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 2023  agosto 19 Sabato calendario

Intervista a Gay Talese

Il portoncino bianco in cima alle scale in ferro battuto con il nome Talese inciso sopra è aperto. Forse perché Irma, la domestica romena, va e viene, in una mano il guinzaglio del cane, nell’altra un caffé. O forse perché il nuovo libro di Gay Talese, Bartleby & Me. Reflections of an Old Scrivener («Bartleby e Io. Riflessioni di un vecchio scrivano »), uscirà a settembre in America e lo scrittore novantunenne ci sta aspettando nella sua townhouse nell’Upper East Side. Elegante come al solito, si siede su uno dei due divani di pelle e ci fa accomodare nell’altro. Ma c’è un problema: mentre stavamo arrivando è stata annunciata la terza incriminazione di Trump. Abbiamo bisogno di venti minuti per terminare di scrivere l’articolo. Finiamo a guardare insieme in tv la conferenza stampa del procuratore Jack Smith, ma Talese osserva che era previsto: «Questa non è una notizia».
A Talese non è mai interessato scrivere delle persone famose. Preferisce i «nessuno». Nella libreria a forma di ponte che ti accoglie appena entri in casa, ci sono i suoi libri tradotti in lingue diverse, sicuramente da qualche parte The Bridge. Tutti conoscono il ponte di Verrazzano, opera monumentale che collega Brooklyn e Staten Island, ma quand’era un giovane reporter del «New York Times», Talese decise di documentare le storie sconosciute degli operai che l’avevano costruito. Operai, portieri, camerieri, domestiche, postini sono stati i suoi soggetti preferiti nella «città delle cose che passano inosservate». Personaggi che ricordano Bartleby lo scrivano, protagonista di un racconto di Herman Melville pubblicato nel 1853, due anni dopo Moby-Dick: un impiegato diligente e taciturno che ricopia a mano documenti legali per un avvocato di Wall Street – per un attimo la sua estrema dedizione al lavoro sembra premiarlo, ma all’improvviso rifiuta un incarico e il suo «preferisco di no» lo porta all’autodistruzione.

Posso registrare?
«Fai quello che devi, senza chiedere». Lui non registra mai. Prende appunti su rettangoli di cartone dai bordi arrotondati che ritaglia dai cartoncini per piegare le camicie usati dalla sua lavanderia. Li infila in tasca per scribacchiarci sopra di nascosto qualcosa che ha sentito o osservato, come quando nel 1965 lavorò al suo pezzo più famoso, Frank Sinatra Has a Cold («Frank Sinatra ha il raffreddore»). Stavolta su uno di quei cartoncini ha scritto il nome dell’intervistatrice, per non dimenticarlo. Alle sue spalle c’è una grande veranda, dove lui e la moglie hanno smesso di organizzare feste dopo il Covid tre anni fa, quando lei, oggi 89enne, è anche andata in pensione. Talese ha dedicato cinque anni a scrivere Bartleby & Me. Per due anni ha parlato con decine di personaggi minori per documentare la storia del dottor Nicholas Bartha, un medico che nel 2006 si suicidò saltando in aria insieme alla sua townhouse di quattro piani, al 34 East 62nd Street – poco distante da quella di Talese – per non lasciarla alla moglie alla quale era stata assegnata dalla giudice dopo il divorzio.
La storia di Bartha è la terza – e ultima – parte del libro.
«Ma all’inizio era l’inizio. Il problema è che questo personaggio ha una personalità così poco attraente, specialmente nel clima di MeToo e dei diritti delle donne... Non aveva incluso la moglie nell’atto di proprietà della casa, le aveva lasciato messaggi ostili con una svastica. Ed era ebreo, ma un ebreo che odia sé stesso. Il mio editore mi ha chiesto: puoi scrivere un’introduzione in modo da ammorbidirlo? È così che ho iniziato a pensare a Bartleby. Ho scritto 10, 20, 30, 40 pagine, ho scritto anche di Sinatra. Bartleby ha spinto Bartha in fondo. L’introduzione è più lunga del libro».
Così questo libro è diventato un memoir del suo metodo giornalistico.
«È un manuale per reporter. Chi sono e cosa faccio, che sono la stessa cosa».

Il libro inizia con un articolo e finisce con un altro articolo.
«È strutturato come un ponte, a diversi livelli. La scoperta di Bartleby non è altro che il frutto della mia curiosità per le persone comuni, nata dal fatto che sono cresciuto nella sartoria dei miei genitori, a Ocean City, New Jersey, circondato da persone ordinarie come Bartleby, persone che in vita non facevano notizia e la cui morte non meritava un necrologio. Sono nato nel 1932, avevo dieci anni durante la guerra. Mio padre era un immigrato calabrese che parlava un inglese stentato. Ocean City era una cittadina di destra, repubblicana. Non era New York, era l’America paesana super patriottica. Mi portava all’ufficio postale per mandare pacchi ai parenti in Calabria, e c’erano le foto di Hitler, del giapponese Tojo e di Mussolini: i nemici. Ma io avevo due zii nell’esercito di Mussolini. Mio padre era americano di giorno e italiano di notte. Di giorno faceva vestiti per gli americani, teneva la bandiera davanti al negozio come tutti. Di notte, al piano sopra il negozio, dove abitavamo, ascoltava alla radio notizie sulla guerra e parlava un’altra lingua. Come reporter ho visto due lati di mio padre, la sua lealtà frammentata, la sua preoccupazione per i fratelli ma anche per sé stesso, che era cittadino americano ma parte di un’esistenza italiana molto negativa perché associata al fascismo. Ho capito la guerra non dalla tv o dalla radio, ma dalla gente che veniva nel negozio e parlava di razioni, di figli nell’esercito magari in Italia, del lavoro in un ospedale per veterani feriti. Erano dei nessuno, non venivano intervistati, ma per me erano la voce di un’era. Perciò, quando sono diventato un reporter, ho visto la storia delle persone ordinarie».
E il fatto che i suoi zii fossero dall’altra parte?
«Ha fatto una grossa differenza. Vedo più lati in una storia. Vedo la storia dal lato di Putin oltre che di Zelensky. Dal lato di Xi oltre che di Biden. Non vedo Trump come il cattivo e Biden come l’eroe: sono entrambe figure con difetti. Ma oggi questo è uno svantaggio: perché oggi in America devi stare da una parte o dall’altra. Non potrei fare il reporter oggi. Non mi pubblicherebbero. È un momento terribile in America. I diversi punti di vista in una democrazia? Non esistono».
La seconda parte è su Sinatra.
«La super superstar. Ma io non volevo scrivere sulle superstar, ho dovuto farlo. Avevo una bambina di un anno, avevo un incarico, come te: questo stupido Trump, lo dovevi fare. Io ho dovuto fare Sinatra, perché mi permetteva di fare quello che volevo davvero: scrivere un pezzo sull’autore dei necrologi del “New York Times”. Ma alla fine Sinatra era anche un antidoto ai miei zii fascisti. L’esperienza italo-americana era macchiata dal crimine e da Mussolini. E Sinatra fu la prima persona d’origine italiana che diventò davvero famosa negli anni della guerra, una persona che ha profondamente influenzato l’identità italo-americana e quindi anche la mia».

«La porto giù?», chiede Irma.
«Non ora, avevo detto alle 7.15 – risponde Talese – Sono le 7.15?».
L’orologio segna le 7.06.
«Ok».
Talese ha prenotato da Piccola Cucina, a un paio di isolati di distanza. Sua moglie Nan, elegante anche lei, scende dal piano di sopra, aiutata da Irma fino a una sedia a rotelle. È stata una famosa editor: ha scoperto tra gli altri Margaret Atwood e Ian McEwan. È a lei che Gay ha dedicato questo libro. «Ha problemi di equilibrio, non può camminare. Usa un bastone e la spingiamo».
Nel locale affollato e rumoroso, lui ordina il solito Martini e dà istruzioni per il cocktail della moglie. Si informa sul nome del cameriere, Mario, e tenta una conversazione sul Montepulciano – ma Mario è messicano. Nan ordina carpaccio: arriva il pesce, credeva fosse carne. «Vedi, è una scena di cui puoi scrivere», spiega Talese: «Una coppia di anziani, un cameriere con cui non si capiscono... c’è una disconnessione, come nell’America di oggi». Dopo cena, Gay spinge Nan fino a casa. L’aiuta su per le scale, passano davanti alle opere delle loro due figlie, una pittrice e l’altra fotografa, affisse alle pareti, e salgono ancora, al primo piano. Lei si distende sul divano. Noi ci sediamo di nuovo a parlare.
Perché avete tanti fiori finti in casa?
«Chiedilo a lei».
E Nan dal divano: «Perché siamo qui per poco. Ce ne andiamo domani».
Siete insieme da una vita, cos’avete in comune?
«Il rispetto. Io non l’ho mai perso, lei nemmeno. La gente pensa che l’amore sia il sesso, il sesso non significa niente. La gente divorzia dopo un adulterio, ma l’unica cosa che conta è se rispetti l’altra persona. Può essere Rita Hayworth, Madonna, Lady Gaga, Jane Fonda, non importa. La rispetti? No: è finita. Sì? Non è mai finita. Sono stato con donne più belle, big deal . Il rispetto dura per una vita. E noi siamo insieme da 66 anni, 64 dal nostro matrimonio a Roma. Dannatamente lunghi. Mi senti? – dice rivolto a Nan —. Non mi senti. Ti sei già addormentata».

Bartha dice che fascismo, comunismo e politically correct sono uguali.
«È molto conservatore. Oggi non puoi dire queste cose».
Ha perso la sua «townhouse» per via di queste idee?
«Il suo atteggiamento lo ha distrutto. Non è una cosa insolita per le persone della Seconda guerra mondiale: hanno un atteggiamento diverso che non funziona nel nostro Paese oggi. Ma lui amava quella proprietà, voleva avere i piedi per terra nel nuovo mondo. E c’era riuscito attraverso quell’edificio. Bartha era un ungherese nato in Romania, lavorava sodo, non si divertiva, non andava mai al cinema, voleva avere qualcosa ed essere qualcuno. Era un medico e non è facile essere un medico straniero negli Stati Uniti. Era un outsider. Una storia triste. Non pensi che sia una storia triste?»
No, è una storia comune. Non il finale magari: non tutti si fanno saltare in aria insieme a casa propria, ma gli outsider sono tanti.
«È anche una storia sulla proprietà. New York è la città dei beni immobili, sotto ogni edificio ce n’è un altro, altre vite. Bartha non c’è più, ma una volta c’era, qualcuno ha costruito sulle sue macerie, come i romani costruirono sui greci».

Le auguro che il libro abbia successo
«Il successo... io ho 91 anni, lei 89... Sto scrivendo un libro sul matrimonio, A non fiction marriage, storia dell’intimità di una coppia nella stessa casa, questa, per 66 anni».
È l’anti-Bartha?
«Non del tutto. Estremo senso di possesso. Orgoglio legato al luogo. Bartha non voleva andarsene, quando è stato costretto ha fatto esplodere la sua casa. Io non sono mai stato costretto a lasciare casa. Non eravamo ricchi, io e Nan abbiamo comprato questo posto lavorando. All’inizio non facevamo molti soldi, poi c’è stato il bestseller (The Kingdom and the Power sui giornalisti “ordinari” del “New York Times”, ndr). Ora io morirò in quest’edificio, lei morirà in quest’edificio, le nostre figlie lo erediteranno e probabilmente lo faranno saltare in aria».
Vendere un terreno vuoto conviene, come insegna la storia di Bartha. Passeremo da lì, sulla strada verso casa.
«Sai dov’è. Fai una foto».