la Repubblica, 17 agosto 2023
Mar cinese, il secondo fronte Washington-Pechino
Cresce giorno dopo giorno la tensione nel Mar Cinese Meridionale, quell’ampia porzione di mare fra Cina, Vietnam, Malesia, Filippine e Taiwan che Pechino rivendica come propria e che la comunità internazionale ritiene essere occupata illegalmente. I Paesi del G7 in occasione dello scorso summit di Hiroshima hanno stigmatizzato il tentativo di Pechino di modificarne unilateralmente lo status quo, ritenendo che «non esiste alcuna base giuridica per le ampie rivendicazioni della Cina nel Mar Cinese Meridionale». L’oggetto del contendere sono le centinaia di atolli disabitati negli arcipelaghi delle Spratly e Paracel, un’area strategica per il commercio e la navigazione mondiale ricca di risorse energetiche e di pesca. Ogni anno passa su queste acque circa un terzo del commercio globale con oltre 3,37 trilioni di dollari di beni trasportati.
A partire dal 2014, con il nuovo corso di Xi Jinping, Pechino ha rafforzato la presenza militare sugli atolli disabitati del Mar Cinese Meridionale costruendo piste di atterraggio, postazioni radar, moli di attracco, installazioni missilistiche e depositi.
Si tratta di oltre 20 avamposti sulle Paracel e 7 sulle Spratly: Mischief Reef, Subi Reef, Fieri Cross, Woody Islands, fra gli altri, diventati in pochi anni ampie basi militari permanenti di Pechino. La Repubblica Popolare rivendica assoluta sovranità su questa gigantesca porzione di mare a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale quando, prima con il governo nazionalista del Kuomintang nel 1947 e poi con Mao Tse Tung negli anni ‘50, venne adottata la dottrina della “Linea dei Nove Punti”, una sorta di illegittimo “Lebensraum” in salsa cinese: uno “spazio vitale” per garantire espansione e dominio economico e geopolitico di Pechino nel Sud-Est Asiatico negli anni a venire.
L’area rivendicata dalla Cina è più grande del Mar Mediterraneo e occupa le Zone Economiche Esclusive e le acque territoriali internazionalmente riconosciute di cinque paesi Asean: Vietnam, Filippine, Malesia, Indonesia e Brunei. La profondità e la non legittimità delle rivendicazioni cinesi è evidente: è come se l’Italia un giorno rivendicasse come proprie acque territoriali un’area marittima estesa fino a poche miglia dalla costa di Tunisi, Tripoli, Alessandria, Tel Aviv e Beirut messe insieme. Il diritto internazionale da torto a Pechino. Il 12 luglio del 2016, la Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja, nel quadro della Convenzione Onu sul Diritto del Mare (Unclos), si è pronunciata a favore delle Filippine, ritenendo le rivendicazioni marittime cinesi totalmente illegittime.
Pechino non ha riconosciuto il verdetto e ha proseguito nella politica di aggressione nei confronti dei paesi vicini, nell’occupazione illegale e nella militarizzazione degli atolli contestati. Accanto alla crescente presenza della Marina Militare e di migliaia di soldati sugli atolli trasformanti in basi militari, il governo cinese ha creato una “milizia marittima” composta dalla Guardia Costiera e da centinaia di imbarcazioni da pesca che ogni giorno svolgono azioni aggressive e di disturbo nei confronti dei battelli vietnamiti e filippini.
Pochi giorni fa, il 5 agosto, la Guardia Costiera cinese ha aggredito un vascello della marina filippina mentre stava conducente una missione di rifornimento al Tomas Shoal, un atollo controllato da Manila. Alle proteste di Manila si è unito il Dipartimento di Stato americano che ha ricordato a Pechino con toni molto duri che «ogni attacco a navi, aerei e forze armate delle Filippine nel Mar Cinese Meridionale invocherebbe gli impegni di mutua difesa ai sensi dell’articolo 4 del Trattato del 1951 fra Filippine e Stati Uniti». La nuova postura aggressiva di Pechino nell’area, insieme alla forte assertività su Taiwan, non sta soltanto aumentando le tensioni con Washington, ma sta provocando anche una serie di smottamenti geopolitici in tutto il Sud-Est asiatico.
Le Filippine del neopresidente Ferdinando Marcos hanno abbandonato la politica filo-cinese di Rodrigo Duterte per riposizionare il Paese nell’alveo occidentale, come confermato dal recente accordo militare e di sicurezza siglato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin. Il nuovo Enhanced Defense Cooperation Agreement prevede la creazione di quattro nuove basi militari Usa nel Paese: la base navale Camilo Osias a Santa Ana, la base Melchor Dela Cruz a Gamu nella provincia di Isabela e l’aeroporto di Lal-lo Airport, tutti antistanti Taiwan; la base di Balabac nell’isola di Palawan affacciata sul mare conteso con Pechino. Inoltre iVisiting Force Agreement bilaterali siglati dalle Filippine con Giappone e Australia, garantiranno la reciprocità di utilizzo delle basi militari e la possibilità di realizzare manovre militari congiunte con la marina Usa per assicurare la piena libertà di navigazione nell’area oggi occupata illegalmente da Pechino.
Il ministro degli Esteri del Vietnam Pham Bing Minh pochi giorni fa ha espresso una forte protesta contro le esercitazioni militari di Pechino nelle Paracel, che il diritto internazionale considera sue acque territoriali. La nota di protesta è l’ultimo atto di un percorso di avvicinamento della diplomazia vietnamita verso le democrazie dell’Indo-Pacifico che si articola lungo i binari dell’economia e della sicurezza. Il Vietnam sta progressivamente diventando una delle mete favorite dal processo di “de-coupling” con Pechino, a cominciare dalla scelta della Apple di spostare parte rilevante delle proprie produzioni (Mac Book ed Apple Watch), unitamente agli accordi di cooperazione nel settore della sicurezza realizzati da Hanoi con India, Usa, Europa e Giappone in funzione di contenimento anticinese. A luglio per la prima volta della sua storia l’India ha donato al Vietnam la corvetta lancia missili Ins Kirpan per rafforzare gli «interessi bilaterali in materia di difesa e sicurezza a partire dalle comuni preoccupazioni sul comportamento aggressivo della Cina nel Mar Cinese Meridionale». Nello scorso mese di giugno la portaerei Usa Ronald Reagan ha sostato diversi giorni nel porto vietnamita di Danang certificando una nuova stagione di cooperazione fra i due paesi.
Ed è proprio la risposta dell’India alla nuova assertività cinese nel Sud-Est Asiatico, che potrebbe rappresentare un fattore complementare e rafforzativo delle iniziative americane, giapponesi ed europee per contenere la Cina nei prossimi anni. Nel quadro della dottrina “Act East” lanciata dal premier Narendra Modi, è aumentato il protagonismo indiano nella regione. L’accordo di partenariato strategico fra India e Vietnam si sta ampliando dalla cooperazione economica a quella in materia di difesa e sicurezza, come dimostra il negoziato per l’acquisto di missili da crociera di produzione indiana BrahMos. Il mese scorso il ministro degli esteri indiano in occasione dell’incontro con il suo omologo filippino ha per la prima volta riconosciuto la piena legittimità del Tribunale Arbitrale dell’Aja, invitando la Cina a ritirarsi dagli atolli occupati. Infine, l’India ha infine partecipato alle esercitazioni militari congiunte con Filippine e Stati Uniti dando vita ad un’ampia cooperazione economica e in materia di sicurezza con l’Indonesia a partire dalla costruzione, con capitali indiani e indonesiani, del nuovo porto di Sabang nel nord di Sumatra.