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 2023  agosto 19 Sabato calendario

Il martirio di don Giovanni Minzoni

Natale Gaiba è il nome, oggi dimenticato, d’un bracciante, assessore nella giunta socialista di Argenta del 1921. I fascisti da Ferrara venuti il 16 aprile per «dare una lezione» al paesone, trascinano in piazza il sindaco socialista e i membri del consiglio comunale e li costringono a suon di botte a rinunciare alla carica. Tutti tranne uno, Gaiba, appunto: sfugge alla cattura ma le camicie nere lo trovano, il 7 maggio. Lo pestano a sangue davanti alla madre e lo finiscono con due colpi di pistola. Il funerale del socialista Gaiba lo celebra l’arciprete di Argenta, don Giovanni Minzoni. E anziché limitarsi a qualche frase neutra, bolla con parole di fuoco quel delitto: fascista.È la messa in pratica di un proposito già enunciato da don Giovanni in una lettera: «Per me non vi è che una soluzione; passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole imporre». Anche Minzoni forse lo sa: ma noi sappiamo che la sua morte inizia lì. Perché in quella difesa cattolica di un socialista c’è la prova provata che nulla di quel che accadrà l’anno dopo, nel 1922 fatale al Paese, era ineluttabile.
Non è il destino che convince il decano delle Unioni elettorali cattoliche Filippo Meda a rifiutare due volte la guida del governo, affidata dopo la crisi di febbraio all’inutile Luigi Facta. Non è il caso che fa votare ai popolari la fiducia al governo Mussolini il 16 novembre, due settimane dopo la marcia su Roma. Non è certo inevitabile il compiacimento di quelli che Luigi Sturzo chiamerà «clerico-fascisti» per la retorica pseudo-pia, il familismo volgare e l’anticomunismo truculento delle camicie nere. Né è ineluttabile l’incantamento che fa dire a Pio XI del Duce: «Vedete come abbia la nazione dietro di sé?» – incantamento dal quale il Papa si emanciperà anni dopo, intuendo che quella «nazione» credulona pagherà carissima la fede nel cinico ciarlatano razzista di Predappio.
La vittoria del fascismo appartiene a una storia. E don Minzoni appartiene a un’altra storia: che si distingue non per la diffidenza antimoderna del cattolicesimo ottocentesco; ma per piccoli scostamenti e varianti che fanno la differenza fra lui e i preti che, con il saluto romano, inneggiano al Duce finché si può. La sua è la storia di un cattolicesimo leonino (nel senso di Leone XIII) che sente sua la questione operaia; di quel clero che si identifica con l’idea di una «democrazia cristiana» predicata da don Romolo Murri, e coltiva sentimenti murriani anche quando il sacerdote viene scomunicato da Pio X, che per sradicare il modernismo disaffeziona al pensiero il clero italiano. È la storia dei cattolici che sognano di farsi ridare dai socialisti le parole d’ordine della giustizia («religione dell’avvenire», dice Minzoni nel Diario, 22 novembre 1909) e cercano formazione nelle scuole sociali, come quella di Bergamo che l’arciprete argentano frequenta quando è lì don Angelo Roncalli. Sono cattolici divisi fra pacifisti (Guido Miglioli) e interventisti (Giuseppe Donati), che non capiscono perché Benedetto XV dichiari la guerra un’«inutile strage» e domandi una pace senza vincitori né vinti, quando loro hanno combattuto (don Minzoni avrà una medaglia e l’onore di appuntarne una sul petto, «come pesca intatta», di Gabriele d’Annunzio) per dimostrare la possibilità di un nazionalismo cattolico su cui il fascismo farà vendemmia. E sono i cattolici che s’iscrivono al Partito popolare di Sturzo nel 1919, mentre nelle loro parrocchie esplode la violenza defluita dalla guerra dentro una società ai cui problemi le classi dirigenti liberali non sanno dare risposte.
È così anche per don Minzoni, prete che ad Argenta si fa amare per uno zelo pastorale del tutto standard: fatto di circoli e processioni, rosari e giochi, devozione e cinematografo. Ma che non è un ingenuo: già quando ascolta Mussolini concionare alla Scala il 7 novembre 1917 lo ritrae con precisione: «Ha parlato con frasi convulse e dittatorie, ogni frase un applauso. (…) L’entusiasmo mi è sembrato che puzzasse un po’ di maschera». E nel corso del 1923 – quando ad aprile i popolari escono dal primo governo europeo guidato da un partito armato – don Minzoni sa di aver davanti un fascismo non meno sanguinario del 1921 e che vede nel «popolarismo» un nemico che non ha più la protezione della Chiesa.
«Attendo la bufera», aveva scritto l’arciprete nel testamento. E la bufera arriva. Nei grandi fatti della politica con la decisione del Papa di far dimettere Sturzo dal partito prima di esiliarlo, la «legge Acerbo» che prepara la dittatura della maggioranza in Parlamento, la riforma della scuola di Giovanni Gentile che rimette il crocifisso in classe; e nella violenza periferica che deve addestrate il Paese al disvelarsi di quella logica, che come insegna Emilio Gentile, il maggior storico di quella fase, «fu subito regime».
La stampa cattolica indicò il «carattere politico» del delitto ma non andò oltre
Minzoni la sperimenta a più riprese: ed è uno scontro, il 22 aprile 1923, legato al divieto opposto dai fascisti alla processione degli scout radunati ad Argenta verso il santuario della Celletta, che fa traboccare il vaso. Don Minzoni deve cedere, ma apostrofa i fascisti per quel che sono: «Vili». Dire queste verità, rifiutare l’inquadramento che i fascisti gli offrono, rivendicare lo spazio pubblico – tutto ciò persuade i gerarchi ferraresi che è ora di «dare una lezione» ad Argenta, come ai tempi di Gaiba.
La sera del 23 agosto due picchiatori di Cento attendono don Minzoni, lo menano, gli fratturano il cranio. Muore la notte e la notizia corre.
Ma mentre sui giornali repubblicani e qualche testata cattolica si punta il dito verso gli assassini, le autorità ecclesiastiche scelgono una prudenza che lascia spazio anche alla calunnia di un delitto passionale. Al funerale a Ravenna, l’arcivescovo, monsignor Antonio Lega non va. Egli chiede al ministro degli Interni (Mussolini stesso) «urgenti provvedimenti contro colpevoli sacrilego efferato omicidio», ma non dice mai la parola fascisti. I trafiletti dell’«Osservatore Romano» e della «Civiltà Cattolica» declinano la stessa codardia: scrivono che «niuno dubitò che il delitto fosse di carattere politico», ma lasciando anonimo il mandante ed anzi facendo posto alla lettera di Italo Balbo all’arcivescovo di Ferrara sull’«Osservatore» di fine agosto del 1923.
Ci vorrà la Liberazione per ridare un nome a quel delitto e costruire una memoria istituzionale repubblicana nella quale si sono impegnati i grandi statisti: dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi (che fa la prefazione al primo libro di Lorenzo Bedeschi nel 1952) a Benigno Zaccagnini presidente della Camera, dal presidente della Repubblica Giovanni Leone pellegrino nel 1973 a Francesco Cossiga che accompagna Giovanni Paolo II ad Argenta nel 1990, fino a Oscar Luigi Scalfaro nel 1995 ed ora Sergio Mattarella puntuale e puntualmente insieme al presidente della Cei, cardinale Matteo Maria Zuppi, nel centenario del delitto che si commemora la prossima settimana.
La memoria ecclesiastica ha invece scelto il processo di beatificazione, ormai avviato: meritato, giusto, facile – ma, se isolato, ambiguo.
D’altronde la scelta tedesca di sostenere l’edizione di centinaia di volumi di fonti e studi sui rapporti fra Chiesa e Terzo Reich, non ha mai trovato eco in Italia. Ma senza quella ci sarà solo qualche stucchevole rimozione del problema che don Minzoni pone anche al cattolicesimo di oggi: che – lo si è visto a Barbiana, a Bozzolo, al Brancaccio, a Casal di Principe – sembra chiedere ai preti maltrattati da vivi, in cambio di una riabilitazione o di una beatificazione low cost, il miracolo di essere guarito dalla propria disgregazione e dalla propria afasia, senza una presa d’atto delle ragioni che le hanno determinate.