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 2023  agosto 19 Sabato calendario

Su Martin Amis

Il problema con certi scrittori è che, arrivati a un certo punto delle loro carriere, cominciano a sollevare aspettativa. Se poi, dopo una serie di alti e bassi più o meno spettacolari, la carriera si chiude bruscamente, quell’aspettativa si trasforma in una sorta di pretesa e le opere lasciate indietro da romanzieri e saggisti passati a miglior vita assumono i contorni di testamenti più o meno riluttanti. «Raggiunto un particolare status – dice a La Stampa il critico letterario del New Yorker James Wood – cominciamo a pretendere dagli scrittori che ci spieghino il passato, il presente e il futuro».
Se poi lo scrittore in questione è stato un maestro di opinione, un fuoriclasse della stoccata e della presa di posizione come Martin Amis, allora alla sua morte il rischio è cominciare a leggere molto di più di quanto in effetti avrebbe voluto dire; e, va da sé, di travisarne quasi completamente le intenzioni.
Il rapporto con la critica di Amis è sempre stato altalenate, così come – benché lui lo negasse fermamente assieme a qualsiasi altro aspetto negativo della sua professionalità – quello con l’editoria. «Sosteneva di non aver bisogno né di critici, né di editor – dice a La Stampa il saggista britannico Geoff Dyer – nel primo caso penso si trattasse della paura di essere messo di fronte all’evidenza di un lavoro poco riuscito, nel secondo era la certezza di trovarsi con le spalle al muro. Ovviamente aveva disperato bisogno di entrambi, come tutti».
Soprattutto negli ultimi anni della sua vita – è morto lo scorso 19 maggio, all’indomani della pubblicazione in Italia del suo ultimo memoir La storia da dentro (pubblicato da Einaudi per la traduzione di Gaspare Bona) – Amis era diventato per l’opinione pubblica una specie di macchina da giudizio, per molti anche dotato di una certa preveggenza. «Aveva una voce pubblica molto imperiosa – commenta Wood – forse per questo ci si aspettava da lui che le sue risposte fossero definitive come sentenze». Indubbiamente era dotato, e lo era sempre stato, di una certa spiccata consapevolezza del mondo che lo circondava. «Aveva un affilato senso dello Zeitgeist – dice Dyer – e questo ha alimentato molto la sua pulsione a diventare una specie di intellettuale pubblico, come il suo amico di tutta una vita Christopher Hitchens. Per un certo periodo ebbero entrambi il polso esatto di ciò che stava accadendo al mondo e le parole giuste per esprimerlo, per traghettarlo», non senza una buona dose di opinione incontrollata, ma non per questo fuori fuoco, almeno per un buon periodo delle loro vite. «Dopo un po’, però, penso che sia avvenuto una specie di scollamento: Amis era ancora perfettamente in grado di analizzare cosa stava succedendo, ma è come se linguisticamente fosse rimasto un passo indietro. Lionel Asbo – lo stato dell’Inghilterra (uscito in Italia per Einaudi nel 2012 e tradotto da Federica Aceto) è stato uno dei frutti di quel periodo di rallentamento, e si percepiva senza dubbio».
Qualsiasi romanziere, specie se particolarmente prolifico, può incappare in momenti di stanca, di fatica creativa. Per Amis gli anni Dieci del Duemila sono stati particolarmente travagliati. Forse, anche e soprattutto, per il peso delle aspettative che a quel punto, con la morte del suo contraltare perfetto Hitchens e come lui analizza chiaramente in La storia da dentro, lo stavano travolgendo senza che fosse in grado di mettere a fuoco i concetti chiaramente come gli era capitato in passato. All’indomani dell’uscita di La vedova incinta (Einaudi, 2010, per la traduzione di Maurizia Balmelli) qualcuno aveva avuto l’ardire di chiedergli se si trattasse di un ritorno di forma. «Sono sempre stato in forma!», aveva tuonato Amis in risposta. «Che cos’è questa storia della forma? Non ho idea di dove volete arrivare, ma penso che il mio talento sia assolutamente vigoroso». Indubbiamente gli piaceva dare di sé un’idea di sicurezza marmorea e inscalfibile di fronte a qualsiasi situazione. «Eppure era capace di grande insicurezza», sostiene Wood, «Che trapelava dalle sue pagine più personali». Semplicemente, probabilmente, non gli piaceva che questo aspetto del suo carattere diventasse motivo di pubblica analisi.
«È stato una delle persone più divertenti che io abbia mai conosciuto», ricorda Dyer, «Non bisogna mai dimenticarlo. Questa sua ironia spesso era feroce, pubblicamente feroce, e utile a mascherare la difficoltà nel parlare veramente di sé». Che si trattasse o meno, come alcuni hanno voluto metterla, di imperscrutabile humor britannico, Amis aveva una risposta tonante a qualsiasi domanda e quando si trattava di critica sapeva sempre quali tasti toccare per far saltare il tappo dell’indignazione, specialmente con i suoi divertiti detrattori statunitensi. «È gente che negli ospedali accetta di farsi mettere in conto i fazzoletti di carta», commenta Dyer che, proprio come Amis e Wood, è britannico in terra americana. «Se c’è qualcosa di cui vale la pena lamentarsi sonoramente e che Marty non ha mai perso occasione per criticare, quella è proprio l’America».
In un saggio poderoso mai tradotto in Italia, intitolato The Moronic Inferno e pubblicato nel 1986, Amis punta per la prima volta il dito su quella che sarebbe diventata la sua patria a singhiozzi e il motivo di ogni sua lamentazione a venire. «Gli edifici tutti uguali disposti con malagrazia sui raccordi autostradali, le insegne dei motel, la stupida allegria della mascotte di Dunkin’ Donuts che strizza l’occhio su un cartellone», scriveva nella sua lingua roboante, «Non ho mai idea di dove mi trovo – Indiana, Illinois, Iowa – ma questo instancabile ripetersi di cliché infantili mi rincuora: sono certamente in America».
Ed è stato proprio in quella terra di ripetizioni infinite che le pretese di veggenza e onniscienza si sono scatenate maggiormente. Come pochi prima di lui, Amis aveva tutte le carte in regola per diventare la superstar letteraria che la critica ha voluto: si esprimeva sempre contro qualcosa, aveva un seguito di irriducibili cultori, aveva un accento interessante e non si tirava mai indietro quando si presentava l’occasione di combattere. Tutte doti che, da Ernest Hemingway a Fran Lebowitz, hanno sempre stuzzicato immensamente i commentatori d’oltreoceano.
«C’era uno scrittore e c’era un personaggio – conclude secco Wood, che con Amis ha avuto uno stretto rapporto dentro e fuori dalla pagina per gran parte della sua carriera – e credo che non si conoscessero tra loro». E se anche si conoscevano, non è detto che si piacessero. Tanto uno sembrava essere oggettivo e ordinato, sistematico, quanto l’altro dava l’idea di un carattere categorico e fumantino. Indubbiamente, entrambi hanno contribuito alla definizione di un mito letterario che ora, come da tradizione, verrà esaltato, commentato e, quasi certamente, travisato. Restano i ricordi di chi ha ammirato lo scrittore e conosciuto l’uomo, nella sua complessa semplicità.
«Avrei voluto giocarci una partita di tennis – è l’ultimo pensiero di Dyer – quando ci siamo conosciuti aveva già smesso. Penso che sarebbe stata un’esperienza interessante: quella rabbia e quella misuratezza assieme dovevano fare miracoli». —