Corriere della Sera, 17 agosto 2023
Intervita a Martin Castrogiovanni
Un cazzotto può cambiarti la vita...
«No, io non ho dato nessun cazzotto a quell’arbitro, l’ho solo spinto» e riproduce il gesto, con una certa dolcezza. «Davvero – racconta Martin Castrogiovanni, ex pilone della Nazionale di rugby diventato uomo di spettacolo, appassionato di tante cose e sempre in prima linea (un’abitudine evidentemente) se si tratta di dare una mano a chi ne ha bisogno —. Stella, mia mamma, non voleva che giocassi a rugby e allora giocavo a basket. Vedevo i ragazzi del rugby, sempre insieme, compagni e amici, volevo andare con loro e quella spinta fu provvidenziale: mi squalificarono, addio basket. Mamma dovette rassegnarsi».
Da Paranà, Argentina, a Calvisano, Italia.
«Avevo 19 anni, il passaporto italiano perché la mia famiglia è di origine siciliana. Primo alloggio una vecchia cascina, rumori, caldo. Scappo a casa di Fabio, un giocatore che arrivava dal mio stesso club di Paranà: vengo da te, sennò me ne torno in Argentina, gli dico. Per fortuna il presidente del Calvisano era Alfredo Gavazzi (che fu anche presidente della federazione, ndr), mi voleva bene come fossi suo figlio, invece di cacciarmi mi dà un appartamento in centro, probabilmente il suo più grande errore».
I sogni di allora?
«Tutti hanno sogni a quell’età, però non avrei mai pensato che mi sarebbe andata così bene. Dopo cinque anni in Italia arriva il Leicester, uno dei club più famosi d’Inghilterra. Mi chiedono di andare a giocare da loro: contratto di un anno al quale ne aggiungono poi altri tre».
Anche perché appena arrivato in Inghilterra vince la Premier e viene nominato miglior giocatore del campionato, lei, un pilone destro, un po’ come dare il Pallone d’oro a un portiere.
«A Leicester ho vissuto il periodo migliore da giocatore. Campionato tosto, un sacco di partite. E non era come adesso che i piloni vengono sostituiti dopo 50 minuti, allora te li facevi tutti 80. Là ho lasciato un pezzo di cuore e due ristoranti. Quando ero infortunato servivo ai tavoli. Ha presente Rocky Balboa nel film? Uguale. Venivano i compagni, i tifosi. Sono stato benissimo là».
Quando girava voce che sarebbe andato a giocare in Francia, alle partite i tifosi venivano con la maschera di Castro.
«Mi volevano bene e decisi di rimanere, rinunciando anche a un bel po’ di soldi. Però c’era Dan Cole, inglese, più giovane di me, la competizione con lui era dura. Cominciai a giocare meno e ci rimasi male. Avevo scelto di restare per amore, avremmo potuto trovare un accordo. Invece niente e così mi ritrovai in Francia».
Il Tolone, il Racing di Parigi e la festa di compleanno di Zlatan Ibrahimovic a Las Vegas. Era il 2016.
«La cosa più stupida della mia vita di giocatore. Ero infortunato. Potevo chiedere: posso andare alla festa di Ibra? Ma ero convinto che mi avrebbero detto di no, allora raccontai che andavo in Argentina a trovare mia nonna. Ovviamente mi scoprirono subito e quello che accadde dopo mi portò ad allontanarmi dal rugby. Avrei voluto chiedere scusa ai miei compagni, non fu possibile, il club mise di mezzo gli avvocati perché i francesi sono fatti così. La verità è che ero tornato dal Mondiale infortunato, avevo un contratto importante e forse non ero più il giocatore che loro si aspettavano. Me lo hanno fatto pagare. Il rugby è uno sport che ti insegna a prenderti le tue responsabilità, sapevo di avere sbagliato e volevo scusarmi. Chiudere così mi ha ferito».
E l’ha allontanata dal suo mondo.
«Ho amato molto il rugby e ho anche sofferto molto per il rugby. Però ho sempre creduto nella filosofia del gioco, nei suoi valori. Che forse non sono più quelli di una volta. Prima, finita la partita, c’era il terzo tempo, ora l’analisi al video, della squadra e dell’arbitro. Io ho sbagliato, però mi sentivo tradito e quando le cose finiscono male bisogna lasciar passare del tempo».
Ha finito anche Sergio Parisse, col quale ha diviso un bel pezzo di vita e i posti in fondo al pullman della Nazionale. Lei lo avrebbe convocato per il prossimo Mondiale?
«Ogni allenatore fa quello che crede sia giusto. Però per il mio sport Sergio è stato Totti e nemmeno Totti è stato trattato benissimo. Non so cosa sia successo, perché Sergio non sia stato convocato ma sono convinto che avrebbe portato qualcosa di importante a questa Nazionale. Oggi poi domina il marketing, convocare Parisse sarebbe stato un bel colpo. Di cosa si sarebbe parlato per anni? Dell’unico giocatore capace di giocare sei Mondiali. I neozelandesi nella stessa situazione uno come Richie McCaw lo avrebbero portato. Penso sia una questione di cultura. E poi ci sono persone che certe cose se le meritano. Io non lo avrei meritato, lui sì».
Dal rugby al mondo dello spettacolo. Sempre in competizione.
«La vita è competizione, lo spettacolo, la tv, è una competizione diversa. In campo quando vedevo un buco mi ci buttavo con la testa, ora è diverso. Credo di aver pensato sempre troppo alla competizione, sei un atleta e vuoi vincere. Non posso giocare a calcetto, sto imparando a giocare a carte, prima nemmeno potevo giocare a Risiko perché volevo sempre vincere. Durante il primo lockdown ho dovuto rivedere un po’ di cose, ora sono molto migliorato».
Soddisfatto di questa nuova vita?
«Mi diverto, è un modo per mettersi alla prova. Alessio Sakara, il campione di arti marziali col quale ho cominciato, mi ha insegnato a prenderla dalla parte giusta. Non mi vedevo, io che ho letto pochissimi libri, a leggere un gobbo. Invece... La verità è che ho sempre avuto fortuna. Tutti mi hanno dato una mano, Belén mi aiutava con il copione, Gerry Scotti, Maria De Filippi mi hanno fatto sentire bene. Teo Mammuccari, sempre sarcastico e diretto, mi ha dato una mano. Mi hanno incoraggiato. Lo ripeto, sono fortunato, a Calvisano ho trovato Alfredo. Quando stavo nel famoso appartamento in centro non avevo voglia di portare giù la spazzatura, così la infilavo nel sottotetto. Finita la stagione torno in Argentina, lascio la macchina parcheggiata in una strada dove ogni lunedì c’è il mercato e mi porto pure via le chiavi di casa. Quando torno apro la casa e potete immaginare la puzza… Alfredo mi voleva davvero bene».
Rimpianti per non aver fatto l’allenatore?
«Ho smesso col rugby perché non mi piaceva più e non ho mai pensato che allenare mi avrebbe ridato quello che avevo vissuto da giocatore. Rispetto tutti quelli che allenano, ma non è per me. Vivo un’altra vita. E poi sono convinto che sia meglio lavorare con i bambini che andare a vincere una coppa».
Ogni anno 500 bambini partecipano alla sua academy.
«Non tutti diventeranno giocatori di rugby, ma io credo molto nei bambini, provo ad aiutarli a diventare uomini, a trasmettergli i valori nei quali ho sempre creduto. Da bambino volevo cambiare il mondo, non l’ho cambiato ma faccio quello che posso. All’academy imparano le regole, a stare insieme, a condividere. Abbiamo aperto anche al rugby in carrozzina. Un anno fa arriva Patrizio, 10 anni, con il papà. A metà settimana c’è la gita, partiamo e Patrizio lo porta il papà e lo porto io. I ragazzi all’inizio stavano sulle loro, poi è successo qualcosa, sono venuti da me: possiamo portare anche noi Patrizio? Il giorno dopo, con la sua carrozzina imbottita di gommapiuma, era in mezzo al campo a passare la palla agli altri, mangiava con gli altri. Il papà era felice e commosso. È stato bellissimo. E Patrizio è venuto anche l’anno dopo».
Lei è sempre presente alle iniziative di Bebe Vio.
«Bebe è la dimostrazione che troppe volte pensiamo in modo sbagliato, dimostra che è giusto fare le cose e non farsi condizionare da niente. Sono convinto che se da ragazzo avessi vissuto le esperienze che vivo adesso, sarei diventato una persona migliore. Collaboro anche con Amref, sono andato in Africa con Daniela, mia moglie. Ci sono tante cose da fare».
Daniela è sua moglie da quasi tre anni, come vi siete conosciuti?
«Io ero in Argentina, lei in Italia, a una cena di un amico in comune, alla quale non voleva andare. Per fortuna all’ultimo momento ha cambiato idea. Questo amico decide di fare una videochiamata per salutarmi e, tra le varie persone, parlo anche con lei. Mi sono fatto mandare il numero di Daniela e abbiamo iniziato a scambiarci messaggi. Io sono tornato dopo diverso tempo dall’Argentina, ma in tutto quel periodo ci siamo scritti e, non appena rientrato in Italia, ci siamo incontrati».
Come l’ha conquistata?
«Sono timido, le prime mosse le ha fatte lei. Ci siamo trovati subito in sintonia, è nato tutto in modo immediato e naturale. Abbiamo iniziato a convivere poco prima del lockdown del 2020, un’esperienza che ha rafforzato il nostro rapporto. In un contesto di difficoltà, dove c’era sofferenza e paura, la condivisione ci ha dato la forza per gestire quel momento e ci ha unito ancora di più».
Cosa ha aggiunto alla sua vita?
«Tanto. Venivo da un periodo un po’ così, avevo smesso di giocare e non sapevo bene cosa fare. Mi ha dato equilibrio, mi ha fatto credere di più in me stesso, mi ha insegnato a prendermi cura delle mie cose e di tutto quello che porto avanti. Anche nell’academy ha un ruolo fondamentale. Ha dato più lei a me che io a lei».
Si è pentito della spinta data a quell’arbitro?
«Insomma, con gli arbitri è sempre difficile. Nel rugby non puoi aprire bocca che scatta la sanzione. Però una piccola rivincita me la sono presa quando mi hanno chiamato a giocare nel torneo degli ex che si fa alle Bermuda. Iniziamo, l’arbitro fischia, io mi avvicino e gli chiedo: stai bene? Certo, risponde. La scena si ripete altre quattro volte e alla fine lui perde la pazienza. Ma perché continui a chiedermi se sto bene? Perché stai arbitrando malissimo».