Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  agosto 18 Venerdì calendario

A 60 anni dalla marcia su Washington

La grande marcia su Washington per i diritti negli Stati Uniti arrivò in ritardo, di 22 anni. La prima volta l’aveva organizzata, nel 1941, A. Philip Randolph, leader del Sindacato Ferrovieri, rivendicando lavoro e uguaglianza.Scettico, il presidente F.D. Roosevelt emanò un blando decreto contro le discriminazioni negli appalti e basta.Randolph, a 74 anni suonati, decise che il tempo era arrivato e convocò, per il 28 agosto 1963, la “Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà”, evento oggi studiato da ogni bambino, con il discorso finale del reverendo Martin Luther King, “I have a Dream”, io ho un sogno, considerato da 137 storici, in un sondaggio dell’Università del Wisconsin, “Il migliore del XX secolo”.Sessanta anni fa, tutto era diverso. Il presidente democratico John Kennedy, cui restavano 86 giorni di vita, e suo fratello Bob, ministro della Giustizia, ucciso come King nel 1968, provano ad annullare il corteo. A colloquio con King lo giudicano «prematuro, pericoloso», al che il reverendo, conscio della ferocia di politici, poliziotti e razzisti,replica: «È sempre troppopresto».Le autorità non credono alla non violenza e schierano 17 mila soldati in assetto di guerra, con 49 elicotteri, dotati di munizioni antiguerriglia. Giornali, radio e tv inviano tremila reporter. Ma, ricorda lo scrittore Gary Younge nel saggio The Speech: The Story Behind M. L. King’s Dream, all’alba del 28 la capitale è deserta. Dei 30 treni speciali e 2000 pullman che dovevano arrivare con i dimostranti, nessuna traccia. I cronisti circondano Bayard Rustin, che sovrintende la logistica, «Bayard, è un disastro, non c’è anima viva». Rustin, cerimonioso, estrae dal taschino un orologio a cipolla e un foglio di carta, tagliando corto: «Siamo in perfetto orario». La pagina è bianca, Rustin bluffa: oggi dimenticato, Bayard Rustin (1912-1987) fu leader per i diritti degli afroamericani, apertamente gay, in anni impossibili.Per tutta la notte, il reverendo King si è tormentato sul discorso da pronunciare. Il suo collaboratore Wyatt Walker è stato netto: «Martin, non ripetermi la storia del sogno, è noiosa, un cliché, la usi troppo spesso». E il reverendo King lascia fuori lo slogan, preferendo rivendicazioni politiche e sindacali tradizionali, con l’ausilio dell’avvocato Clarence Jones, che ricorderà: «Martin non aveva un discorso, solo un traccia e via a braccio».M.L. King è il sedicesimo oratore, la folla, che i treni e i bus di Rustin han portato immensa, 250 mila uomini e donne, neri e bianchi, muore di caldo e sete, stremata nel solleone a 35 gradi. Ha ascoltato il rabbino Joachim Prinz ricordare i giorni a Berlino, sotto Hitler: «Un grande popolo divenne nazione di passanti silenziosi, davanti a odio, brutalità, sterminio. America non ridurti al silenzio!».Il tono di King è piano, la folla si distrae, cercando ombra e fresco fra alberi e fontane, «tutti depressi e apatici» commenta lo scrittore Norman Mailer, in piazza con le star di Hollywood, Charlton Heston, Sidney Poitier, Sammy Davis Jr, Burt Lancaster, James Garner, Harry Belafonte, Marlon Brando, Josephine Baker, Paul Newman. Allora sul palio gremito, si leva, alta e nobile, la voce di Mahalia Jackson, cantante amica di King. Insoddisfatta dal monologo, Jackson grida forte: «Martin, dicci del sogno!» e poiché il reverendo non sembra ascoltarla, esclama solenne «il sogno, Martin!».«Martin si tirò su dritto, lasciò cadere le pagine, e da oratore politico si incarnò in predicatore battista – ricordava commosso l’avvocato Jones – fu un miracolo» con la cadenza ritmica: «Io ho un sogno…che i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho un sogno…». Applausi spenti in fretta, tuttavia. «Gli attivisti furono delusi – annota lo studioso Drew Hansen – la dirigente Anne Moody lamentava «cercavamo leader, non sogni»; altri imprecarono «noi non dormiamo per le botte, altro che sognare»; Wyatt Walker era furente «merda, ha tirato fuori il sogno»; Malcolm X irrise «rivoluzionari dai piedi a mollo e testa fra le nuvole». Il giorno dopo nessun quotidiano cita il passaggio ormai celebre.Chi coglie al volo, davanti alla tv, la magia politica ispirata a King dai versi del 1927 God’s Trombones del poeta James Johnson, è il presidente Kennedy: «Dannazione quanto è bravo». E il cambio di passo è notato, sinistramente, anche dal capo intelligence Fbi William Sullivan, che da tempo fa pedinare King: «Dobbiamo marcarlo… è il negro più pericoloso per il futuro della nazione».Tornati indietro treni e bus, il discorso è dimenticato. L’anno dopo il Congresso approva la monumentale riforma Civil Rights Act e, in oltre 64 mila pagine di resoconti parlamentari, non una sola citazione. È il martirio di King, 1968, a far riscoprire il testo che nel 2023 due americani su tre considerano «decisivo». Con il sogno, del resto, era stato marginalizzato il sognatore, King si era opposto alla guerra in Vietnam, era deluso dal partito democratico, si radicalizzava, censurato dai media mainstream. Non immaginava che la chiusa biblica «Liberi alla fine, Grazie Dio Onnipotente!», dall’antico spiritual, sarebbe stata incisa sulla sua tomba, assurgendo, nel nuovo secolo, a motto di chi sogna ancora, malgrado tutto, diritti e giustizia.