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 2023  agosto 19 Sabato calendario

Erdogan, il de Gaulle levantino capace di sfruttare Putin e Nato

La Turchia va di moda come mai dai tempi di Mozart. Tutti ne parlano con rispetto, quasi invidia. Inclusi coloro che la detestano. Proviamo a capire perché. A partire dal carattere, scontato che sulla scena geopolitica ogni attore è antropomorfo. Lo riconosci dalla maschera e dal motto. Nel caso turco: «Dovunque e da nessuna parte». Ankara gioca di sponda, sfrutta la scia, tuona poi tira sul prezzo, si nasconde e riappare dove meno l’aspetti. Opportunista affidabile, coniuga agilità di movimento e cantilenante ossessione della memoria, marchio delle identità forti. Autocentrata ma non autistica, non si nega a nessuno. Cuce compromessi con la pistola sul tavolo. Il suo limite: dover apparire più di quanto è. Ma non può farne a meno. Un turco disposto all’understatement è un turco che sta male. Un capo turco che si rispetti presume che l’omologo straniero ne riconosca il rango come il conte di Kent con re Lear: «C’è nel vostro aspetto qualcosa che m’induce a chiamarvi padrone». Erdogan non smentisce la regola.
Il modello turco si profila ideale per la fase rivoluzionaria aperta dalla crisi americana.È adatto per il caos che Washington dipinge «ordine basato sulle regole», latinorum cui finge di credere. Versetto che noi italiani ed altri europei ripetiamo per convincercene. Dovendoci credere (siamo un po’ turchi anche noi). Perché viziati dal benevolo protettore americano abbiamo smesso di usare la testa nostra. Qualcuno la sta cercando, forse dopodomani la ritroverà. Ma la lezione dell’ora è che gli Stati Uniti non hanno più pazienza per noi. Troppi sono i fronti su cui disperdono il loro non più esorbitante potere. Quando apparecchi lo scontro del secolo con la Cina nelle condizioni peggiori di sempre non ne hai per i perditempo.
Ankara, che la testa a suo modo l’ha mantenuta sulle spalle, può permettersi quel che qualsiasi altro socio atlantico considera tabù. Sta con due piedi nella Nato per succhiarne ogni privilegio, salvo armarsi con i missili di Putin e offrirgli non gratuite sponde. Erdogan è il solo leader in grado di mettere attorno al tavolo ucraini e russi – non solo grano. Dal Medio Oriente all’Asia Centrale la Turchia si propone peso determinante – il fantasma di Dino Grandi ne sarà commosso – e talvolta lo diventa. Da alleato non allineato, reincarnazione levantina del generale de Gaulle, non si preclude nessun club, semmai ne fonda di propri. Specialista nello hedging, azzarda il necessario per coprire le fragilità interne, clamorose le economiche. Ma il bagno di ortodossia finanziaria cui Erdogan si piega dopo l’ennesima rielezione postula il primato della geopolitica. La signora Lagarde, per intenderci, non è il suo tipo. La sua liretta se la tiene stretta. Se per assurda ipotesi finisse nel girone dell’euro, farebbe saltare il banco per incompatibilità con il presunto rigore germanico. Nella strategia turca l’economia è ancella della geopolitica. Per ora, funziona. Ma se smette di funzionare, salta tutto: economia, geopolitica e Turchia.
Il mondo cambiato dalla guerra riconosce due tipi di Stati: revisionisti e revisionati. Terzo genere non si dà. In tempo di crisi le potenze massime sono necessariamente revisioniste. Le medie talvolta di più perché profittano della distrazione dei Grandi e si fanno venire strane idee. Italia no. Sicché per inerzia finisce revisionata. A meno che non prenda l’iniziativa facendo leva su partner utili. Per esempio la Turchia.
Italia e Turchia condividono il medesimo ambito geopolitico prioritario. Il Medioceano, nome corrente del Mediterraneo tramite fra Atlantico e Indo-Pacifico, dove oggi s’increspano le onde. Per noi pace medioceanica e libero transito attraverso Gibilterra e Suez-Bab el-Mandeb via Canale di Sicilia sono premesse esistenziali. Simile la percezione turca a partire dai Dardanelli e dalle acque eusine, infiammate dal ritorno della Russia in Ucraina e in Georgia. La lezione delle cose, osserverebbe Machiavelli, è che con i turchi conviene accordarci perché ne condividiamo l’interesse dominante: Pax Mediterranea. Solo che per i turchi implica revisione della geopolitica medioceanica a scapito della Grecia – le cui ben armate isole incombono sulle coste anatoliche – con obiettivo Cipro, chiave del Mediterraneo orientale. Area di antica frequentazione e ricrescente interesse per noi, purché non deragli verso un conflitto greco-turco che sconvolgerebbe il nostro estero vicino e minaccerebbe i traffici medioceanici da e verso il Mar Rosso. Sommato alla semichiusura del Nero, il disastro sarebbe totale. Fine non solo cerebrale della Nato. Condizione della nostra intesa con la Turchia è la coesistenza pacifica con la Grecia, cui peraltro lo stesso Erdogan si sta dedicando con affettato slancio.
Il baricentro del nostro Medioceano è il Canale di Sicilia. Ora che sulla quarta sponda troviamo la Turchia – causa nostro indecente rifiuto di rispondere alla richiesta di soccorso di Tripoli assediata dalle milizie di Haftar – all’intesa non c’è alternativa. Se non fossero arrivati i turchi, avremmo Mosca a Tripoli, via il “generalissimo” cirenaico. Tripolitania, Tunisia e Algeria sono vitali per il controllo delle migrazioni e per i flussi gasieri che presumiamo sostitutivi di quelli russi. Nella prima la Turchia è dominante, nella seconda molto influente, nella terza conta meno, ma c’è. Il compromesso con Ankara è possibile. Tanto più a Tripoli, dove la proverbiale insofferenza araba per i turchi – reciprocata con interessi – ci aprirebbe autostrade. Ancora una volta, i problemi sono con un altro alleato non allineato, di rilievo assai superiore alla Grecia: la Francia. Parigi e Ankara sono sempre sull’orlo di una crisi di nervi. La storia dei nostri scontri con francesi e turchi occupa biblioteche. La gestione di questo triangolo sarà acrobatica, ma le varianti sono tutte peggiori.
Infine, avvertenza di metodo. I turchi sparano. —