La Lettura, 6 agosto 2023
Quando feci venire Basqiat in Italia
Questa è la storia segreta (o quasi) di una mostra che si pensava perduta e improvvisamente è riapparsa. È innanzitutto la storia di un giovane e sconosciuto pittore di origini haitiane che vive a New York nei primi anni Ottanta: un artista pieno di talento e altrettanta forza autodistruttiva. È anche la storia di un gallerista italiano, geniale e prodigo, che da vero talent scout scopre il giovane artista e gli organizza due grandi personali. Ma la seconda non si farà mai, perché una gallerista italo-americana si mette in mezzo e fa saltare tutto. È una storia di avidità, invidie e incomprensioni, di occasioni perdute, ma anche di integrità e coerenza. Sicuramente una storia di segreti. E, per l’esito che ci sarà, una storia di soldi. Tanti soldi.
In tutto questo si aggiunge anche la storia struggente di una figlia che cerca un quadro in cui è ritratta la madre che non c’è più. Ma per noi è soprattutto una storia di intuizioni e intelligenze, in particolare, quella del direttore di un grande museo svizzero che ha fatto sì che otto straordinarie opere, realizzate a Modena e poi disperse in tutto il mondo, siano entrate nella leggenda e oggi prodigiosamente restituite ai nostri occhi.
Stiamo parlando, lo avrete capito, della mostra The Modena Paintings di Jean-Michel Basquiat, sino al 27 agosto alla Fondation Beyeler, a Basilea. Un corpus di 8 dipinti monumentali (circa 2,20 metri di altezza per 4,20 di larghezza) tutti creati, appunto, a Modena nel 1982. Una emozionante mostra che proprio per la storia che questi quadri racchiudono rappresenta una metafora (ma anche un monito) sul sistema dell’arte.
I veri protagonisti di questo intreccio sono il grandissimo Jean-Michel Basquiat, allora sconosciuto, ed Emilio Mazzoli, gallerista di Modena, gigante dell’arte italiana, protagonista con Achille Bonito Oliva (e Paladino, Chia, Cucchi, De Maria, Clemente) di quella Transavanguardia che ha conquistato il mondo. Emilio Mazzoli si trovava a New York proprio per la fama derivata da quella avventura: era ricercato da tutti, lui stesso era considerato una star. Talvolta i galleristi hanno lo stesso peso, se non di più, degli artisti. Mazzoli è uno di questi.
La nostra storia comincia da qui, nel 1981, e per di più in una data simbolica, propizia per i colpi di fulmine: il 14 febbraio, giorno di san Valentino. Emilio Mazzoli, col suo schietto accento modenese, inizia a raccontare. Alcune indiscrezioni negli anni sono già uscite, ma vuole chiarire questa storia una volta per tutte: «Era un momento storico eccezionale. Cercavo di scoprire più cose possibili, di incontrare il mondo intellettuale, scrittori, critici e artisti, di cogliere l’humus culturale della città. Frequentavo l’ambiente intorno alla rivista “Art-Rite”, da cui nascevano tutti i movimenti più significativi dell’arte americana. Mi segnalano una mostra: New York/New Wave, curata da Diego Cortez. È in una vecchia scuola dismessa di Long Island (diventerà la celebre Ps1 del MoMa) e presenta – oltre a pittori e scultori – musicisti, poeti e fotografi. Ci sono anche molti autori di graffiti. Ovviamente la vado a vedere. Rimango impressionatissimo. In particolare dai lavori di questo Basquiat, artista di cui mi aveva parlato anche Sandro Chia. Dico a Cortez: portami dove sono i quadri di Jean-Michel. Vedo un po’ di opere sparse e le compro tutte. Erano più o meno una quindicina. Le pago diecimila dollari, una cifra impensabile per allora, soprattutto per un ragazzo che non conosceva nessuno e che non aveva mai venduto un quadro».
Un dettaglio: fino ad allora Basquiat si firmava Samo (acronimo di «Same old shit», «Sempre la stessa merda») e la sua corona a tre punte spuntava un po’ ovunque sui muri di New York. La mostra New York/New Wave sdoganò per la prima volta Basquiat dalla strada per dargli una nuova dimensione d’autore. Mazzoli lo capì subito.
Con calma, quasi a voler ricostruire, tassello dopo tassello, il mosaico di una vita, Mazzoli ricomincia il suo racconto: «Vedi, parto dal punto di vista che l’Avanguardia va fatta con disinteresse, attenzione e cultura. Quel ragazzo aveva creato un linguaggio potente e nuovo. Per questa ragione lo invito subito a Modena: voglio fargli una mostra. Gli faccio fare anche altri quadri direttamente in galleria. Com’è andata? Ovviamente la mostra passa completamente nell’indifferenza. Anzi no: qualcuno se n’è accorto, perché in giro cominciano a dire: Mazzoli espone un negro».
Nonostante le diffidenze, le opere vanno tutte vendute: i collezionisti si fidavano di Mazzoli ed erano certamente aiutati anche da prezzi che oggi appaiono ridicoli: «Se li poteva comprare anche un operaio», sottolinea ironicamente Mazzoli. E continua un po’ sconfortato: «Neanche quelli che erano con me in America sono venuti a vedere la mostra. Non ho potuto fare neppure il catalogo: nessuno voleva scrivere. Ma dopo, si sono presi i meriti di tutto». Mazzoli sospira, come rassegnato. Guarda dritto negli occhi e sorride amaro: «Bene! Va bene così».
Nel frattempo Basquiat, dopo questa prima esperienza italiana che vive come un successo, comincia ad avere qualche altra attenzione e inizia a collaborare con la gallerista Annina Nosei. Lui dipinge, lei vende. Ma Basquiat non è contento. Ha finalmente soldi, ma per lui è una vera costrizione. Comincia a perdere il controllo di sé: dalle canne passa all’eroina. Nell’82 Emilio Mazzoli ritorna a New York e pensa che sia arrivato il tempo per la grande mostra: «Lo invito di nuovo a Modena, insieme a Diego Cortez, a Massimo Audiello e alla curatrice Edit DeAk, cofondatrice di “Art-Rite”. Stavolta volevo fare un bel catalogo. Lo invito a dipingere in un capannone. Avevo fatto preparare alcune grandi tele bianche, altre erano già state dipinte da Mario Schifano: capolavori assoluti. Basquiat vede le tele di Schifano e impazzisce: lo sente vicino. Così Basquiat dipinge intensamente, senza sosta. Lavora per una decina di giorni e realizza otto grandi dipinti sulle tele che gli avevo preparato».
E qui, in questa prima parte della storia, ecco affiorare un altro racconto parallelo, interessante soprattutto per i contorni umani: per la galleria Mazzoli lavorava allora Rossana Sghedoni, una ragazza che aveva il compito di assistere Basquiat. Passano gli anni, Rossana Sghedoni si sposa e mette su famiglia. Si sa, come ci insegna Natalia Ginzburg, ogni famiglia ha un proprio lessico e una propria mitologia: in quella di Rossana Sghedoni e del marito Fausto Ferri, ricorreva questa frase: «Lo sapete che Rossana ha fatto da modella a Basquiat, quando è passato per Modena?». Rossana Sghedoni è mancata qualche anno fa: la figlia Anna Ferri, da brava giornalista qual è, con grande affetto e tensione letteraria ha ricostruito quei giorni in una sorta di romanzo-documento (Basquiat. Viaggio in Italia di un formidabile genio, pubblicato da Aliberti nel 2021, pagine 201, e 14,90) in cui, tra verità e finzione, racconta i momenti della creazione alla quale la mamma è stata diretta testimone.
Anna Ferri comincia così una sua personale e appassionata ricerca. Del quadro non c’era quasi traccia, sino a quando Sem Keller, direttore della Fondazione Beyeler decide di rimettere insieme le otto opere, tra cui quella che ritrae anche una donna, attribuita nel catalogo a Suzanne Mallouk, fidanzata di allora. Non c’è dubbio che Suzanne sia molto simile a Rossana, stessi occhi scuri, stessi capelli neri. In ogni caso, nel dipinto la trasposizione pittorica è talmente straniante che tutto questo conta davvero poco. Nel libro Anna Ferri narra che Basquiat, dopo aver visto con Rossana in un negozio di colori alcuni quaderni sull’arte antica, le chiede di posare come una Venere classica e con un casco di banane. Nasce così Woman with Roman Torso (Venus), un’opera tanto potente che la Fondation Beyeler ha deciso di collocarla all’entrata del museo. Qui Anna Ferri ha compiuto un vero pellegrinaggio con tutta la famiglia alla ricerca della memoria della madre e «al suo sorriso che resta». Il libro finisce con la ricerca del quadro. Questo nuovo finale sarà raccontato in un’edizione aggiornata, confessa felice Anna Ferri.
Mazzoli riprende il racconto di quei giorni: «Comincio a preparare il catalogo. Poi arriva a Modena Annina Nosei e subito mi chiede la percentuale sulle eventuali vendite. Io le rispondo: cara Nina, siamo amici, ma l’ho scoperto io, l’ho portato a Modena, gli ho comprato tele e colori e ora tu vuoi una percentuale? Se le opere le compro da te, ti do tutto quello che vuoi, ma qui ho fatto tutto io per un artista che ho scoperto io, forse me la dovresti dare tu la percentuale, dico provocatoriamente. Ma Nosei insiste e insiste ancora. Così salta fuori il mio carattere e mando al diavolo tutti».
Mazzoli avvolge le tele e le rende, chiudendo la vicenda. Anche se a parole dice il contrario, Mazzoli vive questa storia con afflizione. Non si è piegato a quello che riteneva ingiusto, ma vive una delusione su certi modi di intendere il mercato dell’arte. E di non aver potuto condividere con pienezza e gioia un momento importante della storia dell’arte contemporanea. «Pentimenti? No, sono felice di avere fatto tutto quello che ho fatto. Perché io vorrei solo una cosa: che Basquiat fosse vivo, e che avessimo potuto fare ancora belle cose insieme. Ma non è andata così. Sono stato male quando l’ho incontrato anni dopo a New York, nel 1988, a Tribeca: era distrutto dalla droga, creava solo problemi, era solo, abbandonato da tutti: non lo cercava più nessuno. Non doveva finire così».
Basquiat muore poco dopo quell’incontro, il 12 agosto 1988. Poi è arrivato Bruno Bischofberger che ha comprato da Annina Nosei alcune opere fatte a Modena. Il resto è storia recente, quella del potere della finanza e nelle quotazioni stratosferiche: questi otto dipinti sono considerati i pezzi più importanti di Basquiat. Alcuni hanno addirittura toccato i 100 milioni di dollari. Ma Mazzoli non ha rimpianti: «Ho una formazione cattolica e me ne vanto. In un mondo in cui non esiste più la parola data, la lealtà, ma solo i soldi, faccio sempre più fatica». Oggi Emilio Mazzoli è un signore di 81 anni, con la barba bianca e con quel piglio diretto, sincero e protettivo da ex maestro elementare cresciuto tra i confini della Valle Padana e il mondo: insomma di chi crede nelle strette di mano e nella parola data. Cosa non da poco. L’immagine iconica della mostra riproduce il quadro The Guilt of Gold Teeth, «La colpa dei denti d’oro». È una figura potentissima. I curatori fanno riferimento alle evocazioni simboliche delle origini dell’autore. Ma noi, in quel dipinto riconosciamo Mazzoli, col suo vezzo di indossare una bombetta o un cilindro nero che gli conferisce un’aura speciale, perfetta per un personaggio a suo modo unico. Forse lo vedeva così anche Basquiat, che lo ritrae quasi fosse uno sciamano, con il cilindro in testa, uno stregone protettivo capace di cambiare il destino di un uomo.
C’è una rara foto di quei giorni: Mazzoli è di fronte a Basquiat nella cornice di una cucina semplice, quasi umile. È quella della famiglia Mazzoli a Modena: intorno, un frigorifero, una tovaglia a quadretti, una bottiglia sul tavolo. Ci immaginiamo che la moglie Melita abbia affettato del buon culatello e cucinato i tortellini. Tutto molto naturale, spontaneo. Un mondo davvero lontano da quello insaziabile e crudele di New York che tanto dà e tanto prende. Emilio indossa un cilindro, Jean-Michel la bombetta: in un gioco di specchi e complicità i due hanno costruito questo siparietto, quasi a voler affermare, nella diversità, un comune sentiero, quello dei destini incrociati, iniziato per caso quel 14 febbraio 1981 e che ha un’unica direzione: l’amore per l’arte.