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 2023  agosto 19 Sabato calendario

Salviamo le didascalie

L’etimologia, innanzitutto. Proveniente dal greco didaskalía (istruzione), che deriva da didáskalos (maestro) e da didásko (io insegno), il termine «didascalia», in origine, viene adottato in ambito teatrale: di volta in volta, si riferisce all’attività di istruzione del coro lirico; al corpus di tragedie o di commedie presentato dal poeta negli agoni pubblici; e alla lista cronologica delle rappresentazioni. Ampia la diffusione anche nel cinema: nella sceneggiatura di un film, alle didascalie sono affidate le indicazioni dell’autore sulla recitazione e sulla scenografia. Inoltre sono chiamate «didascalie» i cartelli che introducono le varie situazioni di un film, le scritte impresse sotto le sequenze, i titoli di testa e di coda.
Ma è in arte che la parola «didascalia» ha avuto la maggiore fortuna: le opere esposte o riprodotte sono sempre accompagnate da cartelli esplicativi. Si tratta di elementi all’apparenza laterali, ma decisivi, non troppo diversi dalle «soglie» studiate da Gérard Genette in un libro oramai classico pubblicato nel 1987 (Soglie, Einaudi). Il teorico francese vi definisce l’opera letteraria come un insieme costituito da una «serie più o meno lunga di enunciati verbali (...) provvisti di significato» e da un’ampia periferia, formata dalla copertina, dal nome dell’autore, dal titolo, dalla prefazione e dalle illustrazioni. Queste «protesi» appartengono al libro: lo contornano, lo prolungano, lo rendono concreto. Dotate di funzioni specifiche, sono sempre subordinate al testo; ma solo attraverso di esse il testo stesso può esistere. Il paratesto, sottolinea Genette, è il «luogo privilegiato di una pragmatica e di una strategia, di un’azione sul pubblico, con il compito (...) di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più pertinente». Una traccia necessaria, dunque. «Una domanda innocente dovrebbe bastare: ridotto al suo solo testo e senza alcuna istruzione per l’uso, come leggeremmo l’Ulysses di Joyce se non si intitolasse Ulysses?». Qualche anno prima, nel 1978, in La verità in pittura (Newton Compton), Jacques Derrida si era interrogato sul concetto di párergon, che «collabora alla produzione del prodotto, lo scavalca e ne deriva». Il párergon è ciò che si trova al lato dell’opera, ma coopera con essa, la sostiene, la legittima.

Potremmo servirci delle analisi di Genette e Derrida per cogliere la funzione delle didascalie. Che non hanno il valore di indifferenti etichette. Sono soglie, appunto: presentano dati senza i quali la conoscenza dell’opera sarebbe incompleta. Talvolta, esibiscono solo alcune informazioni oggettive. Altre volte orientano lo spettatore, dischiudendo piste ermeneutiche. In fondo, le didascalie sono come nomi propri, che permettono di identificare qualcuno. O ponti, che mettono in collegamento il pubblico con l’artista, con il suo mondo, con le tecniche utilizzate, con la fisicità dell’opera. Note che animano: per riprendere una categoria cara a Juri Lotman, una sorta di «semiosfera», in cui si trovano a convivere, tese nella loro differenza, culture, esperienze, temporalità. «Immaginiamo la sala di un museo nella quale siano esposti oggetti appartenenti a secoli diversi, iscrizioni in lingue note e ignote, istruzioni per la decifrazione, un testo esplicativo redatto dagli organizzatori, gli schemi di itinerari per la visita della mostra, le regole di comportamento per i visitatori. Se vi collochiamo anche i visitatori coi loro mondi semiotici, avremo qualcosa che ricorda il quadro della semiosfera».
Eppure, negli ultimi anni, abbiamo assistito a una progressiva marginalizzazione di questi «asterischi». In alcuni casi, le didascalie sono state allestite quasi controvoglia. In altri casi, semplificate o ridotte all’essenziale. In altri casi ancora, male illuminate o stampate in caratteri troppo piccoli. Non di rado scritte con un linguaggio asettico e impersonale. A volte, condensate in qualche pannello o riportate su fogli difficili da consultare, che costringono il pubblico a faticose cacce al tesoro. Troppo spesso queste «epigrafi» sono elaborate con una certa sufficienza o ricorrendo a espressioni oscure, ermetiche, troppo specialistiche. Si ricordino tanti musei di archeologia, costellati di pannelli che paiono rivolgersi solo a una ristretta élite. Inoltre, si ricordino tante mostre d’arte contemporanea, ricche di apparati scritti da curatori che tendono a non fornire adeguati accompagnamenti informativi ed evitano di descrivere le opere esposte, ma presentano testi vaghi, approssimativi, aggrovigliati. È come se si avesse timore nell’essere divulgativi, chiari, popolari: didascalici, appunto.
Perché, si chiede qualcuno, non ispirarsi ad Anonym, la mostra organizzata nel 2007 dalla Schrin Kunsthalle di Francoforte? Là non si fornì nessuna notizia sul nome del curatore né sull’identità degli autori di quadri e sculture. Ecco: il trionfo dell’anonimato, in un’epoca dominata dal culto della griffe. Un’estrema provocazione. Che invitava a riflettere sulla dimensione sovrapersonale della creazione artistica. E spingeva a misurarsi con l’autentica qualità dello stile di un artista: senza pregiudizi. Commentando quella mostra, Claudio Magris osservò: «Se si ignorassero gli autori delle opere, il giudizio critico sarebbe molto più libero e oggettivo, non vincolato da riguardi né da condizionamenti precedenti; anche un genio può scrivere cose insignificanti (...), ma se sappiamo che tale pagina o tale opera è di un genio siamo forzati ad attribuire loro significati in realtà inesistenti».
L’approdo del progressivo declino delle didascalie è stato rappresentato dalle scelte del direttore della Galleria Nazionale di Roma. Nel 2016, Cristiana Collu ha disposto parti della collezione del museo non senza libertà e disinvoltura. Incurante di ogni principio storiografico, abbandonandosi al gioco delle corrispondenze formali, ha decontestualizzato le opere, con scelte arbitrarie, esito di un narcisistico impressionismo critico. Il suo intento: la ricerca dello stupore. Con un rischio: trasformare una grande pinacoteca in una Biennale. Una proposta che fu elogiata da Alessandro Baricco: «Adoro quando invitano il mio cervello a cucinare invece che servirgli la cena a tavola, precotta». Eppure... Una scultura di Antonio Canova e un’installazione di Pino Pascali sono stati posti accanto. Perché? Qual è il senso di simili accostamenti? Quale il fine di un’impresa tanto sgrammaticata? Nessun cartello orienta. Nessun testo che legittimi le finalità del curatore. Gli esperti d’arte (forse) potranno comprenderle. Ma il pubblico di un museo è composto solo da addetti ai lavori? È ammissibile che il direttore di un’istituzione pubblica agisca come un artista, intento a usare le opere altrui, senza spiegare la logica del suo discorso critico? Che vantaggio ne trarrà il visitatore? Cosa capirà della storia dell’arte italiana dopo la sua passeggiata, senza nessuna guida? E ancora: un museo può ridursi a essere solo spazio dove sculture e quadri vengono accostati in modo fantasioso? Come uscire da simili aberrazioni, che fortunatamente non sono state replicate altrove?
Alcuni esempi virtuosi. Sin dall’edizione del 2013, i curatori della Biennale di Venezia hanno scelto di affiancare alle opere d’arte esaustivi pannelli esplicativi, simili a sunti vasariani. E ancora: James Bradburne ha invitato romanzieri come Orhan Pamuk e Tiziano Scarpa a ideare didascalie letterarie, poi collocate sotto celebri dipinti della Pinacoteca di Brera. Infine, gli apparati per le mostre della Fondazione Prada: in particolare, ineccepibili le note di Salvatore Settis per Recycling Beauty (2022).

In base a queste esperienze, va affermata l’importanza delle didascalie, attenendosi a un possibile decalogo:

1 le didascalie devono essere scritte direttamente dal curatore del museo o della mostra, pensando al pubblico e non a qualche collega (hanno la stessa importanza del saggio introduttivo di un catalogo);
2 le didascalie devono essere rigorose e documentate;
3 le didascalie devono essere redatte in una prosa piana e semplice;
4 le didascalie devono essere precise nelle informazioni (nome e cognome dell’artista, luogo e data di nascita, titolo e data dell’opera, misure, tecnica utilizzata, provenienza);
5 le didascalie devono prevedere anche parti narrative;
6 le didascalie devono essere capaci di svelare alcuni segreti di una determinata opera; le relazioni dell’artista con l’ambiente sociale dentro cui quell’opera è stata realizzata; i rimandi storico-artistici e culturali a essa sottesi; le caratteristiche stilistiche;
7 le didascalie devono essere ben visibili, accanto all’opera;
8 le didascalie devono essere stampate in un corpo tipografico leggibile;
9 le didascalie devono essere correttamente illuminate;
10 le didascalie devono essere integrate da Qrcode, che permettano di accedere ad apparati testuali e visivi, per ulteriori approfondimenti.

Salviamo le didascalie, dunque.
È un modo per dire con forza il valore democratico della cultura. Ed è anche un modo per pronunciare le ragioni nobili della divulgazione, che si fonda su alcuni passaggi: semplificare senza banalizzare; non dare spiegazioni particolareggiate; e non pretendere neanche di risolvere in poche frasi il senso dell’opera di un artista; ma limitarsi a offrire notizie indispensabili e pochi concetti essenziali. E ancora: dare stimoli, dischiudere sentieri, lasciare intravedere problemi senza pretendere di risolverli. Divulgare, ricordava Beniamino Placido, è un modo non per saziare, ma per affamare; non per spegnere, ma per accendere il nostro interesse. Un rito che serve a incrementare lo sviluppo dello spirito critico e la crescita culturale, morale e civile del pubblico.
Infine, salvare le didascalie significa soprattutto farsi difensori di una concezione formativa di musei e mostre. Che sono come università popolari. Senza mai rinunciare a educare e a far conoscere meglio l’arte, devono riuscire a coniugare rigore e intrattenimento, così da renderci cittadini più consapevoli del nostro patrimonio. È quel che aveva sottolineato Georges-Henri Rivière, l’erudito fondatore, nel 1937, del Musée des arts et des traditions populaires di Parigi. Rivière scriveva: «Il successo di un museo non si valuta in base al numero dei visitatori che vi affluiscono, ma al numero dei visitatori ai quali ha insegnato qualcosa. (...) Non si valuta in base alla sua superficie ma alla quantità di spazio che il pubblico avrà percorso traendone un vero beneficio».