la Repubblica, 18 agosto 2023
Il ritorno del Battaglione Azov
Inseguito dalla leggenda, infine il Battaglione Azov è risorto dalla sua stessa cenere, ed è tornato al fronte. Nel Donbass, secondo una notizia forse sfuggita di mano, già operativo nella foresta di Serebryanske e forse addirittura a Kreminna. O forse invece a Sud, in direzione Mariupol, dove la leggenda è iniziata. Ripiantare la bandiera ucraina e la propria – sulle macerie di Azovstal, è il sogno segreto dell’attuale Brigata di forze speciali Azov, nessuno lo può negare. Il nome modificato, lo spirito guerriero di sempre e la fama, che per uno strano caso della storia, si è consolidata nel momento preciso della resa. Uscendo a testa alta dalle rovine dell’acciaieria, e solo per ubbidire all’ordine che arrivava dal presidente Zelenski, dopo 87 giorni di combattimenti. Una sconfitta, ma gli ucraini l’hanno vissuta come una vittoria, seppure morale, sul nemico.
«Azov c’era, c’è e ci sarà», ha detto il comandante di sempre, il tenente colonnello Denis Prokopenko. Eroe dell’Ucraina (e in passato ultrà del Dynamo Kiev), nome di battaglia Renis. Qualche giorno fa ha incontrato i suoi soldati. Seimila, per quel che si sa, perciò oggi possono chiamarsi brigata. Con fanteria, artiglieria, carristi, reparto trasmissioni e tutto quello che serve, pare che ci sia la fila per arruolarsi, e dalla brigata confermano che la ricostituzione «è iniziata a marzo, e adesso siamo in trincea». E molti «arrivano da altri reparti dell’esercito, che chiedono il trasferimento da noi». La leggenda funziona, così come lo stipendio che è quasi doppio. Ma per entrare, bisogna passare la selezione. E solo dopo, Prokopenko in persona concede il distintivo da mettere sulla divisa, quel simbolo che per irussi è una svastica nazista modificata.
C’erano, alcuni elementi neonazisti, all’epoca della fondazione del gruppo, ma si garantisce che sono stati eliminati, non tanto dai combattimenti, quanto invece per precisa volontà dei comandanti. Di certo, c’erano nel 2014 – prima guerra del Donbass – molti che volevano rispondere in armi alla prima invasione russa, poi confluiti in formazioniparamilitari che facevano a volte riferimento alla Guardia nazionale, in alcuni casi quasi autonome, sicuramente nazionaliste. Molte sono sparite, o riassorbite nell’esercito, una è la Azov. «Il mio cuore, la mia anima e il mio corpo appartengono alla Azov», ha scandito Prokopenko ai suoi, con quella retorica militare che infastidisce i civili occidentali, non certo il suo popolo. Ha anche detto «io sono un soldato. Non honessun altro interesse che non sia l’attività militare. E per me questa guerra non finirà fino a quando non sarà restituito l’ultimo nostro combattente ancora prigioniero. E solo quando non verranno ripristinati i confini del 1991».
Anche lui è una leggenda. Prigioniero dei russi, uscito dai sotterranei bombardati assieme agli altri stremati e stracciati, munizioni zero o quasi, l’acqua finita, era tra il 18e il 20 maggio 2022. Le mani in alto, poi spogliati, trasportati in località segrete in attesa di un processomonstre che poi i russi non hanno più fatto. Costruirono sì i gabbioni per esibire al mondo i prigionieri, proprio dentro il teatro di Mariupol, ma poi rinunciarono, uno dei misteri di questa guerra. Altri processi vengono tuttora fatti ad altri dell’ex Battaglione, come i soldati Artemenko e Romaniuk, condannati a 24 anni per “terrorismo”, da una corte militare della autoproclamata repubblica di Donetsk.
Ma il destino dei capi catturati a Mariupol è stato diverso. La Russia li consegnò al presidente turco Erdogan, che li tenesse a Istanbul “fino alla fine della guerra”. Ma lo scorso 8 luglio il presidente Zelenski in visita a Istanbul, li chiese, semplicemente, e li ottenne, li caricò sull’aereo e riportò in patria. Una settimana dopo, Prokopenko era di nuovo tra i suoi. «Pronto a tornare in battaglia, ho riposato ben 300 giorni, a Istanbul…». E così gli altri, il suo vice Svyatoslav Palamar, e Oleg Khomenko, ufficiale, con il comandante della 36esima Brigata dei marines, Volynsky, e quello della 12esima della Guardia nazionale, Denis Shlega.
Fieri, e anche di più. Fedeli al loro motto, che è “Indistruttibili, invincibili, inarrestabili”, la storia lo conferma, se sono riemersi da quella cenere dell’acciaieria, e proprio ieri hanno «eliminato con l’artiglieria una postazione di mortai russa», non si sa dove, il posto deve restare segreto. E famosi nel mondo, come è solo successo con la Wagner di Prigozhin. Li unisce il professionismo, nient’altro. Il mestiere delle armi, per il quale «non serve esperienza», dicono dal quartier generale, «voi presentatevi», e all’addestramento ci pensano loro. Cinque settimane il primo step, poi si valuta se le reclute sono in grado di reggere i ritmi «dell’allenamento, che è quello del programma Nato, a cui abbiamo aggiunto alcuni miglioramenti». Lo chiamano proprio il «metodo Azov», e garantiscono «che è un calvario». Poi, promettono che saranno feroci, quando usciranno dalle loro trincee. Feroci.