il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2023
Appunti sul sorbetto
“Piangete, bambini, che la mamma ve lo compra” scriveva Ciro Fontana, novecentesco voyeur dei loggioni della Scala di Milano. Che poi le poltroncine rosse erano l’habitat perfetto per il gran maestro del buon gusto: il sorbetto. Il gelatée, avo del più moderno e proletario gelato, allora fluido e felpato ospite dei palati dell’alta borghesia europea.
Etimo quasi certo: dal verbo sorbire, pubblicizzato in tutta Francia dal siciliano Procopio nel suo famoso Café parigino. Ma a Venezia già nel ‘500 girava la surba, che in arabo significa sciroppo. Variante raffinata delle “marenate ghiacciate”, condite di zucchero e cotte nel vino, chiamate “sfregamuson” perché i bambini finivano sempre per impiastricciarsi il viso. Ecco quindi che a metà Ottocento spunta nel dizionario del Cherubini il più aristocratico (e meneghino) sorbett brulé o classegh, con pere gnocche, limone e anice. Tanto buono, pare, che il consumo forsennato provocò a Leopardi una serie di potenti “cacarelle”, una delle quali forse lo fece secco. Ma guai a scriverlo: Mussolini nel 1939 chiuse Omnibus di Longanesi dopo che Alberto Savinio aveva tracciato un ritratto alquanto impietoso del grande poeta dell’Infinito, insieme ai suo peccati di gola sotto zero. Un fatto ormai noto come lo “scandalo del sorbetto”. Metonimia, appunto, per non sfociare nel volgare degli effetti collaterali, ma che in realtà era solo un pretesto per estendere la censura all’ultimo rotocalco che del duce scriveva ancora peste e corna. Tra i fan sfegatati c’era poi Stendhal. Quando andava a teatro, lo scrittore francese ne acquistava talmente tanti che alcuni “servivano come pegno per le scommesse”, annotava Guido Bezzola, mentre quelli avanzati venivano penosamente offerti alle dame. Le signore, però, pare andassero matte per i sorbetti “pasta” della pasticceria Cova, dietro alla Scala. La compravendita nei palchetti era infatti un appuntamento fisso (e decisamente lungo). Tanto che Gioachino Rossini cambierà la programmazione di un’aria in Ciro in Babilonia, Chi disprezza gli infelici (sic), interpretata al debutto nel 1812 dal soprano Anna Savinelli (una donna “indicibilmente brutta”, scrive il compositore), per farla coincidere col momento in cui il pubblico è distratti dal dessert.
Da lì, appunto, le “arie di sorbetto”, momenti musicali secondari, ma socialmente imprescindibili.