La Lettura, 6 agosto 2023
La mafia di Foggia
«Game over», la partita è finita per Scarafone, Mezza Lingua, Piscitill, Skiattamurt, Lascia Lascia e così via in una sterminata fantasia di alias: 82 arresti all’alba dello scorso 24 luglio, nella più vasta operazione mai compiuta nel Foggiano, che ha duramente colpito i tre clan dominanti Moretti-Pellegrino-Lanza, Sinesi-Francavilla e Triscuoglio-Prencipe-Tolonese. In passato sanguinosamente rivali, infine sorprendentemente d’accordo per gestire in maniera capillare e meticolosa il traffico di droga nell’area. «Un’organizzazione manageriale formidabile – spiega a “la Lettura” il procuratore e capo della Direzione distrettuale antimafia di Bari, Roberto Rossi, che ha coordinato l’inchiesta “Game over” —: riuscivano a spacciare 50 mila dosi mensili di cocaina per profitti enormi in condizione di monopolio assoluto». E con una divisione dei compiti da azienda avanzata, di cui si è trovata traccia in numerosi pizzini. La «Società foggiana» resta la mafia più brutale e pericolosa d’Italia, ma attenzione a considerarla una banda di «pecorari», avverte Rossi, «una criminalità arretrata»: le indagini hanno dimostrato un salto di qualità, «all’estrema violenza si unisce una straordinaria capacità organizzativa».
E adesso i giochi sono chiusi? «Abbiamo fatto grandi passi avanti – continua il magistrato —. Si sta camminando lentamente, ma si sta camminando. Il problema è non fermare il treno».
Soprattutto, il punto è non arretrare. Lo dice come una provocazione, un campanello d’allarme, il comandante provinciale dei Carabinieri, Michele Miulli, che di «Game Over» è uno dei protagonisti: «Foggia è come Palermo negli anni Sessanta, la mafia non esiste». Colonnello di grande esperienza, tra Sicilia, Calabria e Milano, Miulli ammette gli importanti avanzamenti sul terreno, ma registra anche un ritardo preoccupante nel «riconoscere il fenomeno per quello che è, combatterlo con tutti gli strumenti a disposizione, anche con il sostegno della società civile». Se la capacità di reazione della «squadra Stato» è aumentata, il contesto sociale permane soffocato dalla paura, rassegnato alle estorsioni, abituato alla minaccia. Rare le denunce, sparuti i collaboratori di giustizia. Le inchieste avanzano principalmente grazie a un uso massiccio delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Nel disinteresse nazionale.
«Si tratta di una provincia a lungo trascurata – continua Miulli – sotto un cono d’ombra impressionante: quello che accade qua spesso non riesce neanche ad arrivare nel resto della Puglia. Non c’è attenzione costante, non ci sono quotidiani nazionali...». E pure la politica pare distratta. Sciolto per mafia e commissariato, il Comune va al voto a ottobre, in un clima già fiacco.
Qualcosa certamente è cambiato dalla strage di San Marco in Lamis del 9 agosto 2017, nella quale oltre ai due mafiosi obiettivo dei killer vennero uccisi due testimoni involontari. È considerata una data spartiacque, la presa di coscienza collettiva che la cosiddetta «quarta mafia» non è un’invenzione ed è anzi temibile. Ma vittime innocenti se ne erano già registrate, e per lunghi decenni la criminalità ha dominato incontrastata dalla costa garganica alle campagne, dal capoluogo alle contrade.
Se fosse morto in Sicilia, l’imprenditore Giovanni Panunzio sarebbe stato Libero Grassi, con uguale clamore, prese di posizione, indignazione della società civile. È invece stato ucciso a Foggia il 6 novembre del 1992 (appena un anno dopo Grassi) in circostanze analoghe, per avere rifiutato l’estorsione. Ma se ne sono accorti in pochi. «Soli? Abbandonati! Ci insultavano per strada, ci cacciavano dai negozi, gli amici non volevano più frequentarci...». Michele è il figlio, Giovanna la nuora, ancora giovani e già nonni, assieme fin dai tempi bui delle minacce, dell’assassinio e del processo. «Fui io a prendere la prima telefonata – racconta Giovanna – abitavamo assieme ai miei suoceri, io ero incinta. Era il dicembre del 1989, lo ricordo perfettamente, e mi sembrò uno scherzo, perché era una voce di ragazzino: “Dite a Don Giovanni di preparare due miliardi di lire prima di Natale o farete tutti una brutta fine”».
Imprenditore edile che s’era costruito da solo, Panunzio non era uomo da spaventarsi facilmente, continua Michele: «Orfano di padre, aveva vissuto in strada, lo conoscevano e rispettavano tutti. Negli anni ho apprezzato sempre di più il suo saper fare, la sua capacità di gestire le situazioni», tenere a bada i personaggi poco raccomandabili, evitare i problemi. Finché non fu preso di mira. «Lavoravo con lui dal mattino fino a tardi; a volte la sera, quando eravamo in campagna, lo accompagnavo nella casa del guardiano, metteva le mani sulla testa come a concentrarsi per ricordare, e mi dettava tutto quello che riguardava le estorsioni». Sarebbe diventato un memoriale prezioso al processo per il suo omicidio, dove la famiglia – altra scelta ai tempi coraggiosa – si sarebbe costituita parte civile.
Ancora una telefonata a cui rispose Giovanna: «Intimavano a Michele di non presentarsi in aula altrimenti avrebbero fatto saltare in aria me e i bambini». Una notte insonne, «la paura ci mangiava, ma lui il giorno dopo andò a testimoniare e in questi trent’anni non ci siamo più fermati. La paura c’è sempre, ma impari a gestirla».
Oggi a Giovanni Panunzio è dedicata un’associazione ed è intitolato il principale bene confiscato e riutilizzato a Foggia; Michele e Giovanna vanno costantemente nelle scuole a raccontarne la storia e a parlare del «male che fa la mafia», del «riscatto possibile».
Per raggiungere Casa Panunzio bisogna essere pratici di contrade e sterrati di periferia. Carlo Rubino, presidente del consorzio Opus – che l’ha presa in gestione – si offre di accompagnarci: anche il navigatore da queste parti si disorienta. Era una villetta maltenuta confiscata nel 2001 a un esponente di spicco della Società foggiana, Vito Bruno Lanza detto U lepr, braccio destro del boss Rocco Moretti U porc (del quale in «Game Over» è stato appena arrestato il nipote, Rocco junior), accusato di estorsioni e sfruttamento della prostituzione. Lungo una strada privata chiamata delle Orchidee ma ben poco fiorita. Con prassi consolidata tra le famiglie di mafia che si vedono sottrarre le proprietà, l’abitazione era stata vandalizzata per ostacolarne il recupero. Col tempo però è stata faticosamente rintracciata dalle associazioni antimafia.
«Un bene confiscato era tabù. Il Comune non collaborava – raccontano i Panunzio – le particelle catastali non corrispondevano, non riuscivamo nemmeno ad arrivarci». Decisiva una manifestazione-corteo che si è inoltrata fin qui e ha contribuito a smuovere l’impasse. La palazzina è stata quindi ristrutturata con fondi regionali, le pareti tinteggiate di giallino, i tavoli e le sedie nuove, l’ascensore esterno, la lavanderia sul retro. E finalmente, da novembre, l’ex Villa Lanza trasformata in Casa Panunzio è stata assegnata come «Dopo di noi», struttura dedicata alle persone fragili rimaste senza famiglia. Il primo ospite è arrivato a giugno, un giovane uomo magro ed educatissimo, che si rifà il letto ogni mattina e tiene esposta sul comodino un’immaginetta della Madonna che scioglie i nodi. «Che cosa ti piace di più di questa casa?», gli chiede Rubino. Il ragazzo è un entusiasta: «Tutto!», ruota le mani attorno e si sofferma sugli educatori. In attesa che nuovi ospiti vengano a fargli compagnia.
Nel patrimonio del Comune di Foggia risulta l’unico bene riutilizzato nel pieno spirito della Legge 109/96, assieme a un appartamento assegnato a una famiglia di bisognosi e a una villetta ancora dal destino incerto.
La scarsità di beni confiscati e riutilizzati può considerarsi uno dei parametri per calcolare il ritardo dell’antimafia nel Foggiano. Da che cosa dipende? «Le misure di prevenzione sono in vorticoso aumento – assicura il capo della Dda Rossi —. Ma dal momento in cui si chiedono fino alla confisca e poi al riutilizzo passa come è noto molto tempo. Gli scarsi risultati di oggi sono l’effetto delle disattenzioni di ieri».
Se in questo contesto Cerignola, allora, sembra in leggero vantaggio sugli altri Comuni della Capitanata, è forse perché ha una storia di contrasto alla mafia più lunga, che si fa risalire alla pietra miliare dell’operazione «Cartagine» del 1994. È allora che venne arrestato il boss Giuseppe Mastrangelo U cecato e gli vennero sottratti otto ettari di terreno agricolo con annesso fabbricato.
Il pomeriggio in cui visitiamo Terra Aut è inclemente, 46 gradi di temperatura e un vento bollente che non porta sollievo. La presidia Vincenzo Pugliese, musicista che guida la cooperativa Altereco, oggi otto soci, all’inizio dell’avventura, oltre dieci anni fa, tre ragazzi «sprovveduti». «Lo ripeto sempre, anche ai tanti studenti che vengono in visita: non siamo stati giovani illuminati, non avevamo una strada tracciata, semplicemente invece di andare via volevamo provare a restare. Ci ha guidato l’incoscienza». Un corso per il recupero dei beni confiscati organizzato dall’associazione Libera – anche qui capofila dell’antimafia —, l’ingenua domanda all’ufficio patrimonio del Comune per sapere quali proprietà fossero disponibili, un bando al quale furono gli unici a partecipare. «Quando si scoprì che il terreno era appartenuto a Mastrangelo nessun altro si fece avanti: era un nome che spaventava».
Bisogna immaginare una Cerignola anni luce dalle lotte dei braccianti di Giuseppe Di Vittorio. Il sindacalista e cittadino illustre resta nel nome di una scuola, in un murale sbiadito esposto al sole di una rotonda, poco altro. Da decenni il paese è una importante e strutturata roccaforte criminale, con caratteristiche proprie rispetto alla «Società foggiana» e alla mafia garganica. In modo simile ai clan limitrofi, sarebbe stata tenuta a battesimo dai cutoliani della Nuova camorra organizzata, quindi indottrinata dalle famiglie di ’ndrangheta (lo racconta bene il magistrato Antonio Laronga nel libro Quarta mafia, Paper First, 2021), ma si è poi consolidata lungo un originale asse con Rozzano, provincia di Milano. E ha sviluppato accanto alle estorsioni e alla droga, delle specializzazioni autonome: il furto d’auto, con smercio di pezzi di ricambio in tutta Italia; gli assalti ai portavalori e ai caveau in assetto da guerra, con dotazione di armi pesanti e strumentazioni sofisticate.
Celebre la tentata rapina a Chiasso, che gli stessi criminali intercettati immaginavano come la trama del film con George Clooney Ocean’s Eleven, alla fine colti in flagrante sul tetto del palazzo di una società svizzera per il trasporto di preziosi a maneggiare un jammer, un disturbatore di frequenze, da 40 mila euro.
Una capacità di organizzazione e di azione elevata, segnata negli anni anche da agguati feroci e assestamenti tra le batterie. Vincenzo racconta di essere cresciuto in mezzo ai «morti ammazzati»: «Non sapevo il nome del sindaco, ma conoscevo i soprannomi di tutti i delinquenti cerignolani. Mio padre, vigile urbano, a casa non ne parlava per evitare di preoccuparmi. Ma poi uscivo in strada e la situazione era quella».
Oggi forse meno evidente, una violenza più nascosta. Eppure Pugliese e i suoi soci nel recupero delle terre di Mastrangelo hanno affrontato furti e sabotaggi. Poco dopo l’inaugurazione qualcuno ha tagliato e divelto con la fiamma ossidrica l’intera cancellata all’ingresso della tenuta. «È stata dura, più di una volta mi sono cadute le braccia».
Ma alla fine, grazie anche al sostegno di Fondazione Con il Sud, la cooperativa è riuscita a costruire un progetto sociale che occupa lavoratori svantaggiati, produce ciliegie, limoni, uva, olive, grano, li trasforma in sughi, pasta, olio, marmellate e li vende in attivo.
Splendido esempio, ma all’interno di migliaia di chilometri quadrati di paura. Lo denuncia in prima fila il procuratore capo di Foggia, Ludovico Vaccaro, dalla cittadella del Palazzo di Giustizia che da sola copre l’intera Capitanata: «Oltre diecimila processi pendenti, una giurisdizione che va da Vieste a Cerignola: come facciamo in queste condizioni ad essere vicini al territorio?». Se quasi nessuno denuncia; se dalle estorsioni alle rapine ai furti in campagna l’istinto è di bypassare le istituzioni e tentare di risolvere da sé, la colpa, sostiene il magistrato, è anche di una riforma della geografia giudiziaria che ha lasciato sguarniti settemila chilometri quadrati di territorio impervio, mal collegato, con una bassa densità abitativa. «La vittima si sente isolata».
«Nel 2017 eravamo io, i defunti, i parenti dei defunti e nessun altro»: Lazzaro D’Auria è un solitario imprenditore agricolo che ha rifiutato il pizzo e sporto denuncia. «Adesso a Foggia si sta muovendo qualcosa ma per anni sono stato l’unico».
Il modo in cui i mafiosi l’hanno avvicinato è stato da manuale: un furto in campagna, il tentativo di un «cavallo di ritorno», ovvero la restituzione in cambio di un compenso. Quindi la proposta, leggi l’imposizione, di un servizio di «guardiania». «Prima in modo amichevole, poi cattivo, infine armato». Un’estorsione mascherata da costo d’impresa, come se fosse una voce da mettere nel registro. «È diventata una tassa feudale – sostiene D’Auria – il costruttore, l’agricoltore, paga regolarmente la persona messa lì dal capomafia. Nel lassismo generale, chi più chi meno hanno tutti un contatto con la criminalità. Chi ha provato a opporsi, Panunzio, Marcone (direttore dell’ufficio del registro di Foggia ucciso nel 1995, ndr), Ciuffreda (imprenditore edile assassinato nel 1990) è stato eliminato. E la mafia ha preso possesso del territorio». Con un guadagno che D’Auria stima in 40 milioni di euro l’anno solo dai balzelli imposti sui campi. «Basta fare i conti con le colture e le tariffe del pizzo»: 50 euro a ettaro di grano, 300 per i pomodori, 500 per i vigneti e così via.
Il testimone l’ha raccontato ai magistrati, alle forze dell’ordine, alla Commissione parlamentare antimafia. Ha innescato processi e si è costituito parte civile. Risultato? «Vivo sotto scorta con moglie e bambini; le banche mi hanno classificato a rischio e tolto gli affidamenti, nonostante i bilanci in attivo. Francamente, la vita mi si è molto complicata».