La Lettura, 6 agosto 2023
Fare a meno della coscienza
Quali sono le ragioni che hanno fatto diventare il problema della coscienza l’enigma di questo secolo? Me lo sono spesso chiesto. A parer mio la coscienza non è un hard problem, cioè un problema irrisolvibile, come sostiene David Chalmers, ma una illusione che nasce dalla sua dimensione e genesi religiosa. In altre parole è stata proprio la sua derivazione/collegamento al concetto di anima che ne ha fissato il suo valore enigmatico ed incommensurabile.
Già lo stoicismo aveva evidenziato il carattere di interiorità della coscienza che si manifesta come colloquio dell’anima con sé stessa di fronte al «non senso» del mondo e delle sue realtà caduche. Plotino si chiede se «l’intelligenza e l’anima intellettuale non agiscono forse per sé stesse, (cioè come coscienza, ndr) essendo prima della sensazione e della relativa impressione». Soprattutto con sant’Agostino la coscienza si identifica con l’anima. Essa è radicalmente personale ed in rapporto costitutivo con un Dio altrettanto personale.
Da queste premesse diventa chiaro come la coscienza, espressione fenomenologica dell’anima, risulta il discrimine fra l’essere umano e non umano. Ed in questo modo diventa un hard problem irrisolvibile da un punto di vista scientifico, in quanto è impossibile spiegare a livello empirico ciò che caratterizza un a priori ontologico di unicità divina dell’essere umano. Da questa tradizione derivano i giudizi antropocentrici che hanno contrassegnato i secoli fino ad oggi: gli animali non hanno la coscienza e fino al secolo scorso neanche i neonati. E, come scrive David Chalmers nel libro Più realtà (Raffaello Cortina), molti sostengono che anche le macchine non possono averla. La coscienza come proprietà ineffabile ed esclusiva dell’essere umano diventa impossibile da riprodurre e nello stesso tempo da spiegare nella sua ipotetica espressione. Un puro flatus vocis.
Se per un momento ci dimenticassimo questa storia e ci interrogassimo sugli aspetti fenomenologici del nostro essere al mondo, su come risolvere problemi, interagire con l’ambiente, percepire e provare emozioni, ci accorgeremmo della inutilità di questo concetto. Ad esempio proviamo ad immaginare la sua applicabilità secondo il senso comune con il meccanismo della sottrazione dalla sua massima espressione alla sua minima o nulla. Si comincia dall’alto, dalla capacità di attenzione e focalizzazione nella soluzione di un problema o nella percezione visiva ed uditiva stimolata da psicoanalettici (come le anfetamine); poi la stessa situazione in condizioni di stanchezza o sotto effetto di tranquillanti; poi i comportamenti automatici e routinari inconsapevoli come la guida dell’automobile o i movimenti in uno sport conosciuto; poi varie condizioni patologiche di deprivazione percettiva in cui si parte dal deficit di una funzione per arrivare a quella di tutte le funzioni congiunte; poi il sogno con contenuti visivi; da ultimo la perdita di coscienza fino al coma profondo.
Vediamo in tutte queste situazioni, eccetto l’ultima, un affievolimento o riduzione progressiva di quella che il senso comune chiama coscienza. In altre parole la coscienza sembra derivare da una serie di funzioni cognitive, cerebrali e corporee che di fatto potrebbero sostituire l’utilizzo del termine stesso. Essa diventa solo un etichetta linguistica lasca senza contenuto definitorio, ma applicabile a varie situazioni diverse di espressione della cognizione incorporata (embodied cognition). Da questo punto di vista se le varie situazioni, tranne quella di coma profondo, possono essere teoricamente simulate in una macchina, allora potranno esprimere le stesse espressioni fenomenologiche.
Nel suo libro Chalmers condivide la possibilità di simulazione e di creazione in una macchina della coscienza (anche se continua a considerarla un hard problem alla pari di quella della conoscenza delle altre menti). Lo fa però, da buon cartesiano, non capendo fino in fondo la lezione della embodied cognition. Secondo lui basta la simulazione graduale del cervello per creare un agente artificiale dotato di coscienza. Al contrario quello a cui mettiamo l’etichetta coscienza ha a che fare con processi di attenzione, pensiero, problem solving e percezione integrati a sensazioni corporee, viscerali e motorie collegate in modo «enattivo» con l’ambiente. Tutto ciò è quello a cui attribuiamo l’etichetta coscienza. Da questo punto di vista anche gli animali ne sono in possesso in misura diversa uno dall’altro. E lo potrebbero essere anche le macchine, se solo fossero dotate di un corpo capace di sentire esternamente ed internamente (altrimenti rimarrebbero solo dei «cervelli o degli algoritmi nella vasca»).
Susan Calvin, la robopsicologa del libro Io, Robot di Isaac Asimov, se ne rende conto quando deve affrontare una serie di supposte anomalie del funzionamento degli automi. Come ne è consapevole Charlie Friend (il protagonista del romanzo di Ian McEwan Macchine come me), quando comincia a cogliere la profonda sensibilità ed intelligenza di Adam il robot umanoide che aveva comprato per hobby. Le macchine di Asimov e Mc Ewan hanno alla base del loro comportamento l’attenzione a non violare le tre Leggi Fondamentali della Robotica che vietano ad un robot di arrecare danno all’uomo. Ciò è il fulcro della loro supposta coscienza e l’hub di tutti i comportamenti derivati.
Il tema della coscienza nel libro di Chalmers è centrale rispetto a quello più generale della simulazione e delle realtà artificiali. Se è possibile che esistano macchine uguali a noi e dotate di coscienza, allora anche la realtà potrebbe essere simulata e, pur essendo virtuale, rimanere una realtà autentica e non un mondo di seconda classe. In queste realtà in cui possiamo già trovarci adesso, senza rendercene conto, potremmo svolgere una vita interessante dotata di significato ed appagante.
Ciò risponde in senso positivo a quella che Chalmers chiama la terza domanda di Platone, quella sul valore: si può condurre una vita buona in un mondo virtuale come la Caverna di Platone? Sì è la risposta. Anche la seconda domanda sulla realtà o sulla illusione, che nasce dalla storia del saggio indiano Narada che credeva di essere una donna, ma che era all’interno di una illusione creata dall’intervento di Vishnu, può dare un esito positivo: i mondi virtuali sono reali e non illusori. Infine la domanda più difficile, quella sollevata dal sogno della farfalla del grande filosofo cinese Zhuangzi, nato nel IV secolo avanti Cristo e, sembra, fondatore del Taoismo. Egli sogna una farfalla felice e svolazzante fra un fiore e l’altro. Quando si sveglia si trova davanti ad un dilemma: era lui ad avere sognato la farfalla o la farfalla che sta sognando lui? La vita che sta vivendo come Zhaungzi è reale o è un sogno? A mio parere questa domanda diventa meno cogente se abbiamo già risposto positivamente alle altre due. È difficile portare delle prove definitive che non siamo in una mondo virtuale ed onirico. In ogni caso accettiamo quello che ci sembra più verosimile a livello fenomenologico, tranquilli per il fatto che, anche se fossimo in una simulazione o in un sogno, la nostra vita potrebbe essere altrettanto di «prima classe» e buona come quella reale.