La Lettura, 6 agosto 2023
Viaggio in Ucraina
Questo secondo viaggio nell’Ucraina in guerra, questo ritorno, era previsto da un po’. Ma alla domanda che mi veniva rivolta spesso, perché?, non trovavo risposte convincenti, tanto che da un certo punto in avanti ho scelto di cavarmela con un paradosso: Torno in Ucraina per togliermi l’Ucraina dalla testa.
Se fossi stato più sincero avrei ammesso che dopo il primo viaggio, a febbraio, mi era capitato qualcosa di strano e spiazzante: ho iniziato a diffidare della realtà. La realtà della nostra Europa occidentale, delle nostre vite in pace, era inconciliabile con quella che sapevo svolgersi simultaneamente in Ucraina, delle due solo una era ammissibile. Nel passaggio a piedi della frontiera tra Polonia e Ucraina avevo sperimentato fisicamente questa transizione tra reale e irreale (o viceversa). Entrando in territorio ucraino, anzi già sulla passerella che collega una dogana all’altra, mi aveva investito una gravitas diversa, come se a cambiare fosse la composizione chimica dell’aria. Con la stessa immediatezza quella gravitas era svanita nel percorso inverso.
Durante i mesi in Italia, tra febbraio e luglio, mi sono riabituato come tutti alla nostra realtà, ma ho mantenuto attivi alcuni canali Telegram, perciò di tanto in tanto il warning di un attacco missilistico mi sorprendeva nel fare tutt’altro, nel pensare a tutt’altro, nell’essere tutt’altro. Cos’era reale in quel momento? Ciò che esisteva al di qua del confine ucraino o ciò che iniziava appena oltre?
Poi, il 27 giugno, un missile russo ha colpito un ristorante di Kramatorsk, il Ria, provocando la morte della scrittrice Victoria Amelina e di altri dodici civili. Avevo intervistato Victoria a pochi giorni di distanza dall’invasione su larga scala e poi seguito su Twitter la sua attività di ricerca sui crimini di guerra russi, alternata ad attimi struggenti di vita personale. Una giovane donna con i capelli chiari, l’inglese perfetto e l’espressione determinata, appena più giovane di me. Kateryna, una nostra amica comune, mi ha annunciato la sua morte al telefono. È stata l’unica volta da quando la conosco che l’ho sentita piangere. Ma io stavo per iniziare la presentazione di un libro da qualche parte in Veneto e le ho detto: Devo richiamarti dopo. Chi di noi due, in quell’istante, era più reale?
La morte violenta di Victoria ha modificato per sempre, almeno per me, la sostanza di questa guerra. Ha azzerato le domande sul perché tornare a guardarla da vicino.
Resta il problema dell’autorizzazione: perché io? A questo non ho nulla di meglio da offrire di una risposta tautologica: Perché sì. Capita a chi scrive di restare impigliati in certe matasse del presente, non tanto per volontà quanto per delle misteriose implicazioni personali, e per caso. Ero stato in Ucraina prima dell’invasione, due volte, avevo conosciuto delle persone lì, stretto amicizie tra cui quella con Kateryna e questo è quanto. Senza quei trascorsi è probabile che non avrei sentito questa guerra altrettanto mia o non avrei saputo riconoscerla come tale, ma è successo.
E così, cinque mesi dopo, ritrovo Kateryna al ristorante Celentano, nel centro di Leopoli. Abbiamo poche ore a disposizione in città e scegliamo di usarle per andare al Lychakiv e vedere la tomba di Amelina, sembra scontato a entrambi.
Non c’è stato il tempo di costruire una lapide per lei, ma sul tumulo sono piantati dei fiori: crisantemina, begonie, gigli bianchi. Restiamo in silenzio per qualche minuto, sotto la pioggia, mentre mi dico che quello è un buon punto dove riposare, tra i mattoni del muro di cinta e un tiglio imponente. Kateryna scherza sulla vicina di tomba di Victoria, una donna del secolo scorso tutta devota al marito: Vika la prenderà a sberle, dice, oppure le insegnerà un po’ di empowerment.
Il funerale di Victoria si è svolto con la sequenza riservata ai caduti militari, ma la sua sepoltura è avvenuta fra i civili. Ora usciamo dal cimitero e ci addentriamo nel Campo di Marte adiacente, dove si trovano i soldati morti in questa guerra. Quando sei venuto, mi dice Kateryna, c’era un’unica donna qui, mentre adesso sono tre, tutte soccorritrici militari. L’ultima è stata interrata stamattina, si chiamava Natalya e aveva ventun anni, la sua fotografia è sommersa di fiori.
Confronto il Campo di Marte con le foto di febbraio che ho sul telefono. In cinque mesi sono state completate diverse file. Qualcosa non va nella contabilità di questa guerra, troppi morti, ogni giorno, troppi per essere solo Leopoli. Mi assale un pensiero: prima che finisca, non ci sarà più spazio.
La mattina seguente partiamo molto presto. Il navigatore prevede quattordici ore di auto fino a Kherson, ma alla fine ne impiegheremo solo dodici, Sashko alla guida sul furgone con targa finlandese che lasceremo agli attivisti, io alla guida della sua auto. Siamo volontari, trasportiamo materiale per i civili, per gli alluvionati, ma anche per i militari. Partecipiamo attivamente al conflitto quindi, e a me sta bene così. Non ho mai avuto alcuna pretesa di neutralità.
A febbraio questo lungo tratto di strada verso Vinnitsya era incolore, mentre adesso è un’esplosione di verde: alberi di noce carichi di frutti, salici piangenti e grandi nidi di cicogne in cima ai pali della luce. Solo più avanti inizieranno i campi di girasoli. Per allentare la tensione abbiamo scelto una playlist anni Ottanta, Take On Me, Girls Just Want to Have Fun. Quando parte It’s a Sin Kateryna dice tra sé: Ah, ecco com’è l’originale. Si ricorda della versione tarocca che ascoltava in epoca sovietica.
A Kherson lasciamo ai volontari il furgone finlandese con il suo carico. Ci aggiriamo per il deposito dov’è stoccata merce di ogni tipo: conserve e scatolame, medicine, acqua, vestiti. Il deposito esisteva prima dell’esplosione della diga di Kakhovka, prima che parte di Kherson venisse sommersa, ma per via dell’emergenza è stato ampliato parecchio. Un sistema online permette di fornire a chiunque ciò di cui ha bisogno ed evitare gli assembramenti. Bisogna avere la massima accortezza: la settimana scorsa un deposito di aiuti umanitari più piccolo di questo è stato colpito da un missile, proprio qui a Kherson.
La diga di Kakhovka si trova a circa settanta chilometri verso est, a monte lungo il corso del Dnipro, ma la zona alluvionata su cui affaccia questa parte di Kherson prosegue molto oltre, fino al Mar Nero. È la prima indicazione che ho della vastità del danno. Per valutare l’impatto complessivo dell’esplosione della diga servirà molto tempo, anni, anche se è più probabile che resterà un mistero. Di certo sarà registrato dagli storici come uno dei peggiori disastri ambientali mai causati dall’uomo (nella fattispecie dalla Federazione Russa), insieme a Chernobyl e ai test atomici. Eppure quando è avvenuto, il 6 giugno scorso, ci ha colto nella stanchezza e nella disattenzione. Forse si trattava di una catastrofe troppo inedita, troppo ampia per poterne parlare: dire «diciotto chilometri cubi d’acqua» è come non dire nulla, un ordine di grandezza così distante da quelli a cui siamo abituati da superare i limiti della nostra immaginazione.
Oltre agli effetti visibili, ce ne sono altri che possiamo solo ipotizzare. Il fondale della diga, fermo da decenni, era pieno di rifiuti e sostanze tossiche, tra cui parte delle scorie radioattive di Chernobyl, che ora hanno in larga parte raggiunto il Mar Nero. Nessuno ha la minima idea di cosa comporti lo sversamento di diciotto chilometri cubi di acqua dolce, tutti insieme, in quel mare, ma è probabile che l’habitat di molte forme di vita acquatiche sia stato alterato temporaneamente. In più, si stima che la massa d’acqua, spazzando i territori liberati e quelli occupati, abbia smosso qualcosa come settemila mine – settemila mine —, trasportandole dio solo sa dove.
Kateryna mi dice che l’esplosione della diga ha lasciato il delta del Dnipro ridotto a una «wasteland». Non so bene come raffigurarmela, almeno finché non ci arriviamo e la vedo, la terra desolata, la prova del regime di imprevedibilità in cui da tempo è entrata questa guerra. Se prima esistevano dei limiti di razionalità al conflitto, deboli, magari illusori, insieme alla diga di Kakhovka sono saltati anche quelli. Siamo entrati in un dominio in cui si compiono azioni inedite e abnormi senza considerarne le conseguenze, facendole e basta per averne un vantaggio immediato o soltanto per danneggiare, distruggere. Dopo la diga tutto è possibile.
C’era una volta una casa sull’isola di Korabel, una casa blu affacciata al fiume in una posizione invidiabile. La casa esiste ancora a dire il vero, ma la sponda che guarda è occupata dai russi, perciò è preferibile non camminare su quel lato dell’edificio o passarci molto in fretta. Nel giardino della casa, che Tetyana e Oleksandr hanno costruito per la figlia Juliana e i suoi tre bambini, lo strato di fango secco ricopre ogni cosa, così come ricopre le vie attorno, l’intera Korabel e tutto il delta del Dnipro. Il fango emana l’odore tipico che segue le alluvioni, anche se fra alcune zolle è già cresciuta l’erba.
Cerco il segno del livello raggiunto dall’acqua sull’intonaco esterno, senza trovarlo. Tetyana mi indica di guardare più in alto: non fra il piano terra e il primo ma a metà delle finestre di sopra. Ed eccolo infatti. All’interno della casa, coerentemente, la fanghiglia non è solo sul pavimento e le pareti, ma anche sul soffitto, fiorito di muffa ovunque. Attraversiamo le stanze come se ci fosse ancora qualcosa da ammirare oltre allo sfascio, le attraversiamo – così mi sembra – con lo sguardo di Tetyana che le vede in trasparenza come dovevano essere prima, con i mobili e le tende e le tracce di vita. Juliana e i suoi bambini, adesso, sono da qualche parte a ovest.
C’era una volta una casa sull’isola di Korabel, una casa con un bel cortile, dove negli ultimi mesi è caduto di tutto. Tetyana mi fa soppesare l’involucro di un razzo, lo ha tenuto come ricordo. Nel tappeto elastico dove un tempo giocavano i bambini c’è un buco perfettamente tondo fra le zolle di fango sospese. Forma un disegno affascinante, un quadro di Burri realizzato con tecnica inedita: alluvione e bombe al fosforo. Di questo piccolo parco giochi domestico faceva parte anche una casetta di legno, ma la costruzione non è più qui, si trova nel cortile accanto, oltre il muro. L’onda di piena l’ha scardinata e trasportata di là, per poi abbandonarla tra i rottami di barche, gli elettrodomestici, i van e certi pezzi di metallo indecifrabili. La mattina dell’esplosione della diga, quando Tetyana e Oleksandr si sono svegliati, l’acqua arrivava già alle ginocchia.
Ci addentriamo di un centinaio di metri all’interno dell’isola, fino alla rimessa dove tenevano la loro barca. Oleksandr siede lì fuori senza fare nulla, lo sguardo perso nel vuoto. La sua assenza riguarda qualcosa che è avvenuto prima dell’inondazione, durante i 261 giorni di occupazione russa di Kherson. Il 17 giugno 2022, alle sei del mattino, i russi hanno fatto irruzione in una ventina. Dopo averli accusati di essere dei nazisti, gli hanno ammannito una lezione privata di propaganda (Zelensky non è stato eletto dagli ucraini ma dagli Stati Uniti, l’espansione della Nato a est, l’Occidente deteriore eccetera). Ma finalmente erano arrivati loro, i russi, e sarebbe andato tutto bene. Infatti hanno preso i soldi e i gioielli di Tetyana, hanno tramortito Oleksandr con un colpo in testa e l’hanno portato via.
Dopo appena un’ora di interrogatorio dentro una delle baracche di lamiera con la V tatuata sopra, Oleksandr ha avuto un attacco cardiaco, probabilmente dovuto alla paura delle torture. I soldati si sono convinti che fosse morto e lo hanno trasportato verso il crematorio. Lungo la strada hanno incontrato un commilitone ferito e lui ne ha approfittato per strisciare fuori dall’auto. A quel punto i soldati avevano perso interesse e se ne sono andati. Per una settimana Oleksandr è rimasto in rianimazione, senza che sua moglie sapesse che fine aveva fatto.
Ora Tetyana vuole che visiti anche la loro casa, stanza per stanza, sebbene non ci sia nulla di salvo, non il parquet, non la tappezzeria, non i mobili, non la scrivania in legno intagliato né i volumi della libreria. Solo il lampadario del soggiorno è ostinatamente appeso al centro di un finto cielo turchese. Ho visto dei trompe-l’œil simili sui soffitti di altre case qui in Ucraina, ma a distanza di giorni quello di Tetyana continuerà a tornarmi in mente, come un segno incongruente di speranza. Perché nonostante tutto, nonostante la piena e le condizioni del marito, Tetyana propende per la speranza. Non si spiegherebbero altrimenti le centinaia di oggetti e tessuti e mobili marci che ha messo ad asciugare in cortile: per usarli dove? E non si spiegherebbe il sorriso con cui ci saluta quando l’allarme dell’artiglieria si mette a suonare con insistenza minacciosa e noi ce ne andiamo in fretta, lasciandola lì, in piedi sul vialetto di fango secco che congiunge una casa distrutta all’altra.
Perlustriamo Korabel, un’isola disabitata di umani da cui i cani spuntano ovunque. Corrono dietro alla macchina, abbaiano, e per tre volte i volontari si fermano a rovesciare sull’asfalto delle scie di croccantini.
Di nuovo sulla terraferma di Kherson attraversiamo un quartiere di case a un solo piano, finite completamente sott’acqua, rimaste in ammollo per giorni. Gli abitanti sono tornati giusto per svuotarle e accumulare il contenuto in cataste abbastanza ordinate, poi se ne sono andati di nuovo. Di quello che l’acqua ha fatto al resto del delta, della devastazione che inizia sulla riva opposta del Dnipro non si sa nulla. Ogni segnale è intrappolato nel silenzio russo. Ma la terra laggiù è più bassa, quindi lo scenario non può che essere peggiore.
Trascorriamo la notte in città, a casa di una docente universitaria, in un alternarsi di sirene ed esplosioni. Io dormo a malapena. Il signore che all’alba incontriamo nel parcheggio del caseggiato ci conferma che sì, sono arrivati dei colpi di artiglieria e qualche Shahed, ma quella è stata una notte tranquilla.
Per raggiungere Nikopol sarebbe più sensato risalire il corso del Dnipro, ma la strada non è agibile, oltre a coincidere con la linea del fronte, quindi torniamo a Kryvyj Rih per poi deviare nuovamente verso sud. In questo modo aggiriamo da lontano la diga di Kakhovka, passando dalla zona a valle a quella a monte. Dopo Hrushivka compare alla nostra destra quello che fino a un mese fa era il reservoir della diga, un vero e proprio mare, qui lo chiamavano così infatti, il «mare». Ora è del tutto prosciugato se non per qualche rigagnolo. Somiglia a un salar sudamericano. Nella distesa di fango a perdita d’occhio sono piantate delle ancore di metallo solitarie.
Nikopol ha appena festeggiato un anno di bombardamenti costanti e Olena l’ha vissuto per intero, non si è mai mossa da qui: non poteva per via dei cani. Ne ospita undici nel suo appartamento (io non oso entrarci) e qualche centinaio in un ricovero a un paio di chilometri di distanza. In molti le hanno affidato i propri animali prima di scappare e Olena li ha accolti tutti. Ha una frangia ben pareggiata, sprizza energia e mi parla fitto, anche se non capisco una parola di ciò che dice, a eccezione di «sobacka», cane.
Il giorno del primo attacco, il 12 luglio 2022, ci sono stati un morto e un ferito ed erano tutti increduli: perché Nikopol? Come obiettivo non era strategico né sensato, doveva trattarsi di un errore. Quella notte, giusto per sicurezza, hanno dormito vestiti. Poi i bombardamenti non si sono più fermati.
In quel periodo qualcuno ha ripostato un appello di Olena su un gruppo Facebook di cui Kateryna faceva parte. Lei l’ha cercata al telefono, ma in quella prima chiamata Olena non si è potuta trattenere perché stava soccorrendo un cane in arresto cardiaco. Si sono conosciute così. Gli infarti, mi spiegano ora, sono stati la causa della morte di molti cani nelle prime settimane di bombardamenti. Quelli sopravvissuti si sono ormai abituati all’artiglieria.
Quanto agli umani, la città è passata da centodiecimila abitanti a meno di trentamila, e i morti civili sono saliti a venti. Da quando la diga è esplosa, Nikopol è anche rimasta senz’acqua. Ogni giorno arrivano delle autobotti e si fanno ore di fila. Ci sono persone, soprattutto quelle che vivono più vicino all’ex mare e quindi all’artiglieria, che escono dalle case o dalle cantine solo per rifornirsi. Olena si alterna con la figlia Iryna, l’approvvigionamento occupa quasi tutto il loro tempo, viaggi continui trasportando taniche, perché servono decine di litri d’acqua al giorno per dissetare i cani. Molti secchi se ne vanno solo per pulire il pavimento dello studio. All’ora in cui arriviamo in città le autobotti sono già esaurite.
Ci spostiamo nel centro di Nikopol di cui si intuisce ancora, seppure remotamente, l’eleganza: gli alberi ordinati lungo il viale, le panchine in ferro battuto, i palazzi antichi. Non ce n’è uno che non sia semidistrutto, compresa la libreria per bambini. Degli autobus di linea gialli collegano il centro con altre cittadine qui attorno, ugualmente spettrali.
Olena ci porta in una via in leggera pendenza dalla cui cima si scorge la silhouette della centrale nucleare di Zaporizhzhia con i suoi reattori equispaziati. Appena sei chilometri in linea d’aria eppure è simile a un miraggio. In mezzo: il mare prosciugato. I servizi segreti ucraini avevano preannunciato un attentato alla centrale nella notte fra il 4 e il 5 luglio, dal momento che i russi avevano minato due reattori. Alcune persone sono partite, ma Olena non l’ha nemmeno preso in considerazione. Chi è rimasto sapeva che in caso di contaminazione non avrebbe avuto alcuna possibilità di salvezza, perciò si sono congedati gli uni con gli altri la sera del 4, una specie di festa di addio. Ma la notte ci sono stati solo bombardamenti «normali». E dieci giorni dopo la vita senz’acqua di Olena e Iryna va avanti. Così come quella della donna che ci passa accanto con i tre figli piccoli, portando due taniche ciascuno. Il pensiero dell’esplosione nucleare è sempre lì, ma i superstiti di Nikopol lo trattano nell’unico modo possibile: facendo finta che non esista.
Arriviamo a Zaporizhzhia un paio d’ore più tardi. Ci sono persone che prendono il sole sulla spiaggia in riva al Dnipro. È forse l’immagine più strana che mi porterò via da qui: ragazze e ragazzi in spiaggia, minacciati da una centrale nucleare minata, mentre tutta la regione è in allerta per i raid aerei. La vita che coesiste con la fine del mondo. Torno a riflettere su ciò che è reale e ciò che non lo è.
All’ingresso dell’appartamento di Anzhela noto un calendario a foglietti fermo al 24 febbraio 2022. Dico in un orecchio a Kateryna che mi sembra fin troppo simbolico, ma lei mi risponde freddamente che la simbologia non c’entra nulla. È abbastanza comune, anzi lo ha notato in altre case. Le persone non riescono a girare la pagina. Il loro tempo si è fermato, oppure un tempo è finito e ne è iniziato uno diverso.
Sul frigorifero di Anzhela ci sono alcuni reperti del tempo di prima: magneti raccolti nei viaggi all’estero (Berlino, Madrid, Lisbona, Amsterdam, Canada) e un ritaglio di giornale in cui compare una sua foto in centro a Leopoli. Anzhela è un’attivista Lgbt, una rarità qui a Zaporizhzhia. Mi serve il tè in una tazza di Stonewall con stampato lo slogan «Some people are gay, get over it!». È diventata un’attivista per supportare il figlio, che ora dorme nella stanza accanto perché lavora in remoto tutta la notte per una compagnia straniera. Ma dopo l’invasione su larga scala, l’attivismo di Anzhela si è saldato con quello per i soldati al fronte e le loro famiglie. La guerra ha assimilato ogni battaglia, creando territori intersezionali inediti. Le chiedo cosa prova ogni volta che Putin e i suoi parlano di questa aggressione come di una crociata contro l’omosessualità e lei, spiazzandomi, non risponde sulla Russia né sull’Ucraina ma sull’Europa: Far parte in tutto e per tutto dell’Europa, dice, significa per me avere la possibilità di battermi per i diritti di ogni persona discriminata in Ucraina, ogni singola persona, e lo farò.
Nel frattempo la cucina striminzita si è riempita di ospiti che non erano previsti. Tra di loro ci sono Angelina e i suoi due figli, Karolina ed Ernest, di nove e cinque anni. Angelina porta orecchini e un bracciale a forma del tridente ucraino e ha un’espressione di afflizione trattenuta che per il momento non so interpretare. Non so nulla di lei, non so di cosa voglia parlarmi, ma lei inizia a raccontare così apro il quaderno e trascrivo.
Con l’invasione su larga scala Angelina e suo marito Dmytro si sono subito attivati come volontari. Facevano la spola fra Zaporizhzhia e i checkpoint procurando ai soldati qualunque cosa di cui avessero bisogno, vestiti, elmetti, cibo. Hanno aiutato i rifugiati di Mariupol quando sono arrivati qui. Ma Dmytro pensava che non fosse abbastanza. Sapendo di andare contro il parere di Angelina, il luglio scorso si è arruolato senza dirglielo. Si è arruolato a cinquantadue anni, senza alcuna esperienza militare pregressa, è stato addestrato per tre settimane vicino a Dnipro, poi subito impiegato. Il 20 novembre l’hanno trasferito nella zona di Bakhmut per la prima missione di combattimento. E il 26 novembre, appena sei giorni dopo, Dmytro è scomparso. Missing in action.
Angelina ha cercato informazioni su di lui dai canali ufficiali dell’esercito («investigation in progress, no news»), poi attraverso i suoi contatti personali. Ha seguito i social dove a volte i russi pubblicano le foto dei prigionieri, ma di Dmytro, da otto mesi, non c’è traccia. Vivo, morto, ferito, incarcerato, torturato, agonizzante: Dmytro esiste in una sovrapposizione di stati nella mente di Angelina. Insieme a lui, quel 26 novembre, è svanita nel nulla tutta la sua squadra, un centinaio di uomini. Angelina si è iscritta a un gruppo Facebook per la ricerca dei soldati scomparsi. Me lo mostra: una sequenza interminabile di foto di ragazzi in divisa, molti giovanissimi. Sono venticinquemila, dice.
Riesce a raccontarmi tutto questo in presenza dei figli, governando fino all’ultimo la commozione. E ha anche un regalo per me, come se fossi io quello che ha bisogno di essere confortato. È il disegno a tempera di un motivo ornamentale tipico di questa regione: un uccello fra dei fiori rosso sangue. L’ha dipinto la figlia Karolina. Porgendomelo, Angelina dice: Io lo so che è vivo, lo sento.
L’inizio dell’estate è stato piovoso in Donbass, la pianura è ancora molto verde, a eccezione dei terykon spogli che si innalzano qua e là. In questa stagione gli ucraini esprimono la loro devozione speciale per i giardini. A Pokrovsk, dove ogni finestra è sigillata, i cortili sono curati, con fiori e ortaggi. Perfino il Donbass appare meno minaccioso così, anche se non è meno mortale.
Arriviamo a Kramatorsk con la scusa di consegnare dei metal detector ai soldati, ma in verità per rendere il nostro tributo laico al ristorante Ria dove Victoria Amelina è stata ferita a morte. Sashko parcheggia dietro l’angolo per non dare nell’occhio e con Kateryna ci avviamo a piedi. Ho visto il ristorante devastato in così tante foto che mi risulta quasi famigliare anche così: il cratere formato dall’Iskander in quello che prima era l’interno, l’altarino con le foto delle vittime.
Individuo la zona dov’ero seduto quando ho mangiato qui mesi fa. Poi mi metto a cercare qualcosa di significativo fra le macerie. Non trovo nulla. Allora aspetto un po’, faccio abituare gli occhi a quella vista di calcinacci e resti, come si farebbero abituare all’oscurità, e piano piano dei dettagli emergono: il menu con le foto scintillanti dei cocktail, lo schermo tv appeso alla parete e chissà come rimasto illeso, le lattine appiattite degli energy drink. Questo luogo dovrebbe restare così anche quando la guerra sarà finita, penso, diventare un memoriale. Ma ci sono troppi luoghi in Ucraina che dovrebbero diventare memoriali, l’Ucraina stessa è un immenso memoriale. Perciò qui si ricostruirà e basta, ed è giusto così.
Per l’attacco al Ria è stato arrestato un uomo. Pare avesse girato un video delle persone all’interno del ristorante poco prima del lancio del missile, mostrando quante erano, e che l’avesse mandato ai russi con le coordinate. Mi chiedo se nel video ci fossero già Victoria e i suoi ospiti colombiani. Alla fine raccolgo un frammento di intonaco scuro e me lo metto in tasca. Kateryna è precipitata in un silenzio che non ammette intrusioni.
Ma nel viaggio per l’avamposto militare, appena fuori Kramatorsk, chiede a Sashko di fermarsi. Scende dalla macchina e si avventura nel prato lì accanto, raccoglie dei fiori, staccando con i denti quelli con i gambi più duri. Forma un mazzo che solo in seguito mi accorgerò essere composto di giallo e azzurro. Ci chiede la pazienza di tornare indietro, al Ria, per depositarlo. Questa volta la lascio andare da sola e quando torna in auto appare sollevata. Dice che la cerimonia per Victoria a Leopoli con tutti gli amici è stata emozionante, ma per lei Vika è sempre rimasta qui. Solo adesso le sembra di averla salutata.
Riprendiamo la strada verso New York. La cittadina di New York, nel Donbass, deve il suo nome eccentrico alla comunità di tedeschi che la fece sviluppare a fine Ottocento, prima che quegli stessi tedeschi venissero deportati da Stalin in Kazakistan. È qui che Victoria organizzava, prima dell’invasione su larga scala, un festival letterario. New York era già fronte, lo è dall’occupazione del 2014, ma prima del 2022 era ancora abitata, c’erano bambini e perfino qualche lettore.
Roman, che a febbraio era stanziato più a nord, adesso si trova in quest’area. Ho pensato spesso a lui nei mesi scorsi. Le persone che sai essere qui crescono in intimità anche da lontano, perciò quando lo abbraccio ho l’impressione di ritrovare un amico. Da responsabile di un lanciarazzi, Roman è diventato comandante di un plotone di venti uomini. La casa dove sono sistemati è migliore della precedente, questa è circondata da campi in fiore, i proprietari in fuga hanno lasciato perfino una sauna funzionante.
Ma per chi combatte ci sono pro e contro nell’estate. La vegetazione permette di nascondere meglio i mezzi e non si sprofonda continuamente nel fango, ma gli scontri sono più intensi e più frequenti: se a febbraio Roman e i suoi si spostavano verso le posizioni di attacco due o tre volte la settimana, adesso ci vanno anche otto volte in un giorno. La conferma mi arriva acusticamente: nelle poche ore che trascorriamo insieme, i colpi di artiglieria sono incessanti, in entrata e in uscita. Il paesaggio sonoro attorno a New York è simile a quello di un temporale in lontananza. L’orecchio di Roman è così allenato da sapere quanti razzi vengono sparati ogni volta. Tre. Altri tre. Adesso dieci.
In più, il cielo limpido permette ai droni russi di volare ad alta quota, anche di notte, vedendo tutto. E le batterie dei droni, senza il freddo, durano più a lungo. Qualche giorno fa Roman e i suoi sono stati individuati mentre si trovavano in una posizione di combattimento, i russi si sono messi a sparare e loro hanno dovuto disperdersi, restare nascosti per venti minuti sotto gli attacchi.
Ci sediamo all’ombra di un gelso per il pranzo, Roman fa portare pane e Coca-Cola. Mangiando mi parla ancora di droni, dei diversi modelli e delle loro specificità – i Cube, i Lancet, gli Orlan, i Supercam —, di come sia difficile scorgerli e quasi impossibile abbatterli, poi del fatto che i russi sono ormai in grado di produrli con le stampanti 3D, mentre l’esercito ucraino deve acquistarli. Sashko aggiunge: C’è questa diceria comune che l’esercito russo sia disastrato come quello sovietico, ma non è così, hanno ottime attrezzature, anche elettroniche.
Quando gli chiedo di commentare la controffensiva, Roman diventa cauto. È un argomento sensibile, soprattutto verso l’opinione pubblica straniera, che è alla base della fornitura di armi e munizioni. Si concede di dire che forse le aspettative erano esagerate, come se avanzare in Donbass potesse assomigliare alla liberazione di Kharkiv. A Kharkiv c’erano barriere fisiche, ponti, mentre qui non esistono ostacoli e i russi hanno avuto il tempo di costruire linee di difesa successive.
E c’è l’altra vera novità di questa fase della guerra, oltre all’abbondanza di droni nemici: i russi minano tutto. Minano ogni metro quadrato prima di cederlo. Minano terra, acqua, edifici, mezzi, i cadaveri degli ucraini e quelli dei loro stessi soldati, minano le dighe e forse le centrali nucleari. Ogni terreno riguadagnato, quindi, non è davvero riguadagnato fino a quando non è stato bonificato per intero. Si perdono molti uomini anche in questa fase, il costo umano al metro lineare diventa molto alto.
E le bombe a grappolo? gli chiedo a bruciapelo.
Presto l’Ucraina otterrà dagli Stati Uniti una fornitura di bombe a grappolo, ma per l’Europa – quell’Europa di cui gli ucraini vogliono fare parte «in tutto e per tutto», come ha detto Anzhela – si tratta di armi proibite. La fornitura di bombe a grappolo rischia così di diventare il primo elemento di diffidenza fra l’Ucraina e il resto dell’Europa.
Ma sono proprio le mine la ragione che giustifica agli occhi dei soldati ucraini, e di Roman, l’impiego delle bombe a grappolo. Permetterebbero, mi dice, di ripulire molto più in fretta, con maggiore efficienza e sicurezza i territori riconquistati. E permetterebbero di eliminare più soldati nemici, risparmiando uomini. In queste ore si parla di centomila soldati russi inviati solo sul fronte di Lyman, centomila, un numero che sovrasta quello ucraino. Artur, il poeta soldato che ho incontrato a febbraio, che ha scritto i versi sull’Amore «che cresce dappertutto come le more selvatiche», si trova ora su quel fronte.
Kateryna si è tolta le scarpe da quando siamo arrivati. Con i colpi di artiglieria che risuonano intorno cammina scalza sul battuto di cemento del cortile e nel prato dietro la casa, tra l’erba alta. Ha un passato da biologa e conosce i nomi dei fiori, mi mostra quello rosso del viburno, che è un simbolo dell’Ucraina. Nota delle tegole che risalgono al periodo d’oro di New York, prodotte nella fabbrica che si trovava qui, una rarità ormai, e ce ne spiega la storia. I soldati sono sbalorditi da lei, da tutto quello che sa.
Il programma era di trascorrere la notte qui, ospiti di Roman, ma ci sono troppe esplosioni e anche se lui mi assicura che sono abbastanza lontane la suggestione ha preso il sopravvento. Chiedo a Kateryna e Sashko di allontanarci, di dormire in città, a Dnipro, anche se dovremo guidare altre ore. Sashko obietta che dormire a Dnipro non è molto più sicuro, ma poi fa come gli ho chiesto. Roman dissimula la delusione di vederci andare via così presto, ci salutiamo come se non dovessimo vederci più.
Sulla strada che passa attorno a New York veniamo sorpassati da un’ambulanza che corre all’impazzata. Dev’esserci qualcuno in condizioni critiche a bordo. Sono certo che per un attimo, dentro l’auto, pensiamo all’unisono a Victoria, che in ambulanza ha fatto lo stesso percorso fino all’ospedale di Dnipro, dove sarebbe stata dichiarata morta cinque giorni più tardi.
Al checkpoint un soldato mi controlla il passaporto e dice: L’Italia è molto lontana da qui. Poi raggiungiamo la strada principale, fra i campi di girasoli, e mentre ci lasciamo il Donbass alle spalle ci precede un camion che trasporta grano. La velocità fa piovere sul parabrezza una grandine di chicchi leggerissimi che producono un ticchettio rassicurante.
In questa sera di mezza estate, nel pieno della guerra, il centro di Dnipro è animato. Gruppi di ragazze e ragazzi, famiglie. Cerchiamo un ristorante che serva ancora la cena e ne troviamo uno appena in tempo. Parlano quasi tutti russo, me ne accorgo perfino io, e la cosa mi confonde un po’. La separazione linguistica è il fondo limaccioso di questa guerra, un piano su cui si incagliano molte certezze e che proprio per questo è al centro della propaganda russa, così come della ricostruzione dell’identità ucraina. Chiedo a Kateryna e Sashko quante persone in questa sala sarebbero pro Ucraina e quante no, e loro mi rispondono cinquanta e cinquanta. Poi si correggono: Forse settanta e trenta, dopo tutto quello che è successo.
Aver completato il percorso che avevamo in mente, esserci allontanati dalla zona inondata e dal fronte, e la prospettiva di dormire in hotel ci rendono più leggeri. Per un attimo lasciamo perdere la guerra e nominiamo addirittura qualche film. In questo sprazzo di intimità mi rendo conto che in un anno e mezzo – un anno e mezzo in cui Kateryna e Sashko sono stati le mie guide quando c’ero e il mio sguardo per il resto del tempo – non ho mai rivolto loro la domanda più scontata: Ma voi? Come state voi? Lo faccio adesso, perché sono preoccupato che il prolungarsi della guerra gli succhi via anche gli ultimi pensieri liberi, gli ultimi desideri per sé stessi.
E così parliamo di loro finalmente, di come scrivere sia diventato per Kateryna un lusso che non riesce più a concedersi, perché i soldati al fronte hanno bisogno di troppe cose e non solo loro, anche Olena e i suoi cani e tutti gli altri. È la stessa ragione per cui Sashko continua a percorrere l’Ucraina in diagonale, avanti e indietro dal fronte, migliaia di chilometri ogni mese. Se non si è arruolato a febbraio scorso è stato per via di una spalla fratturata che ancora non è a posto, e per i loro tre figli. Ma adesso il maggiore ha compiuto diciotto anni, due giorni dopo la morte di Victoria, quindi potrebbe arrivargli la cartolina. Se dovesse arrivare, lui non farebbe nulla per opporsi, anzi ne sarebbe quasi sollevato, perché non fa che ammazzarsi di fatica per superare il senso di insufficienza, e di colpa, nei confronti dei soldati che muoiono.
Sì, ma voi? insisto, voi insieme?
Su questo ammutoliscono. Forse loro non esistono più. O si sono dimenticati di chi erano prima.
E tuttavia, quella breve conversazione modifica qualcosa. Perché dopo cena, mentre camminiamo nel parco a un’ora dal coprifuoco, nonostante la sirena si sia messa a suonare, Kateryna e Sashko stanno più vicini. Si tengono la mano come non li ho mai visti fare e mi raccontano la prima cosa intima di loro, di quando Kateryna era all’università e una notte Sashko si è arrampicano su una scala antincendio solo per vederla. Prima di partire per questi giorni con me hanno fatto un patto: se salta la centrale di Zaporizhzhia, Kateryna prende i ragazzi e si allontana il più possibile dall’Ucraina. Sashko rimane. Kateryna ha preparato le borse, le ha lasciate accanto alla porta di casa.
Le confesso di avere nello zaino, per la stessa ragione, un contatore Geiger e delle pastiglie di ioduro di potassio, e nessuna di queste confessioni reciproche ci stranisce o ci imbarazza: il concetto di strano o imbarazzante è molto cambiato in Ucraina, come è cambiato quello di normale. Ma ascoltando Kateryna parlare, ascoltando me parlarle, mi chiedo ancora una volta: siamo reali o irreali adesso? Siamo reali o irreali mentre prendiamo in considerazione l’ipotesi di una catastrofe atomica?
Oggi hanno bombardato Kherson, dov’eravamo due notti fa, ed è morta una persona: reale o irreale? Nel pomeriggio, mentre l’ambulanza con a bordo un soldato ferito ci è sfrecciata accanto, mentre i rumori dell’artiglieria erano tutt’intorno, noi stavamo discutendo su quale musica ascoltare in macchina: reale o irreale? Victoria accompagnava degli scrittori stranieri, come ora Kateryna e Sashko accompagnano me, ed è stata uccisa da un missile mentre mangiavano in un ristorante: reale o irreale? Prima che partissero, la madre di Kateryna ha detto a lei e Sashko «non morite insieme»: reale o irreale? Tra meno di una settimana sarò nel Sud Italia, su una spiaggia, ma sarò più o meno reale di come sono in questo istante?
Costeggiamo il laghetto del parco, sul quale incombe un’enorme struttura sovietica in cemento, il Summer Theatre di Dnipro. Assomiglia a un mostro marino o a un’astronave aliena dormiente, le luci sono gialle e fioche. Kateryna e Sashko camminano qualche passo avanti. State cantando, dico. Ci hai chiesto se ci occupiamo ancora di noi, risponde lei, a volte la sera cantiamo, anche con i bambini. E la canzone di che parla? Di un ragazzo che viene chiamato in guerra, ma lui è troppo giovane e non vuole andare, perciò chiede al padre di partire al posto suo.
Dall’ultimo giorno a Leopoli non mi aspetto nulla: troppo vicina al confine polacco, a noi, troppo simile alla nostra realtà irreale. Non siamo stati fuori a lungo, ma ogni giorno qui conta per dieci.
Ho comunque chiesto a Kateryna di organizzare qualche incontro. Natalya arriva all’hotel Astoria zoppicando. Ha un dolore alla schiena che non le permette nemmeno di fare le scale, per via degli scatoloni che solleva e sposta e riempie e svuota per tutto il giorno, da mesi. La charity per cui lavora si occupava prima solo di bambini – oncologia, malattie rare, trapianti —, ma adesso raccoglie anche materiale per i soldati, soprattutto lacci emostatici, di cui al fronte si fa un consumo smodato. Giusto ieri Natalya ne ha ordinati 450, un paio di settimane prima altri 1.200. Considerato che ognuno costa circa quindici dollari, deve raccogliere molto denaro, ma i donatori non sono più così tanti, né così generosi come nei primi mesi. Alcuni, soprattutto gli americani, chiedono che il loro denaro sia investito esclusivamente per le cure ai bambini, non vogliono avere niente a che fare con l’esercito e la guerra.
Ma io non ho incontrato Natalya per i bambini o i lacci emostatici, l’ho incontrata perché era un’amica intima di Victoria Amelina. Si sono conosciute vent’anni fa, giocando a un quiz della tv, What? Where? When?. Natalya mi mostra una foto del matrimonio di Victoria, ha il velo bianco, è giovanissima. Sono una dozzina, il gruppo di amici più stretti, e ognuno indossa un indumento che non c’entra nulla col contesto: un reggiseno sopra l’abito, un guanto di gomma da cucina, un paio di boxer rossi, un cappello strano. Le chiedo di descrivere Victoria. Era sempre calorosa, dice, era «nostra». Anche se nell’ultimo periodo viaggiava di continuo ti aveva sempre presente e quando tornava a Leopoli anche solo per una notte diceva venite da me, ho una bottiglia di vino.
Poi Natalya aggiunge: ed era sempre elegante. Anche dopo l’invasione. Una volta si è presentata al magazzino degli aiuti umanitari con un vestito bellissimo, blu scuro. Era inverno, nel magazzino non c’era il riscaldamento perciò io avevo una tuta da sci, ma vedendo Vika così ho ricominciato a concedermi gli abiti.
Dalla foto del matrimonio di Victoria manca all’appello anche Oles, il fratello minore di Natalya. Si è arruolato volontario subito dopo il 24 febbraio e data la carenza di personale sanitario è stato impiegato come medico, sebbene fosse un chimico. Il 12 giugno 2022 si trovava in un avamposto simile a quello di Roman. Due razzi hanno colpito la casa in piena notte. Sono morti in quattro, mentre altri due sono riusciti a salvarsi, anche grazie a quei lacci emostatici che Natalya continua a comprare e spedire.
Ho quindi davanti a me una persona a cui l’aggressione russa ha tolto in un anno il fratello e la migliore amica. Ieri ero convinto di aver raggiunto la capienza massima di dolore altrui e per tutta la mattina sono rimasto inerte sul letto dell’Ibis, lasciandola traboccare, accettando l’inazione come una forma di rispetto per quanto avevo ascoltato. E invece è comparsa Natalya con tutte le sue perdite. Ascoltandola mi rendo conto che i russi non hanno solo minato ogni metro quadrato dei territori occupati: hanno minato la mente di ogni singola persona di questo Paese. Il numero dei lutti è tale da rendere impossibile elaborarli autonomamente, quindi vengono appoggiati a un’energia collettiva, al volontariato, al nazionalismo, alle canzoni patriottiche, al sarcasmo antirusso. E al pensiero di vincere la guerra come unico esito ammissibile.
Con un po’ di timore per la risposta, chiedo a Natalya quante persone vicine abbia perso fino a qui, il totale. Mi risponde che quando hanno superato le dieci ha smesso di contarle «per rimanere funzionale».
Stasera è previsto un reading di poesia. Ci andiamo direttamente dall’hotel Astoria, anzi siamo in ritardo. Entriamo nel palazzo Lubomirski e raggiungiamo la sala interna con il lucernario in ferro battuto. Sui tavoli del caffè ci sono dei codici QR per donare soldi che serviranno all’acquisto di un pick-up per l’esercito.
Alcune poesie sono state messe in musica da Victor Morozov, che è qui in visita dagli Stati Uniti. Tra le prime ne viene cantata proprio una di Artur, Artur che si trova da qualche parte vicino a Lyman, a fronteggiare centomila nemici. Un anno e mezzo fa, prima dell’invasione, avrebbe immaginato di essere applaudito da un pubblico di duecento persone in sua assenza?
Viene cantata una poesia di Kateryna, poi lei stessa sale sul palco e ne legge un’altra, la legge dall’iPhone, senza musica, nel silenzio. Sashko è arrivato in tempo per sentirla, ha portato con sé il loro figlio più piccolo. Guardandoli a turno mi trovo a pensare che nemmeno avendola cercata, nemmeno costruendola sarebbe venuta fuori una conclusione così perfetta per questo viaggio, per questo racconto che è solo un segmento insignificante di un racconto sconfinato.
La sala piena di gente, le parole di Artur, Kateryna che legge davanti al marito e al figlio, e ancora Kateryna che legge una poesia di Victoria Amelina, la presenza viva di Victoria che pervade la sala; poi il pubblico che canta Oh My Dear Ukraine e l’applauso finale; tutto che assomiglia alla pace ma che pace non è perché la guerra è in ogni verso, in ogni espressione, e qui, nel patio alla francese, sono presenti Mariupol Kherson Bucha New York Zaporizhzhia Nikopol – tutta la mappa del dolore di questo avamposto d’Europa. Sarebbe una conclusione perfetta, mi dico, cinematografica, il finale di un racconto di finzione che non sarei stato in grado immaginare.
Se solo si trattasse di immaginare. Se solo questo fosse un racconto di finzione. E se ne fosse questa, davvero, la fine.