Corriere della Sera, 17 agosto 2023
Gli 80 anni di Gianni Rivera
Maurizio Crosetti per Repubblica
In fondo Gianni Rivera domani compie solo otto volte 10, il numero che è un destino, la rotonda cifra della perfezione.
Rivera, ma gli eroi mitologici invecchiano?
«Ho letto che l’uomo vivrà fino a 130 anni, ne ho ancora davanti una cinquantina e voglio usarli bene».
Che rapporto ha col tempo che passa? Ci saranno supplementari?
Rigori?
«Questi ottant’anni mi toccano, non posso farci niente. Poi mi dico che Paul McCartney e Mick Jagger ancora cantano, e che John Glenn tornò nello spazio che di anni ne aveva 77. Per cui...»
Lei è appena diventato allenatore a tutti gli effetti, con la patente: scusi, ma non poteva pensarci prima?
«Infatti sbagliai. Però sono stato un allenatore in campo per vent’anni, so tutto del mestiere, sono pronto».
Avrà saputo che c’è una panchina libera niente male, di colore azzurro.
«Ecco, se mi chiamano, mi ci siedo volentieri. Tra l’altro, costo molto meno di Spalletti».
È vero che ci andò vicino già un’altra volta?
«Tavecchio me l’aveva offerto, quel posto, però non avevo ancora il patentino e non se ne fece niente.
Venne a parlarmi Costacurta a nome della Figc, e mi disse che non avevo esperienza. Io senza esperienza?
Mah...».
Cosa pensa di questa storia di Mancini?
«Molto strana, non l’ho mica capita.
Credo di non essere l’unico».
Come giocherebbe la Nazionale allenata da Rivera?
«Niente costruzione dal basso, per l’amor di Dio! Calcio d’attacco, provando sempre a mettere in difficoltà l’avversario quando la palla l’abbiamo noi».
Lo diceva anche Berlusconi.
«E aveva ragione: se vuoi vincere, non puoi pensarla altrimenti. E sempre con tre punte là davanti».
Ora che Berlusconi non c’è più, cosa possiamo dire di questo personaggio?
«Sapeva farsi molto bene gli affari suoi».
Non la volle tenere al Milan: perché?
«Forse temeva che gli avrei fatto ombra, che gli avrei dato fastidio.
Non sono un signorsì. Quando mi propose di diventare presidente dei Milan Club, compresi che era arrivato il momento di andarmene».
E così diventaste i due milanisti nemici in Parlamento.
«Lui aveva le sue idee, io le mie.
Inconciliabili».
Rivera smise di giocare presto.
Come mai?
«Quando Liedholm andò alla Roma, consigliai il presidente Colombo di prendere Giacomini, mi sembrava il nome giusto per allenarci. E Giacomini, quando arrivò, disse subito al presidente che io gli avrei creato problemi: così mi ritirai per amore del Milan, sbagliando. È triste essere messi da parte da chi abbiamo aiutato ad arrivare».
Oggi forse Rivera andrebbe in Arabia.
«O forse no. Credo che potrei accontentarmi di quanto guadagnano i miei attuali colleghi in Italia. Gli arabi vogliono i più bravi, ma da qui si potrà solo tornare indietro, ormai è tutto troppo».
Non crede che oggi si allenino più i muscoli della tecnica?
«Purtroppo sì. E i nostri ragazzi non sanno più fare gol».
Cos’è il numero 10?
«Il mio, l’unico. E l’ho portato sulla schiena per tanto tempo. Se sei Rivera, devi esserlo sempre e per sempre. Ma quando un bel giorno ho visto che ormai il 10 lo danno anche ai portieri, ho pensato: è finita».
Cos’è stata una vita da Rivera?
«L’ho conosciuta abbastanza bene, mi è piaciuta perché mi ha consentito di fare ciò che più amavo al mondo, cioè giocare al calcio. Ma chi ero veramente, l’ho capito dopo.
Io volevo solo divertirmi».
Ci racconta il suo primo ricordo?
«Ho tre anni: mio papà è appena tornato a casa dal lavoro in ferrovia e mi accompagna a palleggiare contro il muro dello stadio “Moccagatta” di Alessandria, a cinquanta metri da casa nostra. Sono felice».
Che tipi erano i suoi?
«Papà aveva il sogno del calcio ma non gli fu possibile avverarlo, c’era da lavorare, così lo trasferì su di me che prendevo a calci qualunque cosa. La mamma era la classica figura tranquilla che stava sempre in cucina a lavorare, a quei tempi si usava così».
Meglio Rivera o Mazzola?
«Molto diversi. In Nazionale avevamo sempre giocato insieme, poi Valcareggi in Messico subì pressioni da Coverciano e dal direttore della Gazzetta . La staffetta fu una stupidaggine. E io davo fastidio».
Nel ’70 cosa sarebbe successo con Rivera titolare contro il Brasile?
«Era il mio avversario perfetto, perché giocava e lasciava giocare.
Forse avremmo vinto noi».
Al ritorno in Italia vi tirarono i pomodori.
«Avevo capito l’antifona e me n’ero già andato».
Però quel Brasile aveva Pelé.
«Meglio di tutti, meglio anche di Maradona. Se il calcio non fosse già stato inventato, lo avrebbe inventato Pelé. Lui era tutto, potente, sensibile. Non era tanto alto però saltava come una molla. Il suo sinistro era pari a quello di Diego, il suo destro migliore».
A un certo punto andò in America.
«Mi confessò che non voleva, che aveva chiesto ai Cosmos una cifra spropositata per farsi dire no. E invece accettarono».
Brera la chiamò Abatino: un marchio d’infamia?
«Mica ero un Ercole! Brera sapeva dei miei rapporti con l’Associazione Mondo X, con i frati e con padre Eligio che aiutava i tossicodipendenti. E allora mi soprannominò così. Pazienza, non porto rancore, era un problema suo.
Ma quando poi Brera incontrava Rocco, ne sentiva di tutti i colori».
Che soggetto era il Paròn?
«Di una simpatia unica. Una volta facevamo ginnastica e lui scuoteva la testa, dicendo “’ndemo, non so a cossa ghe serve ma va ben cussì” .Un’altra volta ci ordinò di fare un giro attorno alla porta saltando di testa, e poi un altro ancora. Allora Cesare Maldini gli disse: “Mister, fantàsia”, con l’accento sulla a. Erano due triestini e Rocco rispose: “Ciò, maledeto bianco!” .Diede la colpa al vino».
Umanità perduta. Ma lei segue ancora il football?
«Quando ho visto il nuovo calcio d’inizio delle partite, pensavo avessero cambiato il regolamento.
Ma si può? Passare subito la palla all’indietro? Così ti ritrovi tutti gli avversari di fronte all’inizio dell’azione! Chi ha detto che il regista deve farlo il difensore centrale? Una puttanata, lei me lo faccia dire con parole diverse, ma questo è».
Con simile calcio d’inizio, addio gol del 4-3 di Rivera con la Germania.
«Infatti! Avevo in mente di dribblarli tutti, poi vidi il muro bianco davanti a me e passai il pallone di lato, per riceverlo più avanti. Ma solo rivedendo l’azione in tivù mi accorsi di avere segnato di destro e non di sinistro, tanto rapido era stato il mio cambio di piede».
È questo, il talento?
«È qualcosa che arriva prima del cervello, qualcosa che hai scritto dentro dalla nascita, un istinto che però non va perso per strada. È fare un gesto senza accorgerti di farlo».
Un giorno Oriana Fallaci le chiese: Rivera, cosa vuol fare da grande? Possiamo rifarle quella domanda?
«Quella signora cercò di mettermi in difficoltà senza riuscirci, fu un incontro un po’ teso. Io da grande voglio allenare, al limite comprerò un club con altri amici e ce la farò.
Ah, guardi che ancora non sono diventato nonno. Altrimenti, come posso essere un ragazzo per sempre?».
Arianna Ravelli per il Corriere
«L’età non conta, guardate Biden o Jagger: io posso allenare»
Gianni Rivera, ha letto l’intervista scritta da Oriana Fallaci per i suoi vent’anni che il Corriere ha ripubblicato qualche giorno fa? Che effetto le ha fatto quel ragazzino, ora che sta per compierne 80 (domani, auguri in anticipo)?
«Condivido le idee di quel ragazzino. È un’intervista corretta, ricordo una discussione vivace, forse la Fallaci aveva bisogno di qualcuno che le tenesse testa, io ci ho provato».
Erano gli anni in cui l’Italia impazziva per il Golden Boy, centinaia di ragazze le scrivevano, ogni tanto ne faceva salire in casa qualcuna e magari restava deluso...
«Ah capitava, certo. Loro erano lì per conoscermi e ogni tanto dicevo, vabbè a questo punto vi conosco anch’io. Ma mica per fare chissà cosa, c’erano i miei genitori in casa, solo per capire chi erano».
La suocera di Altafini con cui ha ballato al night la sera di Capodanno se la ricordava?
«No, non avevo più pensato alla suocera di Altafini!».
Si rammaricava di non riuscire a leggere e studiare però poi ha ampiamente compensato con una vita curiosa, in cui per vent’anni si è dedicato alla politica.
«Sì, vero, del mio periodo in politica ho un bel ricordo, ho incontrato tante persone capaci, ho fatto cinque anni il sottosegretario alla Difesa con tre ministri diversi... Però ero comunque riuscito a diplomarmi, in computisteria commerciale».
Cosa fa un computista commerciale?
«Conta... Ma io ho preso il diploma e ho preferito giocare a calcio».
Diceva anche che non riusciva a vivere appieno la sua giovinezza. Tutto sommato non è andata male, però.
«No, direi che posso essere soddisfatto. Ho cominciato a pensarci in questi giorni quando hanno iniziato a farmi gli auguri. Altrimenti non sono tipo da bilanci, per me l’età non esiste: Mick Jagger e Paul McCartney fanno ancora concerti, alla Casa Bianca c’è un signore che ha la mia età, John Glenn a 77 anni è tornato sulla Luna, perché io non posso fare l’allenatore a 80?».
È molto meno faticoso...
«Esatto, anche molto meno faticoso che giocare. Oggi vedo tutti gli allenatori che si agitano, urlano, io starei sempre seduto, come Liedholm che si è alzato dalla panchina solo una volta quando gli hanno tirato una pallonata. Allora ha detto “ti do un pugno di vantaggio e poi comincio io...”».
Gli allenatori non danno indicazioni utili? Mica sono tutti Rivera in campo.
«Tutto cinema. Non è chiaro cosa sentano i calciatori che poi sanno già cosa fare».
Torniamo a lei in panchina: fa sul serio?
«Certo, l’ho detto a Gravina: sono a disposizione per fare il ct. Tavecchio aveva pensato a me dopo Ventura però non avevo ancora il patentino e gli allenatori si erano opposti, anche se ci sono state altre eccezioni. Costacurta mi disse che non avevo esperienza, ma ho fatto l’allenatore in campo per 20 anni».
Cosa pensa delle dimissioni di Mancini?
«Che doveva darle prima, quando ha perso con la Macedonia, come fece Fabbri dopo la Corea. Non so perché Gravina non l’abbia aiutato a farlo. Ora ha subito la scelta».
Non bello.
«No, non è neanche bello cercare un allenatore che va pagato per liberarlo. E poi ci sono io disponibile».
Cosa direbbe a un gruppo di ragazzi?
Io e la Fallaci
Ho riletto l’intervista che la Fallaci mi fece a 20 anni: penso di averle tenuto testa
«La prima cosa che farei è proibire i telefonini negli spogliatoi. Se potessero li porterebbero anche in campo».
Troverebbe una chiave per comunicare?
«Sì, i ragazzi capiscono. Insisterei sulla tecnica».
Il suo primo ricordo?
«A 2-3 anni, con mio padre che palleggio contro il muro del Moccagatta, lo stadio di Alessandria».
Si è ritirato al momento giusto?
«No, ho smesso troppo presto. Era andato via Liedholm, al presidente del Milan Colombo avevo suggerito di prendere Giacomini, un mio ex compagno, che però ha cominciato a dire che con la mia personalità potevo creargli problemi nello spogliatoio. Ho sbagliato a tirarmi indietro per un eccesso di generosità e ha sbagliato lui che è durato poco».
Baggio sogna ancora il rigore fallito ai Mondiali. C’è qualche incubo che perseguita Rivera?
«Io ripenso sempre a perché mi abbiano impedito di giocare la partita più nelle mie corde, quella col Brasile ai Mondiali del Messico, almeno il secondo tempo. Mazzola nell’intervallo si stava già slacciando le scarpe, quando Valcareggi gli ha detto di proseguire».
Il gol del cuore è il 4-3 con la Germania?
«Sì, se non lo avessi rivisto in tv avrei detto che avevo calciato di sinistro, invece all’ultimo ho cambiato e usato il destro. Mi sono fatto la finta da solo, ma è servito a mandare il portiere dall’altra parte».
Ha avuto dei nemici? L’arbitro Lo Bello?
«No, nemici no, anche se Lo Bello dispetti me ne fece, una volta fischiò la fine del primo tempo mentre una mia punizione stava andando in porta».
Di Tonali, possibile bandiera del Milan passato al Newcastle, ha un’opinione?
«Vedremo chi ha fatto l’affare. Oggi contano solo i soldi, se tornassi nel calcio parlerei di spirito d’appartenenza».
Come festeggerà?
«Pranzerò al mare, come tante altre volte: ci saranno mio figlio Gianni, il vero Gianni Rivera, mia figlia Chantal, un nome che ha apprezzato con gli anni, con i rispettivi fidanzati. E mia moglie Laura».
Che cosa ha portato nella sua vita sua moglie?
«Una sana pazzia, è sempre allegra, mi sprona a realizzare nuovi progetti. Vuole fare un film, anche sulla mia vita».
Una persona che non c’è più con cui vorrebbe festeggiare.
«Rocco, era il mio allenatore ideale ed era divertente, ricordo ancora le sue battute “fate questi movimenti con le braccia non so a cosa servono ma va bene così”, e poi padre Eligio».
Stato d’animo degli 80?
«Grato alla vita, ma oggi si vive fino a 130, ne ho ancora 50 davanti...».