Corriere della Sera, 15 agosto 2023
Indro Montanelli fustigatore della censura
Indro Montanelli diceva spesso che l’Italia è un Paese senza memoria. E aggiungeva che dopo la sua morte nessuno avrebbe più ricordato il suo nome. Mai profezia si rivelò più errata se a 22 anni dalla scomparsa del maggiore giornalista italiano del Novecento si continuano a stampare (e a vendere) i suoi scritti. Come la raccolta, a cura di Guendalina Sertorio e con introduzione di Marcello Veneziani, Contro ogni censura (Rizzoli, pagine 224, e 18). La nemesi che ha colpito l’arcinoto Montanelli non è stata l’oblio, semmai il tentativo di censura da parte delle sentinelle del politicamente corretto. Non passa anno che la statua ai giardini pubblici di Milano non venga dipinta per ricordare l’episodio della sposa bambina Destà o diversamente vandalizzata da ecologisti estremisti che credono di difendere l’ambiente sfregiando l’effigie di un giornalista che ha fatto storiche battaglie per Venezia e ha scritto pagine memorabili contro i palazzinari che hanno deturpato le nostre coste.
I censori, scriveva Indro, sono spesso ignoranti, essendo essi allevati in «quel sudario di conformismo, intessuto di abitudini, di pigrizia (…) e vaghe superstizioni».
Bene ha fatto dunque Guendalina Sertorio, dopo aver curato l’anno scorso il volume Se non mi capite l’imbecille sono io, a raccogliere gli scritti montanelliani sulla censura. Uno dei cavalli di battaglia del giornalista di Fucecchio, come dimostra un articolo sul «Tempo illustrato» del 1943 in cui con lo pseudonimo di Calandrino viene presentata ai lettori italiani la figura di Joseph I. Breen, il censore della celluloide americana stipendiato dalle majors che stabiliva come far rispettare il comune senso del pudore.
Montanelli riteneva la censura talvolta un male necessario, quando si trattava di difendere obiettivi militari dall’occhio del nemico. Ma per il resto il giudizio e il controllo non spettava alla politica né a un anonimo burocrate. Sia che si trattasse di opere d’arte sia di opere commerciali. Perché l’arte, se è davvero tale, sublima ogni volgarità. E la pornografia può essere combattuta soltanto dallo spettatore o dal lettore. In alcune pagine acute Montanelli dice che la bava alla bocca del regista che vuol far cassetta è la stessa del censore e dello spettatore che cerca le ambiguità e il cochon.
Montanelli ha dato il meglio negli articoli in difesa della Dolce vita di Federico Fellini, il cui genio viene paragonato a quello del grande Francisco Goya. Non si può condannare Fellini perché ha descritto magistralmente i vizi della società romana: sarebbe come censurare Tacito perché condannò la decadenza dell’Urbe ed elogiò le virtù dei barbari. Il giornalista difese in egual misura Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, anche se non ne condivideva spesso le scelte artistiche, o lo spettacolo teatrale L’Arialda, tratto dal testo di Giovanni Testori. Attaccava i vari ministri e sottosegretari, Giulio Andreotti («i panni sporchi si lavano in casa») o Umberto Tupini, che leggeva in Parlamento brani di sceneggiature discusse, e nello stesso tempo puntava il dito contro un sistema che permetteva la censura anche quando gli organi di controllo romani davano il visto. Qualsiasi magistrato poteva mettere in discussione la decisione centrale e far sequestrare l’opera. Il volume contiene anche scritti di Montanelli sulla Rai e pagine autobiografiche: sul fascismo, sulle censure subite da vivo. Quando lasciò il «Corriere» o quando dal «Giornale» passò alla «Voce».