Corriere della Sera, 18 agosto 2023
Intervista a Francesco Cerea
Francesco Cerea, figlio «del» Vittorio. Con la mamma Bruna e i fratelli Enrico – per tutti Chicco – Barbara, Bobo e Rossella, siete un riferimento della cucina italiana.
«Non diamo solo cucina, ma sorrisi e accoglienza».
E i paccheri alla Vittorio.
«Li abbiamo fatti mangiare a tutto il mondo. È una lunga storia... da dove iniziamo?».
Dal primo ricordo.
«Da bambino facevo gli gnocchi in cucina e li tiravo contro le piastrelle. Meno farina mettevo, più stavano su».
Vostro padre vi chiese se vi interessava stare in cucina?
«Non appena ha capito che gli eravamo devoti ci ha messi dentro. Io ero Caino e Chicco Abele: lui buono, io tremendo».
Per via degli gnocchi?
«Ma come fai ad avere voglia di lavorare per 14 ore in quel modo lì? La passione l’avevo per il calcio, poco per lo studio e tanto per il divertimento».
Infatti cura le relazioni e la ristorazione esterna.
«Ero portato a fare gli altri felici. Con le prime mance ho comperato il giradischi per fare il dj alle feste».
E il ristorante?
«Aiutavo a impilare i piatti a chi li lavava. Tra me dicevo: “mica dovrò fare ’sta vita, io, il figlio del Vittorio...?”».
Come ne è uscito?
«Ho detto a mio papà: “Vitto, prova a mettermi in sala”».
Lo chiamava Vitto?
«Sì perché era un padre padrone: un cuore grande, ma sul lavoro intransigente. Il lavoro lo metteva davanti a tutto, anche alla famiglia».
Vacanze sconosciute?
«Non ne ha fatte per 12 anni di fila. Io e il Chicco siamo andati in colonia con le suore, in una montagna sperduta della Lombardia. Ma che felicità».
La prima con i genitori?
«In Trentino: mio padre aveva appena ottenuto la patente. Adesso si prende a 18 anni, una volta dovevi prima avere la casa e la famiglia. Con la sua Bmw si è incastrato in un passaggio stretto: ricordo le imprecazioni e noi figli dentro l’auto, zitti...».
Quanto c’era di bergamasco in questo modo di vivere?
«Parecchio, ma capivamo che l’abito ci stava stretto. Le radici contano, ma bisogna pensare in grande. Ne era convinto anche mio padre».
La svolta?
«Il gusto di Vittorio unito a quello di Chicco, che ha avuto il coraggio di viaggiare per prendere il sapere».
Enrico Cerea oggi è uno chef 3 stelle Michelin.
«Amava stare dietro le quinte, anche per una certa timidezza, ma si è rifatto dopo. Oggi lo chef è prepotentemente in sala».
Avete cucinato per i potenti del mondo. E avete inventato il catering d’autore.
«Siamo stati i primi a cucinare sul posto: scaricavo piatti e cibo dai furgoni in ville stratosferiche. Spesso il cliente vive in un posto più bello del tuo e ti dice: “Vieni tu”».
Sono nati gli eventi alla Vittorio...
«Ero un MacGyver della situazione. Mi sentivo quasi un architetto, o un regista: ogni giorno costruivo un film, ciak si gira, oppure no...».
I clienti più importanti.
«Nel 2019 la regina Elisabetta, che ha fatto uno strappo al protocollo e ha chiesto il bis del risotto. All’inizio sono costretti a farsi servire una piccola porzione, perché lasciare cibo sul piatto è maleducato. I reali mangiano semplice».
Sui social c’è lei con Obama.
«L’ho incontrato a cena in occasione della visita a Milano: ha chiesto i cannoncini per otto volte e allora ho detto al cameriere di andare via, sennò ci usciva l’indigestione».
Altri nomi e siparietti...
«Miuccia Prada ci ha voluti a Beverly Hills, Leonardo DiCaprio con la mamma che mi è stata incollata per tutta la sera. Piaccio alle mamme».
Silvio Berlusconi.
«Gli ho portato il mio libro alla prova menu per le nozze con Marta Fascina. Si è messo a sottolinearlo. Ci eravamo conosciuti 30 anni prima a casa di Cantoni, gli aveva venduto i terreni per Milano 2. Ho conosciuto tutti i politici, al suo fianco anche Andreotti e Spadolini scomparivano».
Cosa gli cucinava?
«Mozzarella, pomodoro e gnocchi verdi. L’ego lo portava a stare a tavola non per mangiare ma per parlare».
Cucinerebbe per Giorgia Meloni?
«Sì, è una donna preparata. E mi piace. Lasciamola lavorare».
Ha le stesse attenzioni verso tutti i clienti?
«Sono un fisionomista, riconosco qualcuno dopo 20 anni. Lo faccio sentire a casa».
Un vostro segreto.
«La costanza nel fare bene da mangiare. Lo stellato alla lunga annoia. E poi il catering: ci dicevano che eravamo matti. Oggi lo fanno tutti».
E la ricetta dei paccheri...
«Tutto è nato dalle tagliatelle al flambé di mio padre: le girava e le rigirava davanti ai clienti. I miei fratelli hanno cambiato il tipo di pasta, usando tre pomodori diversi e poi un trucco in cottura. Segreto, come per la Coca Cola».
È diventato come Salt Bae: i clienti vogliono che sia proprio lei a mantecare...
«A 80 starò ancora lì a girare, dovrò inventarmi una nuova tecnica, più tranquilla».
Ai clienti mettete il bavaglione «oggi sono goloso».
«La gente si sporcava e si arrabbiava: oggi lo mettono tutti volentieri, ma non deve essere da solo uno a farlo, sennò si sente pirla».
A chi lo avete messo?
«Da Beppe Sala alla Ferragni, che adora i paccheri».
Siete diventati gli chef più famosi anche senza tivù.
«Chicco è andato ma la tivù devi aggredirla. Sennò meglio stare a casa».
I vostri concorrenti.
«Con Carlo Cracco siamo vicini a Portofino: a fine servizio beviamo un drink. Enrico Bartolini è un ottimo manager. Davide Oldani, peccato solo che è interista: bravo».
I critici fanno la vostra fortuna?
«Se un critico parla bene di uno che non sa far da mangiare non fa la sua fortuna, ma la sua sfortuna».
La recensione più brutta?
«Su Tripadvisor mi hanno criticato perché giravo in sala con il telefono. Ho sbagliato».
Non risponde?
«Mio padre citava Dante: “Un bel tacer non fu mai scritto”».
Maschilismo in cucina?
«Il capo pasticcere di Vittorio è una donna».
Quanti dipendenti avete?
«Da Vittorio 250, mentre da VCook, le mense aziendali, circa 500. Cuciniamo per Gucci e studi legali importanti».
Dicono che vi quoterete in Borsa.
«Non è vero».
Fate beneficienza?
«Durante il Covid abbiamo distribuito cibo con l’aiuto degli Alpini in pensione».
È arrivato l’Ambrogino?
«Magari, ci piacerebbe».
Una frase di suo padre che le fa compagnia?
«Agli sfaticati diceva “Òia de laurà sàltem adòs”.E poi “mola mia”: mai mollare».