la Repubblica, 15 agosto 2023
Cronaca della fine del fascismo (8)
Senza le istituzioni in campo, Roma è il teatro della prima battaglia spontanea della Resistenza, con reparti dell’esercito regio fianco a fianco con i civili per sbarrare la strada all’occupazione nazista della capitale. È battaglia sulle mura di Porta San Paolo, nelle strade coi tram rovesciati per fermare l’invasore, in una disparità di forze che infine vedrà entrare in città i blindati del maresciallo Kesselring, dopo aver visto la popolazione pronta a combattere contro i tedeschi: i civili morti sono quattrocento.La Germania comunica che dopo la rottura dell’Asse «le forze armate tedesche hanno assunto la protezione del suolo italiano»: Roma è “città aperta”, ma i nazisti hanno occupato la sede dell’Eiar, l’ente radiofonico, l’ambasciata tedesca e la centrale dei telefoni. Le caserme si svuotano, perché nel caos improvviso i soldati vengono smobilitati, così come i funzionari statali, mandati a casa. Dai vertici della polizia e dei carabinieri, il prefetto Senise e il generale Cerica si comunicano il senso di vuoto dei comandi e dei ministeri, dove si muovono da padroni gli ufficiali tedeschi: «Speriamo che san Gennaro ci protegga«È proprio il caso di affidarci a lui».Santi a parte, nessuno governa più niente, il Paese è in strada, tra il suono delle campane. Ma già nella notte dell’armistizio i tedeschi prendono possesso della stazione di Civitavecchia, a La Spezia i marinai dell’Arsenale vengono messi in libertà, a Torino i partiti antifascisti parlano alla folla in un primo grande comizio in piazza della Cittadella, a Caraglio il generale Vercellino, comandante della IV Armata, si presenta già in borghese ai suoi uomini per dare ai reparti l’ordine di sciogliersi, mentre a Cuneo i carrarmati del Reich occupano piazza Vittorio Emanuele II e sfilano tra canti e spari le autoblinda in colonna. Sorvegliati dalle SS, passano treni di prigionieri italiani deportati, umiliati nella disfatta. È il collasso, che porterà al crimine di guerra nazista a Cefalonia, col massacro dopo la resa di cinquemila uomini della divisione Acqui che avevano combattuto rifiutando di essere disarmati dai tedeschi. Il sistema è saltato: «Basta la divisione corazzata tedesca che sta a pochi chilometri da Roma», avverte il ministro degli Esteri Guariglia parlando con Alberto Pirelli, «per prendere la città, e arrestare il re».Mussolini è ripartito stamane per la “Tana del lupo”, controvoglia. Il Führer lo attende. Ma prima il Duce può abbracciare Edda: finalmente. Tutta la famiglia è in Germania, Edda e Galeazzo avevano chiesto aiuto proprio ai tedeschi per scappare a Madrid, ma la manovra organizzata da Hitler contro il genero traditore del fascismo li aveva portati a Monaco, teoricamente liberi, in realtà guardati a vista dai nazisti, in attesa della resa definitiva dei conti. Edda è già andata inutilmente a implorare il Führer perché consenta al marito di andarsene, adesso rovescia sul padre tutte le speranze di una soluzione per il suo incubo familiare. Gli chiede di parlare con Galeazzo, lo prega, lo minaccia, urla. Mussolini non è pronto, deve riflettere sulla gravità del tradimento, e prima di tutto deve andare a Rastenburg da Hitler. Parte alle undici: ad attenderlo al quartier generale c’è il figlio Vittorio, col Führer. Entrambi vanno incontro a un uomo vecchio, magro, pallido, dall’aria malata, come lo aveva già visto il capitano Skorzeny appena atterrato al Gran Sasso.Il Duce è arrivato alla “Tana del lupo” deciso a chiedere a Hitler di rimandarlo alla Rocca delle Caminate, pensa solo a riposarsi, non vuole tornare in prima linea, teme addirittura che il suo mal di stomaco sia diventato un cancro. Ma non ha fatto i conti con il piano preparato da Hitler, che ha bisogno di lui. Per il Führer non c’è un minuto di tempo da perdere. «Già domani è indispensabile che voi annunciate alla radio che la monarchia è deposta e sorge la Repubblica fascista italiana con tutti i poteri accentrati in voi». Fascista no, ha la forza di obiettare subito Mussolini, meglio Repubblica sociale italiana: «Il fascismo è superato». Si sente precettato, chiede qualche giorno per riflettere, ma il Führer ha già riflettuto per lui. «Annunciando la costituzione dello Stato fascista italiano, ve ne proclamerete Duce. Sarete così, come lo sono io, Capo dello Stato e Capo del nuovo governo, che deve nascere entro una settimana». Il Duce prova a convincere Hitler, ma capisce presto che la sua presenza è indispensabile alla strategia tedesca. «Sarò molto chiaro» gli dice il Führer, «se gli Alleati avessero saputo sfruttarlo, il tradimento italiano avrebbe potuto provocare il crollo della Germania. Se il vostro salvataggio non fosse riuscito, la mia vendetta sarebbe stata inesorabile, con la distruzione totale di Milano, Genova, Torino. Ora se voi mi deludete, darò l’ordine che quel piano venga eseguito: in tal caso il conte Ciano non vi verrà consegnato ma sarà impiccato qui, in Germania». Mussolini china il capo, e ubbidisce. Hitler lo ha liberato, e lo ha fatto prigioniero delle sue volontà.L’infragilirsi progressivo dell’immagine del sovrano sta diventando un problema politico per il governo, per i partiti, per gli Alleati. Tutti percepiscono che il corpo mistico del re sta svanendo, lasciando sul terreno la sua figura spoglia, disarmata, esposta. Il 24 ottobre, scavalcando l’invito del duca d’Acquarone a non sfiorare l’argomento, Badoglio scrive a penna una lunga lettera a Vittorio Emanuele, “riservatissima”. È il segno che la Corona precipita. «Maestà, i nuovi partiti hanno questi intendimenti precisi: assumere essi stessi il governo; abdicazione di Vostra Maestà e rinuncia di Sua Altezza Realeil Principe di Piemonte a salire sul trono; elevazione a re del figlio di Sua Altezza Reale con un reggente. Aggiungo ancora, per non tacere nulla a Vostra Maestà, che è loro intenzione che sia io ad assumere la carica di reggente. La questione così formulata è a mio avviso di una gravità eccezionale. Confesso, Maestà, che per quanto io mi affatichi non ho ancora trovato una via d’uscita. Come Vostra Maestà sa da molto tempo, io sono devotamente affezionato sia a V ostra Maestà sia all’istituto monarchico, e attendo gli ordini. Quanto sopra io ho scritto con un dolore grandissimo, ma convinto di compiere il mio dovere».Dal giorno in cui fa recapitare al Quirinale quella missiva, il Maresciallo vede complicarsi il rapporto col monarca, diffidente e critico verso il suo Capo di governo. Il quale ripete sempre più spesso che «se uno ha la disgrazia di nascere re, deve portare il cilicio sino in fondo». Si sta consumando la prima fase di transizione, dopo la fine della dittatura, e logora i suoi attori. Quando rientrerà a Roma, dopo nove mesi, Badoglio in casa tra tanti cimeli non troverà più il suo bastone da Maresciallo.Tre giorni con Hitler, poi il ritorno di Mussolini a Monaco, dove la sera nel salone del Prinz-Carl-Palais si proietta il filmato del prelevamento tedesco del Duce al Gran Sasso. I soldati montano in fretta uno studio per lui al pianterreno, con una scrivania dove può scrivere il suo primo discorso dopo la caduta, come al solito con una matita rossa. In quella stessa stanza registra il suo appello per Radio Monaco, col quale prova a rientrare nel ruolo di protagonista, che psicologicamente aveva già abbandonato. La radio ha appena annunciato che è nata la Repubblica sociale, Pavolini è il segretario del nuovo Partito fascista repubblicano guidato da Mussolini. Rachele lo trova affaticato, percepisce l’ansia di Vittorio che misura il dimagrimento del padre dentro i vestiti scuri borghesi, un incurvarsi che non c’era, qualcosa come un’ombra sul volto. Si chiede se si riaccenderà mai quella scintilla che lei conosceva bene, e si siede in un angolo della stanza, davanti a lui, mentre comincia la registrazione, con l’annuncio tra le scariche elettriche: «Il Duce parla agli italiani».Il tono è cambiato, ora sembra gravato dalla fatica, reso opaco dal traumadella deposizione. Mussolini fissa la moglie tra una frase e l’altra, scopre una persona fisica di fronte a sé, e poco per volta riprende la scansione solenne, l’enfasi eroica, le pause teatrali: zCamicie nere, italiani e italiane, dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili e ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria». Quella voce parla dell’arresto, dell’ambulanza, della prigionia e della liberazione con gli alianti tedeschi. Poi affronta «la spaventosa tragedia in cui il governo democratico, liberale, costituzionale del 25 luglio ha gettato l’intera nazione». Il bersaglio è il re: «È Casa Savoia che ha voluto preparare il colpo di Stato, complice ed esecutore Badoglio, con taluni generali imbelli e imboscati e taluni invigliacchiti elementi del fascismo». Dunque «non è il regime che ha tradito la monarchia, ma è la monarchia che ha tradito il regime. Il nuovo Stato riprenderà le armi a fianco della Germania perché solo il sangue può cancellare una pagina così obbrobriosa». Infine l’appello: «La nostra volontà, il nostro coraggio, la nostra fede ridaranno all’Italia il suo volto, il suo avvenire e il suo posto nel mondo». Poi, un po’ in affanno dopo una pausa troppo lunga, tornano le note diMa l’Italia non aveva ancora visto l’intero volto di quel 1943. È Shabbat, il 16 ottobre, quando cento SS penetrano nel Ghetto di Roma alle cinque del mattino, entrano nelle case, dicono agli ebrei che bisogna partire per un campo di lavoro entro venti minuti, portando cibo per otto giorni, soldi e gioielli. Hanno in mano i fogli con nomi e cognomi, gli indirizzi presi dai registri del Comune, perché la persecuzione comincia sempre dalla classificazione, dalla selezione, dalla lista, figlia delle leggi razziali del ’38. L’intero Ghetto deve svuotarsi, tutti devono salire sui camion tedeschi, anche i vecchi, anche i bambini. Si aprono le porte di diciotto carri bestiame sui binari della stazione Tiburtina e 1024 cittadini ebrei partono per Auschwitz. Torneranno in sedici, tra cui una sola donna, Settimia Spizzichino, numero 66210. Dei duecentootto bambini deportati non ritorna nessuno.L’orrore, la paura, l’ostilità verso i tedeschi, la fuga dal “richiamo” nelle milizie mussoliniane, lo sbandamento dei reparti, portano molti giovani a rifugiarsi sulle montagne al Nord, dove trovano drappelli militari di alpini con i loro ufficiali e le armi, pronti a combattere contro i nazisti. La Resistenza nasce così, spontaneamente, dalla scelta di operai, studenti, borghesi, soldati, intellettuali: come l’avvocato di 37 anni Tancredi “Duccio” Galimberti, che già il 26 luglio parla dal balcone del suo studio alla cittadinanza di Cuneo, seminando lo spirito della liberazione: «La guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana, ma non si accoda a una oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare se stessa». E l’azionista Galimberti con Dante Livio Bianco sarà tra i primi a risalire le vallate cuneesi per combattere, mentre a Cavour nasce un’altra banda partigiana con ottanta uomini, guidati dal tenente Pompeo Colajanni. A Boves, dove in uno scontro armato con una pattuglia partigiana un soldato tedesco era stato ucciso, un altro ferito, e due portati via, scatta la rappresaglia: le SS incendiano 350 case con benzina e lanciafiamme, uccidendo venticinque persone, con i cadaveri esposti per ventiquattro ore.Mussolini ha una settimana di tempo per mettere in piedi un governo. Manda Pavolini a insediare il partito a Palazzo Wedekind a Roma, incontra gli ex gerarchi presenti in Germania, a partire da Farinacci, ritrova il suo segretario De Cesare, imbarca Buffarini Guidi agli Interni, il presidente del Tribunale Speciale Tringali Casanova allaGiustizia, accetta Rodolfo Graziani alla Difesa, scelto da Hitler. Capisce che la nascita di una Repubblica contrapposta al Regno sullo stesso territorio nazionale, con la riproposizione di un fascismo anticapitalista contro le democrazie, scatenerà una vera e propria guerra civile, che è anche ideologica. Ma accetta di costruire a tavolino questa finzione di Stato sotto il protettorato tedesco, con la resurrezione della sua leadership. Anzi, qualcosa di più, la perennità del mussolinismo come un’obbligazione di destino, mentre il Paese fa il conto delle devastazioni, dei lutti, delle distruzioni.Il Duce sembra costretto a misurarsi con la sproporzione della fase, tentando di dominare gli eventi ormai tutti contrari. Gli abusi su cui si era basato il regime, adesso presentano il conto a lui, con un’interpellanza intima. Che riguarda Edda, la figlia, dunque il suo ruolo di padre, qualcosa di personale, privato: che incrocia il suo status di Duce, tutt’altra cosa, totalmente esposta al giudizio collettivo. Le due dimensioni cozzano e si contraddicono attorno alla sorte di Galeazzo Ciano, il marito di Edda. Era il delfino di Mussolini, ma gli ha votato contro in Gran Consiglio, trascinando gli indecisi con la sua sfiducia familiare. Dopo l’arresto del Duce e la caduta del regime si chiude in casa per un mese, disperato porge a Edda una pistola avvolta in un fazzoletto, chiedendole di aiutarlo a morire: poi cade nella trappola delle SS, che lo imbarcano per Madrid ma lo sbarcano in Germania. Adesso per l’ultima bizzarria del suo destino è qui, in una villa sul lago vicino a Monaco, a due passi dal Duce.Quando Mussolini torna dalla “Tana del lupo” Edda entra da sola nell’appartamento al Prinz-Carl-Palais e Rachele se la trova davanti scarmigliata, la voce roca, divorata dall’ansia, febbricitante, irriconoscibile. Vuole parlare a suo padre, lui non può più rifiutarsi, è l’ultima carta per liberare Ciano dalla minaccia di morte che lo insegue ovunque, e lei vuole giocarla fino in fondo. Deve contrastare quella minaccia estrema, nient’altro conta adesso, nemmeno il fatto che lei e Galeazzo vivano praticamente separati da quattro anni. Chiede un incontro affinché Ciano possa spiegarsi col Duce, lo ottiene. I due si vedono per la prima volta dopo la notte del Gran Consiglio, alla presenza delle due mogli: furiosa, implorante e ostinata nei confronti di suo padre Edda, mentre Rachele è gelida, implacabile e lontana nei riguardi del genero. È un incontro drammatico, Ciano attacca Badoglio, spiega che non voleva sfiduciare il Duce ma solo liberarlo dal peso del comando militare. Mussolini lo ascolta, però non accorda il perdono. Ma Ciano torna altre due volte dal suocero, a tu per tu, si scusa anche in un lungo incontro con Rachele, e senza sapere cosa deciderà il futuro la sera si trovano tutti insieme a cena nella nuova residenza al castello di Hirschberg, allestita dai nazisti che servono a tavola porgendo il piatto da portata con l’oca alle mele – all’ospite vestito di chiaro alla destra del Duce.È Galeazzo, come sempre affascinante e indisponente, elegante nelle forme e trascurato nella sostanza, bigotto e voluttuoso, coraggioso o forse solo incosciente negli ultimi passi che l’hanno portato fin qui: alle tre cene col Duce fra le corna di cervo appese alle pareti, convinto ogni volta di più che il sentimentalismo affettivo del costume italiano assorbirà e assolverà ogni cosa, nella confidenza ritrovata della grande famiglia davanti al camino. Edda osserva e ascolta, inquieta e ansiosa tra il fumo perpetuo della sigaretta. I tre ragazzi Ciano, Fabrizio, Raimondo e Marzio, passano qualche giorno nel castello coi nonni, tutto sembra ricomporsi.Ma il padrone è Hitler, e Mussolini è consapevole che la sua è una sovranità limitata. Scruta Edda nell’ipocrisia familiare di quelle cene, sa che dovràrendere conto in primo luogo a lei delle sue decisioni, ma è consapevole che i sentimenti non decidono: è vincolato. Goebbels era stato chiaro: «Il Duce entrerà nella storia come l’ultimo romano, ma dietro la sua potente figura un popolo di zingari terminerà di imputridiresi era concentrato su Ciano: «Ha tradito la Patria, il fascismo, l’alleanza con la Germania, la sua famiglia. Quattro volte traditore: se io fossi al posto vostro niente mi tratterrebbe dal fare giustizia con le mie stesse mani. Ma ve lo concedo, è preferibile che la condanna a morte sia eseguita in Italia». E infatti, appena i tedeschi permettono a Ciano di tornare in Italia, viene arrestato e tradotto nel carcere di Verona.Adesso anche il Duce può tornare in Italia, con 15.000 lire in tasca e una camicia nera presa dall’armadio di Anfuso. Il suo mal di stomaco resiste anche al professor Georg Zachariae, inviato da Hitler in Italia, mentre il dottor Baldini lo cura per la depressione che gli toglie la voglia di vivere: e il figlio Romano lo scopre sempre più spesso assente, senza desideri e senza più sogni, sfuocato. Presiede il primo Consiglio dei ministri alla Rocca delle Caminate, dove arriverà poi anche Rachele sulla Mercedes nera di Hitler che ha voluto farla accompagnare con la sua auto, e i soldati tedeschi scattano sull’attenti quando la vedono passare. Poi il Duce porta il suo quartier generale a Gargnano, Villa Feltrinelli, affittata a 8000 lire al mese. È qui che il 18 dicembre si precipita Edda, che ha appena visitato Galeazzo in carcere. Ha un nuovo colloquio disperato col padre. Piangono entrambi, lei di rabbia dopo che Mussolini le ha spiegato che a questo punto non è più possibile separare Ciano dagli altri imputati, lui per le accuse che Edda gli scaglia addosso.Ma la figlia del Duce crede di avere un’arma di scambio: sono i diari di Galeazzo, le note quotidiane che il genero di Mussolini scriveva a mano «a pezzi e bocconi, tra un’udienza e una telefonata» dall’agosto 1937 al febbraio 1943. I tedeschi li vogliono per leggere i segreti del Quirinale, la strategia antipatizzante di Ciano nei confronti della Germania, i pensieri riservati e sinceri del Duce. Edda è andata a riprenderseli scavando nella tenuta dello zio di Galeazzo che li aveva sepolti sotto un albero, non li trova, poi ricompensa uncontadino che glieli consegna. Adesso prova a trattare, sembra aprirsi uno spiraglio ma Himmler lo richiude, non c’è più tempo. Nell’ultimo incontro in carcere, Galeazzo la convince a rifugiarsi in Svizzera. Ma lei scrive ancora a Hitler, inutilmente: e poi un’ultima lettera a suo padre. È un messaggio violento.Tutti, in Italia e in Germania, sorvegliano le mosse del Duce per misurare la cifra di autonomia e di ferocia del nuovo regime che nasce divorando se stesso, in un battesimo di tragedia. Non riuscendo a ottenere pietà da suo padre, Edda chiede legalità al Duce, in un messaggio in cui tutti gli accenti familiari sono scomparsi, come se ormai lei e Mussolini fossero due estranei: «Duce, da due mesi mio marito è in una cella e gli si vieta il conforto delle due ore d’aria assicurate anche ai peggiori delinquenti. Ho avuto un colloquio con lui ma a tre metri di distanza e alla presenza di tre persone. Qui c’è una moglie, Duce, la quale reclama che al proprio marito siano salvaguardati i diritti sacri per qualsiasi detenutoIl governo nato il 25 luglio è già sorpassato dalla furia del 1943. L’uomo di Churchill nel Mediterraneo, Harold Macmillan, osserva i nuovi leader politici nati dal crollo del fascismo. «Sembrano piccoli politicanti di provincia», dice, «sono quasi tutti avvocati». Ma quegli avvocati hanno resistito alla dittatura, si sono organizzati in clandestinità, sono andati in esilio e ora dopo ventun anni fanno politica: adesso hanno premura, attaccano frontalmente Vittorio Emanuele III, ma anche Badoglio e il suo governo. Il Maresciallo cambia tono: «Italiani, voi avete assolutamente il dovere di battervi a fianco degli inglesi e degli americani contro i tedeschi e contro pochi italiani impazziti che si sono messi sotto il comando della Germania. La parola d’ordine oggi è una sola, fuori i tedeschi! Abbandonate le città, andate in campagna, tagliate le comunicazioni, fate saltare i ponti e i porti, e soprattutto combattete fino all’ultimo». Poi in Consiglio dei ministri delibera l’abolizione del “voi” e il ritorno del “lei”. Ma Galeazzo Ciano, fino all’ultimo, maledirà Il Duce con il “voi”.Durante i tre giorni del processo – tre giorni in tutto – le staffette informano il Duce di ogni passaggio, dalla stretta sorveglianza alla cella numero27 di Ciano, l’unica con due SS davanti alla porta, alla scena dei sei imputati catturati e portati in aula sui diciannove membri del Gran Consiglio accusati di alto tradimento, con De Bono che si tiene la testa tra le mani, Ciano chiuso nel suo trench chiaro di Caraceni, affondato sulla panca con lo sguardo fisso. Poi le ultime parole del pubblico accusatore Andrea Fortunato («Ho gettato le vostre teste alla storia d’Italia; fosse pure la mia, purché l’Italia viva»), la condanna a morte per tutti, salvo i trent’anni al pentito Cianetti che ritrattò subito il voto contro il Duce. Infine l’esecuzione al poligono di tiro di forte San Procolo, con trenta soldati che alle 9.30 dell’11 gennaio sparano alla schiena dei cinque condannati seduti a cavalcioni sulle sedie, le mani legate sul dorso, mentre il cappellano don Chiot prega a voce alta. Ciano è finito a revolverate, per portare a Hitler la notizia della sua morte con assoluta certezza.Mussolini si è fatto consegnare ogni giorno il verbale del dibattimento, ha letto il testamento di Ciano che accetta il suo destino «perché bisogna chinarsi di fronte alla volontà di Dio, preparandosi al giudizio supremo» e l’ultima lettera a Edda: «Se in vita ho potuto, a volte, esserti lontano, adesso sarò accanto a te, sempre». Conosce l’accusa che Galeazzo dalla cella rivolge proprio a lui, aspettando «una sentenza decisa da Mussolini, sotto l’influenza di quel circolo di prostitute e di lenoni che da qualche anno appesta l’Italia conducendola nel baratro». Il Duce non vede quei corpi sull’erba, il cielo basso, l’aria di neve: li immagina. Rachele dice che è stato sveglio tutta la notte con la porta della sua camera da letto chiusa e la luce accesa, nell’attesa che arrivasse la notizia dell’avvenuta esecuzione. All’alba aveva ancora chiamato Karl Wolf, il comandante delle SS in Italia, per sondarlo sul prezzo politico da pagare a Hitler in caso di un intervento di grazia in extremis. Tocca a voi decidere – è la risposta – certo non eseguire la condanna sarebbe un segno di debolezza.Così tutta la responsabilità pesa sulle spalle di Mussolini, che non trova nessuno con cui condividerla. «L’ho odiato mortalmente», spiegherà anni dopo Edda, che non lo rivedrà più, «mi aveva promesso due volte che avrebbe salvato Galeazzo. Poteva farsi uccidere piuttosto che far uccidere il padre dei suoi nipoti. Ora capisco che era un debole, senza carattere, un fantoccioin mani tedesche, crudele con me. E poi aveva qualcosa nell’animo che io non riesco a giudicare».Era tutto quell’accumulo funereo, quel culto sepolcrale del lutto come insegna e trofeo, quel sentimento di violenza, quel corteggiamento della morte “amica” di un uomo che viveva i suoi giorni da “defunto”. Era tutto quel nero rovesciato sull’Italia che ora il fascismo restituiva al Duce, anzi glielo portava in famiglia, nell’agonia macabra di Salò: l’ultima tragedia che non si sapeva come si sarebbe conclusa, e quando, ma che ha inizio proprio quel giorno d’inverno. Il Duce sa che è finito il fascismo, è scomparsa la dittatura, ha dovuto far morire anche il marito di sua figlia, un fantasma di cui non riesce a liberarsi. Adesso tocca a lui, vittima di se stesso e di ciò che ha creato. «Rachele, da quella mattina ho incominciato a morire anch’io».