La Stampa, 20 agosto 2023
Odiare l’estate
Odio l’estate. Odio l’estate. Odio l’estate. Odio il mese d’agosto fino al giorno di Ferragosto. Passato il Ferragosto, mi sembra di uscire da un incubo. Mi sembra che tutto lentamente migliori per me. Cominciano i temporali d’autunno. Amo l’autunno e nell’autunno, di solito, scrivo qualcosa. Nell’estate, rarissimamente riesco a scrivere. Non odio l’estate per il caldo. Non mi accorgo del caldo e non me ne importa niente. Mi ricordo che fa caldo solo quando ne parlano gli altri. In verità ho cercato più volte di spiegarmi perché odio tanto l’estate. Nell’infanzia l’estate mi piaceva. Era la mia stagione preferita. Mi rallegravo del caldo e delle prime ciliegie. Allora, a Torino, c’erano molte carrozze, e i vetturini cacciavano in testa ai cavalli, d’estate, cappucci di tulle per difenderli dalle mosche. Io dicevo che i cavalli erano “vestiti da fata”. Ai primi cavalli “vestiti da fata” mi sentivo felice. L’estate significava andare in villeggiatura. Comparivano nel corridoio i nostri bauli, enormi e vecchissimi, con lastroni di ferro rugginosi, una sorta di dinosauri. Mia madre, nel fare i bauli, sospirava e sbuffava. Né a lei né ai miei fratelli piaceva andare in villeggiatura. Si annoiavano. Io mi divertivo. Per quattro mesi, stavamo in montagna. Il luogo e la casa li decideva mio padre. Erano sempre, secondo mia madre, case scomode e luoghi noiosi, dove non si trovava nessuno con cui scambiare mezza parola. Assistevo alla cerimonia dei bauli con viva gioia. La mia felicità era solo un poco offuscata dal malumore di mia madre. Appena ero in montagna, mi immaginavo di essere un’abitante di quei luoghi, nata là e destinata a vivere là per sempre. Mi sforzavo di cancellare dalla mia memoria la nostra casa di città. Non avevo altri bambini con cui giocare, e camminavo sola nei prati cercando cavallette e ranocchie. Allora non conoscevo la noia o la conoscevo appena, mi durava pochi istanti. Per pochi istanti, sbuffavo e ciondolavo intorno alla casa. Venivo subito rimproverata. Secondo mio padre, annoiarsi era una colpa sempre, ma soprattutto in montagna. Mia madre invece sembrava pensare che il diritto alla noia l’avevano soltanto i miei fratelli e lei stessa. Io non avevo questo diritto essendo piccola. Secondo mia madre, i bambini non dovevano mai né sbuffare né ciondolare.A un certo punto, mi accorsi che quelle villeggiature in montagna erano diventate di una noia insopportabile anche per me. Compresi allora che la mia infanzia era finita. Non me ne importava più niente delle cavallette e dei rospi. I libri che avevo portato con me li avevo letti e riletti nello spazio di pochi giorni. E inoltre stare a leggere in solitudine mi sembrava un’umiliazione. Mi sembrava che avrei dovuto avere degli amici, ma non ne avevo. Non sapevo assolutamente come passare il tempo. Ero a un tratto diventata pessimista. Inoltre, ero sola a patire la noia perché i miei fratelli diventati adulti non venivano più in montagna con noi, e mia madre stranamente non sbuffava più. Mia madre seguiva mio padre nelle sue passeggiate e con lui lodava la bellezza della natura e la purezza dell’aria. I miei genitori mi sembravano ora molto vecchi. Dalle loro figure contente e vecchie, che insieme camminavano per i sentieri, mi sembrava si propagasse una noia senza nome. Benché invitata a seguirli, non li seguivo, camminare in loro compagnia mi sembrava umiliante, sarebbe stata una dimostrazione palese che non avevo amici con cui passeggiare. Ogni giorno speravo che piovesse, perché se pioveva, potevo starmene in casa, nascosta agli occhi del prossimo. Se non pioveva, ricevevo dai miei genitori l’ordine di “stare all’aria”, e ubbidivo, per antica sottomissione. Leggevo su un prato. Leggevo però senza nessun piacere. Passavano sui sentieri gruppi di ragazzi e ragazze a me sconosciuti, con scarpe di gomma e racchette da tennis. Non potevo unirmi a loro perché non sarei riuscita a scambiare con loro una sola sillaba. Essi mi ispiravano un’ invidia mortale. Erano dotati del privilegio supremo di non essere figli dei miei genitori, di non assomigliarmi in nulla, di non avere la più lontana affinità con me. Erano dotati del privilegio supremo di essere il prossimo.Fu allora, in quelle villeggiature solitarie, che io presi a detestare l’estate. Pensai allora che la mia presenza sui prati, nei pomeriggi splendenti, era come una macchia nera che deturpava la felicità della terra. lo non trovavo il mondo triste, lo trovavo bellissimo, solo che a me per qualche ragione oscura era vietato di celebrarne le radiose giornate, così non potevo che cercare e amare l’autunno, l’inverno, il crepuscolo, la pioggia e la notte. Scopersi, in seguito, che una simile sensazione non ero io sola a provarla, che era una sensazione comune a molti, perché molti come me in qualche istante della loro esistenza si sono sentiti esclusi e mortificati dall’estate, giudicati per sempre indegni di raccogliere i fruiti dell’universo. Molti come me allora hanno odiato lo splendore abbagliante del cielo sui prati e sui boschi. Molti come me ai primi segni dell’estate si sentono in angoscia come all’annuncio di una disgrazia, perché in essi risorge lo spavento del giudizio e della condanna. A noi sembra allora di trovarci senza scampo, inchiodati nel punto dove siamo. Chi è solo, a un tratto, ha l’esatta misura della propria solitudine. Il ritmo abituale dei giorni si spezza. Le consuete sofferenze diventano insopportabili, rischiarate incessantemente da una luce solare e crudele. La nostra vita giace in disordine ai nostri piedi. Ci sentiamo costretti a enumerarne ogni dolore o errore. La luce dell’estate illumina senza misericordia il nostro silenzio, la nostra persona immobile, circondata di antiche e nuove catastrofi. Ci sentiamo a un tratto seduti sul banco degli imputati. Come in un interrogatorio di terzo grado, noi restiamo immobili, annichiliti e stravolti. Impossibile nasconderci a noi stessi e agli altri. Impossibile alzare un braccio per nascondere il nostro volto. Alle domande che ci saranno poste non sapremo rispondere. Essere noi stessi ci sembra una colpa peggiore d’un assassinio. Risorge in noi l’antica disperazione dell’adolescenza, quando abbiamo capito a un tratto che eravamo chiamati a essere diversi e felici, ma noi eravamo incapaci di ubbidire a un simile richiamo. Sappiamo per vecchia esperienza che, dopo Ferragosto, il processo sarà finito. Saremo risospinti a poco a poco in una quieta penombra. Là, potremo bisbigliare a noi stessi un nostro privato e personale perdono. Raduneremo intorno a noi con pazienza le nostre sparse rovine. I giorni fino al Ferragosto ci sembrano eterni. Detestiamo la città vuota nel sole accecante, i cinematografi vuoti dove si danno film di terrore. Assistiamo a quei film con indifferenza sia perché sono brutti, sia perché siamo già per conto nostro in preda al terrore. Detestiamo però più ancora la folla dei treni. Tutti partono, e ci chiedono se anche noi partiremo. Impossibile rispondere, quando siamo nel numero di quelli che non «hanno voglia né di partire né di restare».