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 2023  agosto 19 Sabato calendario

Lo strano suicidio del generale Cavallero

Lo trovano all’alba, nel giardino dell’albergo Belvedere di Frascati. È seduto su una poltrona di vimini, il mento reclinato sul petto, gli occhi chiusi, le mani appoggiate ai braccioli (prima stranezza: è la postura d’un suicida?). C’è negli archivi un’immagine seppiata dei proprietari dell’hotel, i Gironi – lui in abito scuro e pochette, lei ben truccata e in camicetta bianca, sullo sfondo i colli romani – che indicano al fotografo il luogo esatto: «Per terra, alla sua destra, c’era una grossa pistola» (altra stranezza: una Beretta calibro 9 alla destra? Cavallero era mancino...). Racconta il Gironi che «il colpo alla nuca, da cui continuava a fluire il sangue, era ben visibile» (terza stranezza: la versione ufficiale ha sempre parlato d’uno sparo alla tempia). Alcuni testimoni notano due fori, «tirati minimo da tre metri di distanza», ma è impossibile eseguire accertamenti: l’autopsia viene affidata esclusivamente ai medici tedeschi (strano pure questo: prassi voleva che fossero i medici italiani a esaminare i militari italiani). E nessun referto (quinta stranezza) c’informa su quali proiettili, e di che calibro, abbiano ucciso il generale. Anche il dispaccio d’agenzia: non è passata una settimana dall’8 settembre, il re e Badoglio sono in fuga, Roma in quelle ore è nel caos di una città aperta e tutti sanno tutto, ma la Stefani (la mamma dell’Ansa di oggi) è sotto censura e attenderà un paio di giorni, prima di dare la notizia. I funerali, poi: di fronte alla compagnia d’onore tedesca li celebra l’ordinario militare italiano, monsignor Bartolomasi, in un’epoca che ancora vieta il rito religioso per qualunque suicida. E la salma viene inumata al Verano, un cimitero per il quale serve comunque l’autorizzazione ecclesiastica. «A metà settembre del ’43 mi trovavo a Roma, alloggiato al Quirinale – dirà quasi vent’anni dopo il principe Adalberto di Savoia Genova, duca di Bergamo e amico storico di Cavallero —, quando la radio controllata dai tedeschi annunciò il suicidio. Spiegavano che il generale non aveva potuto sopportare “la vergogna del tradimento e della capitolazione, sanciti dall’armistizio”. Subito la notizia mi sembrò strana, conoscendo la personalità del Maresciallo. Seppi che Cavallero, poco prima della morte, aveva rifiutato il comando delle forze armate italiane, al servizio della Repubblica sociale e del Reich. A quel punto, tutto mi fu chiaro: il suicidio era una simulazione nazista, abilmente orchestrata. Cavallero era stato vittima d’un delitto politico».

Delitto e intrigo. Da ottant’anni, è il mistero Cavallero. Come morì, e soprattutto perché, il Maresciallo d’Italia? In genere, una cosa accomuna chi uccide e chi s’uccide: cercare di farlo senza testimoni. La notte fra il 13 e il 14 settembre, anche il generale Cavallero se ne va in solitudine, nel verde dei pini romani, nel nero d’un anno drammatico, nel giallo d’un cold case che familiari e giornalisti, fascisti e partigiani, storici e investigatori non sono mai riusciti a risolvere. Rievocando il crollo del regime, si scrive di solito che in quell’estate di tragedie soltanto un fascista si sparò – il direttore della Stefani, Manlio Morgagni, subito dopo il 25 luglio e l’arresto del duce – e in fondo è sempre stata questa una prima risposta ai mille dubbi sul suicidio Cavallero: pochi ci hanno mai creduto davvero. E pochissimi credettero a quel lancio d’agenzia che ricalcava pari pari le parole del feldmaresciallo Albert Kesselring, il capo supremo delle truppe tedesche in Italia. Lo stesso Kesselring che la sera prima aveva fatto portare Cavallero a Frascati, quartier generale dei nazisti, e aveva alzato i calici nel bel mezzo dell’ultima cena, proponendogli di comandare a Salò quel che restava dell’esercito italiano. Lo stesso che aveva incassato un cortese e gelido rifiuto del vecchio soldato sabaudo: «Un grande onore. Ma mi spiace dovervi dire che, in quanto Maresciallo d’Italia, io prendo ordini soltanto dal mio Re...». Lo stesso Generalfeldmarschall che la mattina del 14, a cadavere caldo, batteva i tacchi e rendeva gli onori al sacrificio d’un «generale preparato che sapeva vedere lontano, dotato di un’eccezionale capacità di comando, di gran lunga il migliore dei marescialli e dei generali a me noti». Molti anni dopo un altro celebre generale esperto di cadaveri eccellenti, Carlo Alberto Dalla Chiesa, avrebbe detto che i fiori più belli d’un funerale sono sempre quelli del mandante: ai piedi della bara, nella cappelletta del Celio, fu posta un’enorme corona inviata personalmente da Hitler.
Si suicidò? Fu suicidato? Di sicuro, negli ultimi giorni è un Cavallero nel tormento: amico dei tedeschi, non vuole accettare la proposta di Kesselring, salire su un aereo per Monaco («l’aereo della vergogna!») e passare armi e bagagli al servizio della Germania. Si sente in trappola: «Sono prigioniero – confida poche ore prima di morire —, domani mi portano a Frascati e mi mettono una pallottola nella testa». Quando i nazisti lo scortano in clinica a visitare la sua Olga, quasi un commiato, lei lo implora d’evitare gesti estremi e lui la rassicura: «Non lo farei mai, conosci il mio credo religioso e la mia fede...». Restano sospese le domande: se davvero s’uccise, che cosa spinse il Maresciallo a rimangiarsi in poche ore la promessa fatta alla moglie? Se furono i tedeschi a eliminarlo, irritati dal tradimento, perché poi gli resero pubblica lode e vollero i funerali col picchetto d’onore?

Non è l’unico dilemma. Per ottant’anni le interpretazioni si sono scontrate tanto sulla morte, quanto sulla vita di Cavallero. Nell’opinione pubblica, è rimasto un giudizio politico molto severo sulla sua figura. E non è vero ciò che ne scriveva Montanelli a fine anni Settanta («Siamo ormai talmente lontani da quegli eventi che possiamo finalmente cavarci il gusto e prenderci il lusso di una ricostruzione oggettiva...»). Nel 2011, il sindaco di Casale Monferrato provò a intitolare un’aiuola al suo famoso concittadino, ma le polemiche sul «colonialista e sterminatore» Cavallero costrinsero presto gli assessori a fare retromarcia. Anche gli storici si son tenuti ben alla larga dall’eroe di Vittorio Veneto e del Piave, dal generale che nella Grande guerra aveva salvato l’Italia dalla disfatta di Caporetto e che da capo di Stato maggiore non era riuscito a risalvarla dal disastro mussoliniano: gli hanno regolarmente preferito i Ciano, i Badoglio, perfino i Graziani. Eppure Cavallero non fu una figura minore, tutt’altro: Vasilij Grossman gli dedica l’incipit di Stalingrado, monumentale romanzo nel quale racconta il treno del ’42 che porta Mussolini in visita da Hitler. Secondo Giordano Bruno Guerri, il Maresciallo fu «una delle figure più controverse della storia militare, e non solo militare, italiana»: pagò l’essere uno sconfitto della Storia, il non potersi più difendere, oltre ai pesanti insulti contenuti nei memoriali d’ex gerarchi come Ciano. Uno così non poteva ovviamente piacere agli antifascisti, ai quali non è mai bastato l’estremo atto di fedeltà al re. Ma nemmeno poteva piacere ai fascisti, che in fondo l’hanno sempre considerato un voltagabbana. Da seppellire, da dimenticare.
C’è voluto tempo, perché qualcuno ricominciasse a indagare su quelle ultime ore. Lo storico Marco Cuzzi dell’Università Statale di Milano, che allo studio del fascismo si dedica da sempre, in quest’ottantesimo anniversario del «suicidio perfetto» ha potuto accedere per la prima volta all’archivio privato di Cavallero: un giacimento inesplorato di carte, fotografie, memoriali che vanno dal 1914 al 1943 e che per lungo tempo è stato custodito nel castello di famiglia a Ponzano Monferrato. Una mole di documenti ingialliti, veline e telegrammi, lettere e plastici, cartoline e scatti dal fronte, dediche di generali giapponesi o di sciumbasci tigrini, sciabole e ritagli di giornale, vecchi raccoglitori etichettati «Martirio» che Cuzzi ha cominciato a riordinare con l’aiuto d’una studiosa d’archivistica, Clara Belotti. Conclusione: il giudizio sbrigativo di chi lo definì «il generale di Mussolini», dice lo storico, non rende giustizia a una personalità molto più complessa e sfaccettata di quanto si creda.
Il lavoro di catalogazione è vasto. Dalle sale del castello riemergono i piani strategici della battaglia di Vittorio Veneto, che dopo la Prima guerra mondiale valsero a Cavallero la promozione sul campo per meriti eccezionali. E poi la nomina a più giovane generale d’Italia. La biblioteca in francese, in tedesco, in inglese, tutte lingue che il Maresciallo parlava come il piemontese. Il suo ruolo nello sviluppo della grande industria nazionale, dalla Pirelli all’Ansaldo, a cavallo degli anni Venti-Trenta. La politica da senatore del Regno e l’adesione al fascismo, con l’incarico di sottosegretario alla Guerra. Gli anni della Grecia e dell’Albania. La campagna militare in Africa Orientale, con le polemiche sull’uso dei gas. Il «valzer dei Marescialli», quando Cavallero sostituiva Badoglio e Badoglio silurava Cavallero. Gli stretti rapporti col Terzo Reich, la campagna di Libia, la sconfitta di El Alamein. Le dimissioni imposte da Mussolini, alla ricerca d’un capro espiatorio per la disastrosa condotta della guerra. Mille riferimenti al memoriale che gli costò la vita, con l’accusa d’aver complottato contro il duce ben prima del Gran Consiglio del 25 luglio. E infine il rebus della morte a Frascati. «Bisogna rifare il ritratto del Maresciallo Cavallero», titolava già nel 1957 il settimanale «L’Europeo». Quanto all’«improbabile suicidio del Maresciallo d’Italia», dice oggi Cuzzi, «soltanto una perizia necroscopica dei resti potrebbe dipanare il dubbio. Ma di certo, sulla base delle carte consultate, delle numerose testimonianze e anche dell’equivoco comportamento tedesco, possiamo ritenere riaperto e forse da riscrivere del tutto il mistero Cavallero».
Il mistero è ancora sepolto fra l’Astigiano e il Casalese, negl’infernot del Monferrato. In quei pochi chilometri di filari da grignolino che dividono due piccoli paesi l’uno di fronte all’altro: Ponzano, dov’è il castello di Cavallero, e Grazzano che oggi si chiama Grazzano Badoglio. Guardandosi da collina a collina, rivaleggiando di battaglia in battaglia, forse solamente due uomini dello stesso crinale potevano odiarsi quanto s’odiarono per decenni gli ultimi due Marescialli d’Italia. Arcitaliani, arcinemici. Disse un giorno Mussolini, mentre discuteva di quei due con un suo fedelissimo, il generale repubblichino Renzo Montagna: «Se gl’italiani utilizzassero contro il nemico tutte le energie di cui fanno spreco per combattersi l’un l’altro, vinceremmo tutte le guerre». Nella fine di Cavallero appare con chiarezza il gioco di Badoglio, osserva Cuzzi, e anche questo è un capitolo del giallo: chi se non lui, a fine agosto ’43, fa arrestare e interrogare Cavallero («c’ai gava ’l sang», cavategli il sangue, è l’ordine in dialetto), per avere i dettagli della presunta congiura contro Mussolini e passarli poi al capo della Gestapo, il colonnello Herbert Kappler? E chi se non Badoglio, prima di scappare da Roma, dimentica «casualmente» sulla sua scrivania al Viminale quella busta gialla contenente il verbale dell’interrogatorio, lasciandola in bella vista perché cada proprio nelle mani dei tedeschi? Quanti rancori, tra il grazzanese Pietro e il ponzanese Ugo: nati nella Prima guerra mondiale, cresciuti nel Ventennio, esplosi nella catastrofe. La ricerca storica di Cuzzi riprende una testimonianza del primogenito di Cavallero, Carlo, e ricorda come in fondo Badoglio sia sempre stato «sommerso dallo spirito di bassa vendetta personale risalente a Caporetto, a Vittorio Veneto, ma soprattutto all’avventura greca (la responsabilità di Badoglio nella disastrosa guerra del 1940-’41), sulla quale Cavallero avrebbe potuto mettere in tavola la delittuosa responsabilità del nuovo capo del governo». È anche per questa ragione che la sera del 25 luglio, cacciato Mussolini, Badoglio ordina immediatamente d’arrestare l’acerrimo avversario. Ed è conoscendo bene l’eterna inimicizia dei due, il 27 luglio, che Vittorio Emanuele III ordina il rilascio di Cavallero. Ed è per paura che qualcosa s’inceppi nelle trattative con gli Alleati, sedici giorni prima dell’8 settembre, che Badoglio spedisce di nuovo Cavallero in galera a Forte Boccea, da dove andrà a prelevarlo soltanto Kesselring dopo la fuga dello stesso Badoglio e in vista dello showdown.
«Diede alle fortune d’Italia il piano di Vittorio Veneto, insegnò nella sfortuna che la vita è nulla dinanzi all’onore», recita la tomba di Cavallero al cimitero di Casale: un’allusione alla tragedia, senza interpretazioni. Nella biblioteca di Ponzano ci sono ancora le ultime lettere del Maresciallo alla moglie: «Bimba mia, quanto accade è del tutto naturale e non devi spaventartene davvero. Vi è, ahimè, la sofferenza dello stare lontani, con tutta l’ansia che ci prende. Anch’io ho dei momenti di sconforto, ma riesco per fortuna a superarli. La cosa è naturale...». Affastellato in uno scaffale, legato con fettuccine bianche, c’è anche l’originale del diario che Cavallero tenne fino al 1943. Quasi tutto il diario, perché ne è sparita una parte: la più preziosa, che va dal mese di febbraio al 14 settembre di quell’anno cruciale. Le pagine che raccontano la caduta degli dèi. Svanite nel turbinio degli eventi. Sempre cercate, mai ritrovate. Un altro mistero: chi se ne impadronì? E perché?

Le cronache raccontano che l’ultimo a vederle fu un gruppetto di partigiani del casalese. Dopo l’8 settembre, salirono di notte a Ponzano per prendere delle armi e un bel po’ di munizioni. Mentre perlustravano il castello, aiutati dal figlio del generale, casualmente s’imbatterono in una cassa. Ventitré grosse agende, più documenti sparsi: era il diario personale del Maresciallo, che qualcuno aveva nascosto nelle cantine prima del precipitare degli eventi. I partigiani capirono subito che quel materiale era ben più esplosivo delle munizioni: in quei fogli si poteva leggere giorno dopo giorno, e vista da vicinissimo, l’agonia d’un dittatore, d’un Paese, di un’epoca. Che farne? Scrive nel 1948 un inviato del quotidiano «Il Tempo», uno dei tanti che finita la guerra s’erano messi sulle tracce del diario: «In un primo momento, la cassa fu gettata nell’angolo d’un cortile all’ingresso di Ponzano, coperta da balle di paglia, in una casa di proprietà di due fratelli agricoltori, amici del Maresciallo. Un paio di mesi dopo, fu trovato un altro nascondiglio. C’è in quella casa una stanza che dà sulla strada. Una volta era un negozio di panettiere, ora è una specie di magazzino. Nello spessore di una parete c’è un incavo, una specie di armadio a muro. Lo misurarono: era alto un metro e 75, esattamente come la cassa dei documenti. Così, una notte, presero la cassa di sotto la paglia, la misero in piedi nell’armadio, tirarono su un velo di mattoni, imbiancarono a calce. Il muro suonava pieno, anche il più astuto inquisitore non avrebbe visto niente di sospetto. E così fu. Perquisizioni molte, scoperte nessuna. Nel paese, dove tutti sapevano che qualcosa s’era fatto, nessuno fiatò».
La casa c’è ancora. La cassa, chissà. Qualche tempo fa, prima della pandemia, un’erede di quei fratelli agricoltori è salita al castello e ha consegnato ai discendenti di Cavallero una vecchia valigia piena di telegrammi, di comunicazioni, d’ordini militari: tutte carte del Maresciallo, spuntate da alcuni lavori di ristrutturazione. Il professor Cuzzi le ha esaminate: no, non si tratta del diario scomparso. Una piccola delusione. Ma la conferma c’è: un po’ di quel passato è stato nascosto qui e qui, per ottant’anni, è rimasto. Il mistero Cavallero continua.