La Lettura, 6 agosto 2023
Cronaca da sette deserti
Nella primavera del 2005 il rover della Nasa Opportunity rimase bloccato per quasi un mese su Marte. Le sue ruote si erano insabbiate mentre cercavano di scalare una piccola duna. C’è una foto di quel periodo che ritrae il paesaggio alle spalle del rover: le dune del deserto marziano, modellate dal vento, vengono tagliate di netto dalle tracce delle ruote, due linee parallele che arrivano fino all’orizzonte, segno del tragitto faticosamente percorso. La foto venne chiamata Rub’ al-Khali, come il deserto di sabbia più grande del mondo, e davvero quel panorama potrebbe assomigliare a quello scrutato da un esploratore del deserto che si sia infine voltato a guardare le tracce del proprio passaggio e che abbia riconosciuto in quelle l’ossessione di conoscenza che lo ha spinto tanto lontano da casa.
Il Rub’ al-Khali, il cui nome significa «Quarto vuoto», inteso come la quarta parte del mondo (dopo cielo, terra e mare), è una depressione che occupa la porzione meridionale della penisola arabica, tra Oman, Yemen e Arabia Saudita e si estende su un’area di 650 mila chilometri quadrati, più grande della Francia. Lambito soltanto ai suoi margini dalle tribù beduine che lo temono e lo rispettano, il Quarto vuoto occupa un posto speciale nell’immaginario delle popolazioni arabe: è il deserto che nasconde misteriose città perdute, o dove i jinn della mitologia locale spediscono gli imbroglioni a scontare la loro pena, causando morte certa. Il nome del Rub’ al-Khali, il cui cuore è rimasto inesplorato fino a pochi decenni fa, suscita terrore in tutto il mondo arabo.
In Un mondo senza confini (Adelphi) il giornalista William Atkins racconta dei suoi straordinari viaggi attraverso sette deserti del mondo, facendo di quei luoghi mete sia geografiche che simboliche, mostrando come nei deserti gli esseri umani si ritrovino a fare i conti con un senso di ulteriorità e di urgenza che li supera e di cui, una volta provato, non si può più fare a meno. Come se ci fosse, in quell’unico archetipico deserto del mondo, un attrattore destinale che da millenni parla al cuore dell’uomo e che lo invita a trascendere i suoi limiti.
Il punto di partenza di questo viaggio non poteva che essere il Quarto vuoto. Per la sua traversata Atkins si mette sulle tracce, storiche e letterarie, degli esploratori che lo hanno preceduto: i primi stranieri a compiere l’impresa furono, all’inizio degli anni Trenta, i britannici Bertram Thomas e Harry St John Philby, in una specie di gara che ricorda la leggendaria e amara corsa tra Scott e Amundsen per il Polo Sud. Negli anni Quaranta toccò a Wilfred Thesiger, la cui rotta del 1946, che segue il margine orientale del deserto, è ancora quella usata oggi dai turisti armati di fuoristrada e Gps che vogliono tentare la traversata.
Definito da Thomas «l’ultima grande terra incognita», per gli esploratori occidentali l’attraversamento del deserto era spesso una prova di coraggio per tornare in patria come eroi e il Rub’ al-Khali, come tutto l’Oriente, un luogo quasi sessualizzato, da conquistare e possedere. Allo stesso tempo, però, anche il deserto conquistava i suoi conquistatori, ponendo nei loro cuori la sete di una nostalgia impossibile da spegnere.
Oggi, tra le dune solcate dagli esploratori, si ritrova invece il passaggio della modernizzazione: segnali stradali nella ghiaia o tettoie su cisterne di acqua solforosa testimoniano la presenza dei giacimenti di petrolio più ricchi del pianeta. Fino a seimila anni fa il deserto ospitava una fauna variegata e laghi poco profondi, i cui letti disseccati ora intervallano le dune rosso arancio (a causa del feldspato, un minerale trovato in quantità anche su Marte). Atkins racconta che durante il viaggio dall’ultimo centro abitato al cuore del deserto il paesaggio lentamente degrada, si atomizza e si frastaglia e che una volta ai suoi margini le dune aumentano di dimensione: sul fuoristrada ci si sente come su una nave che cavalchi le onde di una tempesta. Nel deserto si vedono cose che sono invisibili altrove. Scrive Atkins: «Sembrava fosse quello l’obiettivo finale di ciascun viaggiatore del deserto: l’asse dove l’assoluto coesiste con l’infinito». E in effetti le terre isolate, sterili e misteriose dei deserti possiedono una certa predisposizione all’esperienza spirituale, alla meditazione su Dio. Il deserto è il luogo prediletto delle religioni del Libro, luogo di migrazioni, di tentazioni diaboliche e di agnizioni divine, di eremiti e profeti persi in una landa monotona che suggerisce l’idea di un Dio unico, tanto che il deserto può arrivare a esserne l’idea fatta reame mistico.
Come Opportunity bloccato su Marte e costretto a guardarsi intorno, così oggi chi procede lentamente nel deserto ha la sensazione che quello che ha davanti non riguardi soltanto il proprio passato ma anche, e soprattutto, il futuro di tutta l’umanità: un riconoscersi reciproco che forse non è altro che «aspirare alla condizione di sabbia».