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 2023  agosto 20 Domenica calendario

Un’indagine del 1953 sulla miseria italiana

«Nelle valli delle Alpi e degli Appennini, ed anche nelle pianure, specialmente dell’Italia Meridionale, e perfino in alcune province fra le meglio coltivate dell’Alta Italia, sorgono tuguri ove in un’unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame. E tali catapecchie si contano forse a centinaia di migliaia». Ed eccolo qui, il video di quella drammatica denuncia dell’«Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola» condotta da una Giunta parlamentare presieduta da Stefano Jacini dal 1877 al 1885. Una donna con una cuffia in testa riempie un secchio di acqua da un barile: dietro di lei, nella stessa stanza, ci sono un asino, un maiale, tre galline, un coniglio...
Ma come: un decennio prima che i fratelli Lumière proiettassero il celeberrimo «arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat» e cioè il primo documentario della storia? Questo è il punto: le immagini filmate dell’estrema miseria di quei tuguri «privi di aria e di luce» non sono della fine dell’Ottocento: sono del 1953. Ma potrebbero essere state girate uguali identiche, se fosse già stata inventata la cinepresa, sette decenni prima. Perché nulla era cambiato, in tanti decenni, per tanta parte dei contadini italiani, meridionali e non solo.
Ed è questa, con una serie di dati, ricordi e testimonianze che il nostro Paese ha voluto cancellare dalla memoria, la possente forza d’impatto de L’inchiesta parlamentare sulla miseria, il documentario dell’Istituto Luce che l’8 settembre (ore 18, Hotel Excelsior del Lido) sarà mostrato al Festival di Venezia settant’anni dopo la prima proiezione alla 14 ª Mostra Internazionale del Cinema del 1953. Una vera e propria «relazione cinematografica» firmata dal regista Giorgio Ferroni a completamento dell’attività della Commissione parlamentare che tra il 1951 e il 1954 indagò sulle condizioni di vita nelle zone montane alpine, il Delta padano, la montagna abruzzese, l’intero Mezzogiorno, i «suburbi» di Milano, Roma, Napoli.
Un reportage formidabile e inquietante che mostrava come, quasi cent’anni dopo l’Unità, l’Italia fosse spaccata in tre: una povertà relativamente contenuta al Nord (3,1% in Friuli-Venezia Giulia, 2,3 in Veneto, 1,4 in Lombardia, 0,3 in Piemonte...), una pesante nel Centro (7,1% in Umbria, 10 nel Lazio...) e una spaventosa nel Sud: 22,7% di miseria in Sardegna, 22,8 in Campania, 23 nell’Abruzzo e in Molise, 23,9 in Puglia, 25,2 in Sicilia, 33,2 in Basilicata fino a uno stratosferico 37,7 in Calabria. Prova provata di quanto poco fosse stato fatto in un secolo, al di là della propaganda savoiarda e mussoliniana, per colmare i secolari ritardi.
«In verità», riconosceva il presidente della commissione, Elio Vigorelli, «tutti sanno che esiste il problema della miseria, pochi ne conoscono le manifestazioni più angosciose» riconoscibili «nell’accattonaggio nel sudiciume, nell’ignoranza, nella prostituzione, nel delitto...». A questo doveva rispondere l’inchiesta parlamentare. E a questo rispose, mettendo a confronto tra l’altro il bilancio familiare (cinque persone in media) di un operaio specializzato del Nord e di un «misero» (definizione testuale) meridionale o polesano. La famiglia del primo, spiega il documentario mostrando una moglie col bambino che fanno di conto su un foglietto, poteva contare su 60.000 lire al mese (1.155 euro attuali, secondo rivaluta.istat.it), quella del secondo su 27.000, pari oggi a 519 euro. In cinque.
Razioni di carne
Mezzo chilo al giorno per una famiglia operaia del Nord, 150 grammi in cinque per i «miseri»
Dicono tutto le differenze nei consumi. Non solo sul pane (1,9 chili al giorno la famiglia dell’operaio specializzato, 1,6 quello del «misero») ma sulla frutta e gli ortaggi (3,4 la prima, 1,2 la seconda senza mai la frutta) e soprattutto sulla carne: 520 grammi di media per la modesta borghesia operaia, meno di un terzo (150 grammi: in cinque) per la massa di miserabili alle prese con un difficilissimo dopoguerra. Poveri che rappresentavano allora l’11,8 per cento della popolazione: 6.186.000 persone.
Poco più della metà (3.459.964) potevano contare sull’aiuto degli Eca (enti comunali di assistenza), 419.383 su altri 36.000 (sic!) piccoli o microscopici enti assistenziali vari, 2.306.647 su niente e nessuno: totalmente abbandonati al loro destino. E spinti a varcare più o meno legalmente le frontiere («Oltre il 50% dei lavoratori italiani emigrati in Francia tra il 1945 e il 1960 era rappresentato dai clandestini e il 90% dei familiari che li raggiunsero emigrò illegalmente», documenta lo storico Sandro Rinauro nel saggio Il cammino della speranza, Einaudi, 2009) per cercare un po’ di fortuna altrove.
La stessa speranza di andarsene era costosissima per chi viveva nei tuguri documentati dall’inchiesta sulla miseria. Se l’indice medio di affollamento nella famiglia dell’operaio specializzato «era di 1,73 persone per vano: una casa di tre stanze e cucina», le tane dei più miserabili avevano «un aspetto più sconfortante: per ogni famiglia media di cinque persone un solo ambiente. Rappresentato da una grotta, una baracca o altro locale di fortuna già di per se stesso malsano. È in queste condizioni che si trovano 870.000 famiglie, il che significa quasi 4 milioni e mezzo di italiani».
Era l’Italia disperata come il borgo di Grassano, scelto dall’inchiesta parlamentare come paese campione. Lo stesso dove meno di vent’anni prima era stato mandato al confino Carlo Levi, che in Cristo si è fermato a Eboli aveva scritto: «Le case dei contadini sono tutte uguali, fatte di una sola stanza che serve da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie piccole, quando non c’è per quest’uso, vicino alla casa, un casotto che si chiama in dialetto, con parola greca, il catoico. Da una parte c’è il camino, su cui si fa da mangiare con pochi stecchi portati ogni giorno dai campi: i muri e il soffitto sono scuri pel fumo. La luce viene dalla porta. La stanza è quasi interamente riempita dall’enorme letto, assai più grande di un comune letto matrimoniale: nel letto deve dormire tutta la famiglia, il padre, la madre, e tutti i figliuoli. I bimbi più piccini, finché prendono il latte, cioè fino ai tre o quattro anni, sono invece tenuti in piccole culle o cestelli di vimini, appesi al soffitto con delle corde, e penzolanti poco più in alto del letto... Sotto il letto stanno gli animali: lo spazio è così diviso in tre strati: per terra le bestie, sul letto gli uomini, e nell’aria i lattanti. Io mi curvavo sul letto, quando dovevo ascoltare un malato, o fare una iniezione a una donna che batteva i denti per la febbre e fumava per la malaria; col capo toccavo le culle appese, e tra le gambe mi passavano improvvisi i maiali o le galline spaventate...».