari e arrestati? Vengono avviati al rimpatrio, procedura di cui dovrebbe occuparsi l’Oim? O saranno integrati nella società libica, riceveranno asilo e accesso a una vita decorosa?». Non è mai arrivata nessuna risposta. «Per la legge libica sono migranti irregolari. La cosa più probabile è che siano stati arrestati, inseriti nel circuito della detenzione illegale, obbligati a lavorare da schiavi o a pagare per essere rilasciati». E lì si torna al precedente girone infernale di traversate tentate in un deserto che sia di sabbia o di acqua, ma per troppi è mortale. «In una situazione di crisi umanitaria, la priorità è mettere in sicurezza le persone come fatto in passato in Iraq o Ucraina. Sono ventimila – dice Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans – non si tratta di numeri impossibili. È chiaro poi che è necessario individuare canali sicuri e legali di accesso per chi rischia di trovarsi nella medesima situazione di pericolo. Lo ha dimostrato il tappo sulla rotta libica che ha “gonfiato” quella tunisina: non si potranno mai bloccare le partenze di persone che non hanno altra scelta che partire. Quello che è evidente è che la Tunisia non è un Paese terzo sicuro, come non lo è la Libia, che lo si consideri un partner, riempiendolo di soldi nella speranza di una sua progressiva democratizzazione, metodo che finora in Libia ha prodotto l’opposto, è comunque inaccettabile. Mentre si aspetta la democratizzazione e il “raggiungimento degli standard” come dicono a Bruxelles, si consegnano a morte e torture migliaia di innocenti?».