Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  agosto 19 Sabato calendario

Intervista a Mario Bertini


Mario Bertini è stato uno dei mediani più forti della storia azzurra. Dopo nove anni all’Inter e l’ultima stagione al Rimini si è allontanato dal calcio. Per sempre.
«Non ho tenuto niente della carriera. Ho rigettato un po’ tutto, non so il perché».
Non le piaceva l’ambiente?
«Non mi appartiene adesso e molto probabilmente neanche prima. Ero anomalo: non andavo alle cene coi club, facevo pochissime interviste. Se uno non dà, non prende».

Mai un rimpianto?
«No, avevo deciso di cambiare vita già prima di smettere. Nessun rimpianto, nessun rimorso. Certo oggi con meno fatica si guadagna di più».
Neanche una rimpatriata?
«Ho fatto qualcosa a Firenze e poi per i 50 anni di attività di Pellegrini, ma alla fine sono rimasto deluso. Pellegrini non l’ho quasi visto».
Che lavoro ha svolto?
«Mi sono occupato di abbigliamento di alto livello. Le cose sono andate bene, ma ho dovuto fare tirocinio perché chi compra una camicia da 400 euro o una giacca da 5 mila ti fa domande. E non può saperne più del titolare».

desc img
Bertini (a destra) con Sandro Mazzola
Lei era così anomalo che giocava a Milano, vivendo a Bergamo. Come mai?
«Mi è piaciuta la Città alta, poi ho trovato moglie a Bergamo. Ora sono sposato in seconde nozze, sempre con una donna bergamasca».
È nato in piena guerra.
«E mi chiamavano “rifugino”: sono nato in un rifugio».
Che infanzia ha avuto?
«Felice. Non ho sentito la povertà, anche se c’era. Però non ci è mai mancato niente».
Al calcio arrivò tardi?
«Sì. Giocavo con gli amici in piazza, a 13 anni un osservatore mi ha visto e convocato per un provino. Ma non sono andato, non avevo le scarpe. Mi ha richiamato, dicendo di non preoccuparmi».
I primi stipendi?
«A Prato mi pagarono con un premio: due settimane in Versilia tutto spesato. A Empoli non arrivavo a fine mese. Ma i debiti sono sempre stato abituato a non farne».
Passa dalla Fiorentina all’Inter. E lo sa dai giornali.
«Sì, eravamo come pecore al macello, andavi dove dicevano. Ma io ho potuto scegliere tra Inter, Milan e Juve. In Nazionale mi hanno un po’ convinto ad andare all’Inter».
Mediano con il senso del gol. Si è rivisto in qualcuno?
«Il mio vero ruolo era mezzala, mi identificavo molto in Bulgarelli. Mi rivedevo un po’ in Ancelotti. Oggi diciamo un po’ Barella, un po’ Marchisio: primo difensore, ma capace di rifinire l’azione in area».
In tribuna al Mondiale ’66, con un piede ingessato a Euro ’68, in campo da protagonista a Messico ’70.
«Sia nel ’66 che nel ’70 al rientro ci hanno lanciato i pomodori. Un’altra delusione. A Milano gli animi erano surriscaldati per la staffetta Rivera-Mazzola. E abbiamo preso i pomodori dai riveriani».
La staffetta ha tolto qualcosa alla squadra?
«Abbastanza. Non era tutto bello quello che abbiamo vissuto in Messico. Ci sono stati dei grossi problemi, le discussioni hanno dato fastidio».
I giornali la definivano pupillo di Valcareggi.
«Era così vero che quando mi ha lasciato a casa non me l’ha detto. E, a differenza di altri, non mi ha richiamato. Dal 1972 in Nazionale non ho più giocato, anche se il ’72-’73 fu il mio campionato più bello».
In Messico con chi era in stanza?
«Con Lodetti. Ho vissuto tutta la sua vicenda: Anastasi si fece male, chiamarono Boninsegna e Prati, mandando a casa Giovanni. Brutta storia».
Cosa accadde?
«Ho la mia idea: dato che il Milan doveva cedere Lodetti alla Samp preferì non fargli giocare il Mondiale: chi vinceva non era non vendibile».
Mazzola sostiene che lo 0-0 con l’Uruguay per il passaggio del turno fu concordato. E che solo lei corse e picchiò «come un matto.
«Per me quelle cose non esistono. Figurati se mi metto a pensare a un pareggio. Io giocavo a calcio per vincere: se perdevo stringevo le mani a tutti, con la morte nel cuore».
Come fece Seeler con lei dopo Italia-Germania 4-3?
«Sì, fu un duello da sangue da naso, ma è venuto a scambiare la maglia. Siamo stati esaltati, ma penso sia stata la mia peggior partita. Seeler di testa le prendeva tutte».
È vero che Valcareggi mise il terzo portiere Vieri a fare una sorta di filtro con le belle ragazze attorno al ritiro?
«Forse ero troppo preso da me stesso per capirlo».
Milano come l’ha vissuta?
«Bene. Ma dovevi dire di no sempre, altrimenti era un casino. Non era difficile fare il playboy, ma dovevi scegliere fra quello o il calcio»
Con Boninsegna si sente?
«Sì, è una persona che dice sempre ciò che pensa, come me. Ed è stato il più grande centravanti che ha avuto l’Italia. Cattivo, segnava in tutti i modi: destro, sinistro, testa».

desc img
Intervento di Bertini su Pelé nei primi minuti della finale dei Mondiali del 1970 a Città del Messico
Finale all’Azteca: Pelé con il 10, Bertini con il 10.
«Perché nessuno lo voleva: Rivera perché forse non giocava, Mazzola perché diceva che non l’aveva mai avuto. A me non pesava. Anzi, mi portò bene in quel Mondiale».
Lei marca Pelé, Valcareggi però sposta Burgnich su O Rey. E arriva il famoso gol.
«Mai capito perché quella mossa. Stavo facendo benissimo: poi il c.t. mi mise su Rivelino a fare il terzino perché faceva scoprire Burgnich».
Che pensa del dibattito tra ex sull’abuso di medicinali?
«Vuol dire che hanno preso qualcosa, io non ho mai preso nulla. C’erano delle pasticchine rosse, quelle che prendevano anche gli studenti per stare svegli. A me semmai serviva qualcosa per calmarmi».
Chi le ha lasciato l’impressione di grandezza?
«Burgnich e Suarez. Io sono arrivato dopo i fasti della grande Inter. Da loro ho imparato come uomo e calciatore: Suarez quando beveva un bicchiere in più, il giorno dopo era il primo a tirare la fila».
Nel 1990 uno dei suoi due figli, Gualtiero, muore per overdose. Come l’ha vissuta?
«Difficile spiegarlo. Dico solo che devono morire prima i genitori. Lui ha fatto delle cose che non doveva fare e alla fine ha deciso di togliere il disturbo. Abbiamo provato in tutti i modi a salvarlo: era in comunità da due anni, era andato anche all’estero, era sulla strada giusta. È morto il giorno prima di Natale».
Oggi è un nonno felice?
«Sono bisnonno da un mese e mezzo. Una delle mie nipoti è brava a sciare».
L’ex calciatore oggi è una professione. Che ne pensa?
«Uno come me guadagnerebbe 3-4 milioni. Ma noi sapevamo già che avremmo dovuto lavorare: l’importante era non farsi mangiare i soldi»