la Repubblica, 18 agosto 2023
Roman Polanski, un anticonformista sempre in fuga
L’ho incontrato soltanto un paio di volte, ma poche persone hanno lasciato dentro di me un’impressione più indelebile. Aveva già più di ottanta anni e rimasi colpito da quanto sembrasse giovane, e non per le scarpe da ginnastica o i maglioni colorati. Era l’energia fulminante, il sorriso a mezza bocca di chi ha già capito quello che stai per dire, e lo sguardo di chi ha visto l’inferno. Ha modi garbati, sorridenti, ma quegli occhi da seduttore hanno qualcosa di drammatico, e svelano un’intelligenza profonda, imprevedibile e lontana da ogni conformismo. È stato lui a chiedermi di chiamarlo Roman, sin dal primo appuntamento al Bar l’Avenue su Avenue Montaigne. È di casa, lì, quasi un secondo ufficio, ed è stato un susseguirsi di saluti, omaggi, battute. Bienvenue, Roman. Comment ça va, Roman? Lo chiamavano tutti per nome, e lui rispondeva con gentilezza, non so se felice o semplicemente abituato: a Parigi ha trovato una ennesima patria, ma l’ultima fuga è stata dalla giustizia americana.
Di statura è molto piccolo e nel sorriso scorgi un’assenza, un vuoto senza fondo: è lì che si cela il dolore straziante e incolmabile. Ha avuto una vita tragica sin da quando è nato con il nome di Rajmund Thierry, e la sua esistenza è stata dominata da una violenza assurda ed efferata. Si è macchiato a sua volta di un atto imperdonabile, mentre continuava a mostrare al mondo un talento tra i più originali della settima arte. Cominciammo a tormentarlo suChinatown, uno dei miei film preferiti, mi ha risposto ricordando che la sceneggiatura è di Robert Towne, salvo aggiungere che ci aveva lavorato anche lui per disposizione del produttore Robert Evans, il quale a una prima lettura aveva detto: “Mi rendo conto che è un grande film, ma non ci ho capito niente”. Mi disse che aveva acconciato Faye Dunaway come sua madre, “una donna elegante”, ed ebbi l’impressione che siidentificasse in tutti i personaggi, anche quelli negativi. Gli citai la scena in cui il carismatico e mostruoso Noah Cross dice: “Certo che sono rispettabile. Sono vecchio. I politici, gli edifici pubblici e le puttane diventano rispettabili se durano abbastanza a lungo”. Replicò con un sorriso senza risposta, ma la battuta nasceva dritta dal suo cuore. Per non parlare di “Lascia stare Jack, è Chinatown”: non si parla soltanto di un quartiere, ma di una condizione esistenziale di disordine e corruzione.
Ama i classici del cinema a cominciare da 8e½ e
Quarto potere
ed è severissimo sui registi della Nouvelle Vague “mi sembrano ragazzini che giocano a fare i rivoluzionari. Sono passato anch’io in quella fase, ma vengo da un Paese dove quelle cose sono successe veramente”. Mi chiesi cosa potesse significare vivere con tutto quell’orrore che aveva visto con i propri occhi, e cosa gli dicesse la coscienza ripensando a quello che aveva fatto. Sono molti anni che Samantha Gailey lo ha perdonato: aveva tredici anni quando l’ha violentata dopo averla fatta drogare, e quell’atto rimane agghiacciante, anche al nettodell’esuberanza sessuale di quel periodo e delle responsabilità della madre di Samantha, che aveva spinto la ragazzina tra le sue braccia. Mi chiesi anche cosa avesse significato aver vissuto sotto il comunismo che definisce “peggiore della peggior forma di capitalismo: solo chi l’ha vissuto può dirlo”. E del nazismo: ha assistito da bambino alla liquidazione del ghetto di Cracovia, il cui primo atto fu l’uccisione, con un colpo di pistola nella schiena, di una donna anziana che non riusciva a reggere il passo ordinato dai soldati. La donna morì a pochi passi da lui, e Roman ancora ne ricorda con terrore il sangue che usciva a fiotti. Ha visto amici e parenti massacrati, e i genitori deportati ad Auschwitz, da dove la madre non è più tornata.
Ma forse non esiste niente di più tragico dell’omicidio, molti anni dopo, della moglie Sharon Tate, martoriata a coltellate al nono mese di gravidanza nel massacro di Bel Air. L’orrore lo aveva seguito anche in America, e seguì l’oltraggio di essere dipinto sulla stampa come un possibile responsabile del massacro, in virtù del fatto che aveva girato il sulfureo e magnifico Rosemary’s Baby.
A rivedere i suoi film, si capisce come tenti di esorcizzare questi traumi: Oliver Twist, nel quale si identifica nel bambino che cerca di sopravvivere alle avversità. Il pianista, pieno di elementi autobiografici.
Macbeth, avvolto in una luce cupa e disperata, girato poco dopo la morte della moglie. Non è meno evidente il racconto del male puro, come in Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano e persino Per favore, non mordermi sul collo un film giocoso, apparentemente spensierato in cui è il maligno a prevalere. Recita con passione e divertimento, in quel film, ma nessuna interpretazione è stata struggente quanto quella di Gregor Samsa dell’adattamento teatrale della Metamorfosi di Kafka. Riusciva a farti vedere l’uomo diventato scarafaggio, e l’assurdo spasmo di una condizione esistenziale dove si può solo soccombere e soffrire.
Pochi cineasti gli hanno voluto bene come Gillo Pontecorvo, con il quale ebbe una fidanzata in comune. Quando dirigeva la Mostra di Venezia volle onorarlo del Leone alla carriera nel 1993, e tre anni più tardi lo chiamò come presidente della giuria: oggi sarebbe impensabile, eppure tutto ciò avvenne vent’anni dopo lo stupro, senza che poi sia successo nulla. Non potrei immaginare due persone maggiormente diverse, anche ideologicamente, ma l’affetto e la stima reciproca era autentica, ed erano accomunati dall’obbedire a quello che Pontecorvo chiamava la dittatura della verità. È arrivato a 90 anni, e il sorriso che nonostante tutto continua a imporsi ti dice che non ha visto solo l’inferno. Quando gli ho ricordato quanto diceva Pontecorvo sulla verità mi ha guardato con disincanto, rinunciando per una volta a quel sorriso: “Esistono i sogni e le illusioni”, mi ha detto, “fantasmi, come quelli che ho raccontato”.