la Repubblica, 17 agosto 2023
Caso Amato, il noir bolognese senza movente
C’è uno di quei gialli, a Bologna, che in città non si parla d’altro, anche se senza farsi sentire troppo, quasi sottovoce e solo in certe case e in certi ambienti di una buona borghesia, perché la storia è grossa davvero.
Il dottor Giampaolo Amato, di anni sessantaquattro, stimato oculista all’Ausl e all’Ospedale Maggiore e già medico sportivo della Pallacanestro Virtus che a Bologna conta quasi come le Due Torri, è in carcere dall’ 8 aprile scorso con l’accusa di avere ucciso, avvelenandola con un mix di farmaci, la moglie Isabella Linsalata, di anni sessantadue, anch’ella medico, ginecologa. Ma non solo: il dottor Amato è indagato anche per la morte della suocera, Giulia Tateo, di anni ottantanove; morte avvenuta ventidue giorni prima di quella della figlia Isabella, e – si sospetta – anch’essa cagionata dallo stesso mix di farmaci.
Gli amici del dottor Amato sono increduli, avendo memoria di un uomo tutto famiglia lavoro e pallacanestro; padre di due figli e per giunta cattolico, anche se meno fervente della moglie Isabella. Ma cherchez la femme: il dottore di buona famiglia potrebbe aver perso l’irreprensibilità per una trentenne informatrice farmaceutica; anzi, che l’abbia persa è certo: ma, fino a qual punto, è tutto da dimostrare.
Tutto ciò sarebbe di per sé sufficiente a non far parlar d’altro in città. Ma Bologna è una città speciale, dove ci si mette sempre qualcosa in più. Ad esempio, la misteriosa ricorrenza. Ogni sessant’anni la città viene infatti scossa da un giallo che riguarda medici di buona famiglia che ammazzano il coniuge o la coniuge. Un sortilegio? Una maledizione?
Era il 2 settembre del 1902 quando in un’elegante palazzina di via Mazzini 39 venne trovato morto il conte Francesco Bonmartini, medico, conservatore, clericale. Suo suocero era nientedimeno che il professor Augusto Murri, illustre clinico e medico di Casa Reale (a lui è non a caso intitolata una delle più belle vie di Bologna, che parte da via Santo Stefano e dai Giardini Margherita per andar verso la Toscana, lasciandosi su un lato i meravigliosi colli). Il conte Bonmartini venne trovato ucciso con un’arma da taglio e il professor Murri accusò il proprio figliolo Tullio, direttore del periodico socialista “La squilla”, un tale personaggio che aveva sconfitto Giosuè Carducci alle elezioni per il consiglio provinciale. Tullio avrebbe ucciso il conte Bonmartini in combutta con la sorella Linda, moglie della vittima e spirito libero, coraggiosa al punto da separarsi legalmente nel 1899, quando non si separava nessuno, le donne tantomeno. Morale, Tullio fu condannato a 30 anni e Linda a 10: ma, già nel 1906, lei fu graziata dal Re, riconoscente a suo padre Augusto che gli aveva salvato dal tifo la figlia, principessa Mafalda. Il caso Murri fu una tale storia che Ada Negri dedicò a Linda la poesia “Per un’accusata” e Mauro Bolognini, nel 1974, ci fece un film con Giancarlo Giannini e Catherine Deneuve: “Fatti di gente perbene”.
Sessant’anni dopo, il 14 marzo 1963 – quando Bologna era quella del sindaco Dozza, del cardinale Lercaro e dello squadrone di Fulvio Bernardini – fu arrestato un altro medico, Carlo Nigrisoli, accusato di avere avvelenato la moglie Ombretta Galeffi. Anche Carlo Nigrisoli, come Tullio Murri, era figlio di un luminare, il dottor Pietro, proprietario di una clinica in vicolo Malgrado, laterale di Strada Maggiore. E anche Carlo, come Tullio Murri, fu accusato dal padre, che gli diede dello sciagurato per aver perduto il senno a causa di una ventiquattrenne infermiera, tale Iris Azzali detta la Kim Novak di Casalecchio. Carlo Nigrisoli verrà condannato all’ergastolo, pena poi ridotta in appello a 24 anni; mentre Iris Azzali si sposerà con l’avvocato che l’aveva difesa al processo: Galeazzo Bonaccorsi, figlio dello squadrista Arconovaldo Bonaccorsi, amico di Leandro Arpinati e, si sospetta, killer di Anteo Zamboni, il quindicenne che il 31 ottobre 1926 fu linciato all’incrocio fra le vie Indipendenza e Ugo Bassi dopo un fallito attentato a Mussolini nel quale quasi certamente non c’entrava nulla. Tutto questo va raccontato per mostrare come le similitudini e le coincidenze fra le varie storie siano molte, poiché “a Bologna”, ci dice un noto penalista che preferisce restare anonimo, “tutto si tiene, tutti conoscono tutti e ogni fatto è legato a un altro”. A Bologna è infatti convinzione diffusa che tra ogni persona e cosa ci sia un solo grado di separazione, e non sei come previsto da semiotica e sociologia.
Ma torniamo al caso Amato-Linsalata. La famiglia Amato abita in via Bianconi 6, nel quartiere Murri. E nella loro palazzina borghese, a centovent’anni del delitto Murri e a sessanta da quello Nigrisoli, ecco un nuovo uxoricidio, un nuovo avvelenamento, un nuovo noir con medici coinvolti.
Isabella Linsalata muore nella notte tra il 30 e 31 ottobre 2021 dopo una cena con le amiche, le quali la ricordano allegra, forse convinta, o illusa, che il marito stesse per tornare. Isabella poi sa che, di ritorno dal ristorante, il marito Giampaolo, che nel frattempo era traslocato in un seminterrato della stessa palazzina di via Bianconi 6, sarebbe passato da lei: per controllarle un occhio che lacrimava, per darle la buonanotte e per prepararle la solita tisana. Ecco. Secondo l’accusa, il medico Giampaolo Amato quella notte fa la stessa cosa che aveva fatto sessant’anni prima il medico Carlo Nigrisoli: uccide la moglie con una tisana.
Fatto è che la mattina del giorno dopo Isabella Linsalata viene “rinvenuta cadavere”, come si scrive nei verbali, nel suo letto, “con indosso solo gli indumenti intimi, quali slip, reggiseno (dove successivamente verranno trovate, fissate con delle spille da balia, due medagliette con immagini sacre in metallo chiaro, nonché un santino in tessuto marrone con cordino raffigurante un’immagine sacra) e canottiera”. Anche per i sospetti della sorella della vittima, viene ordinata una perizia tossicologica, che accerta la presenza di citalopram (un antidepressivo con il quale la donna era in cura), di midazolam (una benzodiazepina) e di sevoflurano (un anestestico). Un mix molto probabilmente sufficiente a provocare la morte, secondo la perizia d’ufficio; certamente insufficiente, secondo quella della difesa.
Al processo s’annuncia dunque una battaglia fra i periti: certo complicata, però, dal fatto che la stessa combinazione di midazolam e di sevoflurano è stata successivamente trovata anche nel corpo di Giulia Tateo, madre di Isabella Linsalata, morta 22 giorni prima. Forse che Amato ha voluto provare l’arma del delitto?
Sarà un processo indiziario, nel quale manca il movente. Il pm dice che non c’è: “Non sono emerse dalle indagini franche ragioni di carattere economico... non sono emerse particolari condotte oppositive della persona offesa alla relazione extraconiugale dell’indagato... né risulta che la persona offesa abbia mai manifestato ritorsioni in caso di separazione legale... non sussistendo peraltro neppure particolari problematiche rispetto ai figli maggiorenni e autonomi...”.
Ma il giudice che ha convalidato l’arresto avanza un’ipotesi. Il movente ci sarebbe, e sarebbe l’immagine. E cioè. In quel mondo conservatore e cattolico, “il suo matrimonio con la Linsalata... si risolverebbe in maniera tutto sommato indolore per l’immagine che vuole preservare di sé se tale matrimonio cessasse per cause di forza maggiore, per nulla riconducibili, agli occhi dei terzi, alle sue defaillances di marito ed al suo desiderio... di lasciare la moglie per un’altra donna”.
Amato avrebbe dunque pensato: meglio un delitto non scoperto che una separazione alla luce del sole e di una città giudicante. L’immagine. Se è così, la storia è grossa davvero.