la Repubblica, 17 agosto 2023
C’era una volta il mito degli Asburgo
Da “Demel”, istituzione gastronomica viennese le cui vetrine scintillano dal tardo Settecento, c’è la fila quasi a ogni ora. La Sacher non è quella originale ma si fa apprezzare, tanto più per l’impalpabile ingrediente aggiunto: l’atmosfera rétro, la polvere d’oro di un imperituro mito asburgico a uso dei turisti.
A sei decenni esatti dalla pubblicazione del libro che rivelò quel mito ai lettori italiani, trovare per le strade del centro di Vienna i segni di un gioco che la città – come tutte le grandi capitali – fa con sé stessa e con i suoi cliché non è difficile. Ecco a voi una carrozza trainata da cavalli bianchi! Puoi chiudere gli occhi e fingere – come un malinconico personaggio raccontato da Joseph Roth o da Franz Werfel – di essere al riparo dai cambiamenti, in una nicchia che protegge dal vento furibondo della storia. E ti illude che tutto resterà com’era: le colazioni domenicali, le tovagliette rosse ricamate, le belle tazzine di porcellana di manifattura imperiale.
Un cartello rimasto lì da una manifestazione recente di malumori antieuropei mi riporta nell’epoca in corso, e tuttavia potrebbe spingermi a credere che Vienna sia ancora alle prese con un’antica e invadente nostalgia. Del proprio stesso mito? O di cosa?
Renate Lunzer, autorevole germanista viennese, mi chiarisce subito il punto: «Se ha in mente una nostalgia sincera, sentita, della perdita di un’identità come appunto in Werfel o in Zweig e in Musil, o in un alto ufficiale pensionato, “degradato” a ragioniere in una fabbrica di cioccolato come il bisnonno del mio ex marito, direi che no, non c’è più».
E allora? «Allora c’è qualcosa di diverso. Un mito asburgico commercializzato, sfruttato con parecchio lucro dall’industria del turismo. La sua espressione più efficace, più diffusa è il culto di Sissi, bellissima, altamente nevrotica, per certi versi irresponsabile. La vedi comparire dappertutto». Vero. E poi – continua Lunzer – resiste una certa nostalgia dei luoghi perduti: «Gli austriaci pensano spesso a Trieste, e la raggiungono spesso. Non è lontana, c’è il mare, ha bei ristoranti e perfino un castello. Un mio collega spiritoso ha definito questi desideri foderati di mito asburgico “incremento del budget culturale di una piccola nazione”».
Lunzer ha studiato a lungo l’opera di Claudio Magris che compie sessant’anni – Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, nato come tesi di laurea e pubblicato da Einaudi – ed è convinta che «l’Austria e il suo declino servirono a Magris da metafora. Da metafora del crollo di qualcosa di più grande, di un’immagine del mondo basata sull’ordine e sull’armonia». La fine di qualcosa. Di un’epoca non solo mitteleuropea.
L’autore triestino, allora nemmeno venticinquenne, andò dal suo relatore, il germanista Leonello Vincenti, con un’idea che lui stesso definisce confusa. Gli interessava provare a ragionare intorno al mito di un mondo dell’ordine «che aveva scoperto e indagato il disordine», e a una letteratura che aveva celebrato l’unità seppure frastagliata ma aveva trovato «il vuoto, il non senso, la crisi della civiltà».
Candidamente, Magris ha confessato che, sulle prime, il relatore si mostrò disorientato dall’idea della tesi: «Non riusciva a capire quale ne fosse il tema, perché non lo sapevo chiaramente neanch’io e dunquenon riuscivo a spiegarglielo». Il risultato fu più che persuasivo, e il giovanissimo Magris si trovò a correggere, in una locanda friburghese, le bozze pronte per la stampa con un marchio nobile dell’editoria. Che pubblicò il volume nell’autunno del 1963.
Oggi Il mito asburgico si legge come il racconto mobilissimo, polifonico, di un’illusione di totalità che si infrange. Un tramonto la cui luce si estenua e, avvolgendo i palazzi maestosi della ex capitale dell’impero, dà l’impressione di una «miseria mistica» scesa sul mondo di ieri. La memoria, il rimpianto lo idealizzano: e l’inchiostro è nostalgico anche quando ironico. Magris cataloga autori, tonalità e stati d’animo: Schnitzler e la sensualità, Kraus e il sarcasmo, Zweig e la protesta morale. Roth e una tristezza «autunnale». La pioggia che cade «con logorante tenacia». O la polvere – che si posa ovunque. «Il triste e acre odore delle lampade a petrolio, il vento, il volo delle oche selvatiche contro il cielo notturno». E poi c’è Musil: con la «spietata sincerità» prestata al suo uomo senza qualità, che si specchia in una realtà in frantumi. I pezzi volteggiano nei vecchi caffè; e nel capitolo che Magris dedica a questa istituzione viennese, «domicilio e recapito fisso dei poeti», si coglie già il timbro del futuro autore di Danubio e
Microcosmi. Uno stile di vita, uno spazio per misantropi in cerca di compagnia temporanea.
Il “Café Central” evocato da Magris c’è ancora, Herrengasse, 14. Wiener Schnitzel e gulasch sono assicurati. Remo Castellini, giovane filologo dell’università di Vienna, mi fa osservare che il mito asburgico passa anche dai menù di caffè come questo; e che appena fuori dal Ring, l’anello che chiude il centro storico, gastronomia e urbanistica cambiano di segno.
E Vienna rivela un’altra faccia: multiculturale, cangiante. Aperta? Lo chiedo a un letterato e chef italiano che vive qui da parecchio, Bruno Ciccaglione. «Progressista ma in affanno. Spaesata», mi risponde. «Tanto più dopo i risultati elettorali in Bassa Austria, uno dei Land più grandi e più ricchi: con l’estrema destra che ritorna attore politico importante». E aggiunge che l’appannamento della leadership tedesca in Europa – per quanto le due nazioni si osservino senza piacersi – sembra riflettersi anche sui sogni di futuro di una piccola Austria senza mito.