Corriere della Sera, 15 agosto 2023
Intervista a Michel Platini
Michel Platini, la intervisto il 10 agosto alle ore 10. Cosa significa quel numero sulle spalle di un giocatore di calcio?
«Quel numero ha quella magia perché identificava, fin dall’inizio della storia del calcio, tutti i più forti: Puskas, Pelè, Rivera. I leader delle squadre, tecnici e carismatici, avevano quel numero. Nel sogno dei bambini della nostra epoca c’erano due stelle: il numero dieci e il portiere, ruoli totalmente differenti. Ho passato il mio tempo a cercare di fregarli, i portieri, per cui non posso capire l’amore per quel ruolo. Ma la gente gli voleva bene...».
I numeri dieci non sono tutti uguali...
«C’è il numero dieci europeo, che era più un regista, e quello sudamericano che giocava più avanti, quasi da seconda punta. Più un nove e mezzo che un dieci, un secondo attaccante. Zidane, io, Rivera, Puskas eravamo più organizzatori di gioco, anche se abbiamo fatti tanti gol...».
Lei è nato in Rue de Saint Exupéry. È solo una coincidenza ma certo magnifica, a proposito di leggerezza...
«Più che un valore, per me la leggerezza è stato un sentimento. Direi un sentimento francese. Quando sono arrivato in Italia ho capito che voi siete matti per il pallone, non parlate d’altro dalla mattina alla sera. In Francia era semplicemente un gioco, si faceva in allegria. Non c’erano tifosi, ma spettatori. La Francia non aveva mai vinto nulla, forse per questo. Per cui io non capivo tutta la pressione che c’era da voi. In Italia il calcio è complicato per sei giorni su sette, poi finalmente arriva la partita. In quel momento nessuno ti rompe le scatole con le polemiche e le indiscrezioni. Quella, quella sola è la verità del calcio. I novanta minuti sono bellissimi. Il resto no».
Secondo me hanno contato anche le sue radici italiane, l’odore del sugo preparato a Joeuf da sua nonna...
«Sì, era un momento magico per me. Andavo a scuola, poi giocavo a pallone, tornavo a casa per fare i compiti e quindi mi addormentavo. Mi svegliavo con quell’odore meraviglioso di sugo di pomodoro che annunciava il piatto di pasta. Lo mangiavamo mercoledì, giovedì, sabato e domenica perché il mio papà era allenatore, in quei giorni arrivava tardi e mia nonna gli preparava quel piatto speciale il cui profumo riempiva la casa. Ancora oggi cerco la pasta col pomodoro anche se ieri sera, a Cassis dove abito, ho mangiato una buonissima cacio e pepe».
Suo nonno muratore emigrato dall’Italia, suo padre professore di matematica, lei campione di calcio. Sembra la storia sociale del novecento in una sola famiglia...
«Mio nonno è arrivato in Francia negli anni Venti. Non ne so tanto, in verità. Ho il rimpianto di non aver ricostruito fino in fondo la nostra storia. Loro non ne parlavano volentieri. C’era stata la Prima guerra mondiale, poi la Seconda. Non era facile in quel periodo essere italiani in Francia. I miei genitori, figli di italiani, non parlavano la vostra lingua, quella dei miei nonni. La mia mamma lavorava nel Cafè des Sportifs, mio padre insegnava e allenava i ragazzi, per cui non abbiamo mai avuto quei bei pranzi tutti insieme in cui ci si racconta le storie di famiglia. I miei nonni non hanno mai parlato della loro vita, mai».
Il suo rapporto con l’Avvocato...
«Non era certo un amico, non era una persona con cui mi prendevo a pacche sulle spalle, aveva tanti anni più di me e la sua indiscutibile autorevolezza. Io direi così: ho reso orgoglioso l’Avvocato. È lui che mi ha voluto. Credo pensasse, tra sé, che era stato lui, non Boniperti o altri, a scegliermi e ciò che avevo fatto era la conferma che lui capiva di calcio e quindi nessuno poteva rompergli le scatole sul tema. Lui mi ha consentito di avere la massima libertà, in campo e fuori. Sì, credo di averlo reso orgoglioso. E questo fa felice me».
Tardelli mi ha raccontato di aver saputo della morte di Paolo Rossi al mattino da una sua telefonata.
«È vero, ho chiamato Marco, Antonio Cabrini, Zibi Boniek. Avevo visto Paolo poco tempo prima a Forte dei Marmi e non mi era sembrato che stesse male. È stata una terribile sorpresa, un autentico choc. Paolo era davvero una brava, bella persona. Lui non era matto di calcio, con lui si poteva parlare di tutto. Io gli rubavo le sigarette, lui si arrabbiava moltissimo. Sono stati anni speciali, ci siamo divertiti tanto e abbiamo vinto tanto. Giocavo non solo con grandi calciatori, ma con uomini speciali, molti dei quali sono restati miei amici. E quel mattino ci siamo ritrovati ancora insieme, per condividere l’assurdità della scomparsa di Paolo».
Che ricordo ha dell’Heysel?
«Brutto, bruttissimo. Un bruttissimo ricordo. I momenti successivi alla partita sono stati tremendi. Sono andato con Gaetano Scirea due giorni dopo a visitare i feriti all’ospedale di Bruxelles. È stata una cosa bruttissima. Quando pensi che delle persone erano venute fin lì per vederti e non sono più tornate a casa, dalla propria famiglia... Io non mi sono quasi mai espresso su quel giorno, non mi piace parlare del dolore altrui, ma è stato davvero terribile. Mia madre, che era molto cattolica, mi ha sempre parlato della fatalità come di un arbitro dell’esistenza di ciascuno. E per me è stato così, sempre. La morte fa parte della vita, lo so. E so che bisogna sempre rialzarsi e ripartire. Queste sono le cose che mi hanno insegnato, che ho nella mia testa dura di piemontese della Lorraine. Ho fatto così, anche in quei giorni orribili che porto sempre con me».
Quanto ha sofferto per la vicenda che l’ha riguardata per gli scandali Fifa e che si è conclusa con la sentenza a suo favore del Tribunale svizzero?
«Io niente, sapevo di non avere nulla da rimproverarmi, ho sempre fatto tutto correttamente. Ho visto la sofferenza della mia famiglia e delle persone che mi sono vicine. La battaglia che ho condotto era contro l’ingiustizia. L’obiettivo di quella campagna era di farmi fuori dalla Fifa. Mi hanno messo sotto accusa le commissioni della Fifa che gestiscono “loro”. Appena si è usciti dal mondo dei funzionari del calcio, che volevano impedirmi di diventare presidente, la giustizia ordinaria mi ha dato ragione. E per me, ovviamente, conta quello. Fuori dagli apparati del calcio ho vinto, dentro ho perso. Per questo non mollerò, è stata un’ingiustizia. C’è gente che mi ha fatto del male, molto. Non mi interessa tanto dell’universo Fifa. Per Infantino, Ceferin quel mondo è tutto perché non hanno vissuto niente prima e, fuori da lì, sono nessuno. Non hanno mai giocato al calcio. Loro, come Blatter, sono diventati importanti là, dentro quei palazzi, e sono importanti solo là. Ho sofferto per dieci giorni, mi sono battuto per difendermi ma poi ho presto capito che la verità era solo che volevano farmi fuori, e basta».
Per paradosso lei sarebbe stato, nella storia della Fifa, l’unico giocatore di calcio a diventare presidente. Era una colpa?
«Non so se fosse una colpa, certo è che l’amministrazione della Fifa si è schierata contro di me. I presidenti delle federazioni nazionali mi volevano presidente, gli apparati della Fifa no. Si può capire perché. E hanno cercato qualcosa per bloccarmi. Hanno trovato un pagamento fatto cinque anni prima e qui è l’ironia della cosa: la Fifa prima mi paga per il mio lavoro e poi mi punisce per avermi pagato. Assurdo, questo è il massimo. Il calcio mi voleva, la politica del calcio no».
Cosa pensa di questo spostamento dell’asse del calcio verso il mondo arabo?
«I calciatori, i migliori calciatori, sono come uccelli che migrano cercando i luoghi dove vivere meglio. E dove sono attesi dalla gente e quindi ci sono più soldi. Io sono venuto in Italia, all’inizio degli anni Ottanta, perché era il Paese che pagava di più, era il cuore del calcio mondiale. Maradona, Falcao, Zico giocavano qui. Erano gli anni di Mantovani, di Berlusconi, dell’Avvocato, gli azzurri avevano vinto il campionato del mondo, l’economia andava bene, il terrorismo stava finendo. Si sentiva un’aria di ripresa, di entusiasmo nella società italiana. E quindi anche nel calcio. Oggi i calciatori vanno dove gli danno più soldi. Io credo che ci sia stato un errore della Commissione Europea nello sposare integralmente la Bosman senza un disegno complessivo per lo sport europeo. Ora i ricchi possono comprare chi vogliono. E quei Paesi sono ricchi, molto ricchi».
Ma questo sistema regge? Le società calcistiche, non solo in Italia, sono piene di debiti...
«Il sistema è fatto per produrre debiti. Il sistema è: tanti soldi arrivano e tante persone li prendono. Il meccanismo dei trasferimenti è questo. Tu prendi dei calciatori sperando che due anni prima della scadenza del contratto vengano venduti per fare soldi. Io negli anni Settanta ho fatto sciopero per consentire ai calciatori di scegliere loro, a fine contratto, dove andare a giocare. Sono andato al Saint Etienne quando ero libero e lo stesso alla Juve. Deve essere il calciatore a scegliere, è la sua vita. Poi attorno al mondo del calcio c’è tanta gente... Dove circolano tanti soldi arrivano quelli a cui i soldi piacciono tanto, troppo».
I procuratori sono parte della malattia del calcio moderno?
«Non penso, no. I procuratori finalmente difendono i calciatori che si sono fatti fregare per tanti anni».
Cosa è stata la sconfitta di quella fantastica Juventus nella finale di Coppa dei Campioni del 1983 ad Atene contro l’Amburgo?
«Boniek mi dice sempre che se avessimo vinto quella partita avremmo conquistato la Coppa dei campioni per quattro anni di fila. E ha ragione. Era una finale, partita unica, complicatissima. Se i pianeti si allineano male. È successo, purtroppo. Ma è anche la bellezza del calcio. In quel periodo tutti potevano vincere e tutti potevano perdere. Oggi no. Oggi tre o quattro squadre vincono sempre scudetti e coppe perché hanno più soldi e quindi migliori giocatori».
C’è un giocatore che le piaccia, oggi?
«Ora il calcio è differente dal nostro. Si gioca meglio perché i giocatori oggi sono molto più preparati di un tempo. Noi, a diciassette anni, eravamo per strada, ora hanno già quattro anni di scuola calcio. I difensori di oggi sono migliori, giocano a pallone, non picchiano più, non possono più picchiare. Messi, Neymar, Haaland, Mbappè sono grandi calciatori».
Tolto Messi nessuno è un numero dieci.
«Il numero dieci non esiste più. Ora è il portiere o il difensore centrale il regista, quello che organizza il gioco».
C’è un giocatore della storia del calcio a cui vorrebbe fare un assist, qualcuno che vorrebbe rendere felice?
«Nei miei sogni di ragazzo c’era Johan Cruijff. Lui giocava in quel modo meraviglioso in un tempo in cui era molto difficile farlo. Se facevi un dribbling, allora, era possibile che ti ritrovassi all’ospedale. I difensori usavano il tackle da dietro, cattivissimo, e tempo per inventare calcio ce n’era poco. Ho giocato per la sua partita d’addio, Barcellona contro il Resto d’Europa. È stato bellissimo. Era il mio sogno, quando avevo quindici anni».
Se lei potesse, per magia, telefonare a Michel bambino, che consiglio per la vita gli darebbe?
«Bella domanda, questa. Gli direi la stessa cosa che mi dissero i miei genitori: “Divertiti. Divertiti nel calcio. Il calcio è divertimento”. Sono riuscito ad arrivare dove sono arrivato perché ho vissuto il calcio così. Io lo dico sempre ai bambini: divertitevi e se sarete bravi, se mostrerete talento, le cose verranno da loro. Invece oggi vogliono prima diventare calciatori professionisti e poi toccare la palla. In Francia, ai miei tempi, non sapevamo neanche che esistesse il calcio professionistico. Questo direi a Michel piccolo: “Divertiti! E se un giorno arriva Boniperti, firma con la Juve”».
Una persona come lei in questo momento non ha ruoli nel calcio. C’è una prospettiva?
«Per ora no. Ho già fatto tutto. Sono stato calciatore, allenatore, dirigente. E dunque bisognerebbe ci fosse un progetto interessante, nuovo, strano, davvero rivoluzionario. Oggi ho 68 anni, sono segnato da quarant’anni di pressione, di costante esposizione. Mi hanno fatto diverse proposte, ma ho sempre rifiutato. Ora sto godendo la mia vita».
Farebbe, per esempio, il Presidente della Juventus?
«Nessuno me lo ha mai chiesto...».
Un’ultima cosa, Michel. Quell’immagine a Tokyo, lei sdraiato, sul prato verde, appoggiato su un gomito, che guarda uno sciagurato arbitro che le ha annullato uno dei gol più belli che si possano immaginare nella finale della Coppa intercontinentale tra Juventus e Argentinos Juniors...
«Tokyo era il punto di arrivo di una generazione di giocatori che avevano vissuto insieme anni bellissimi. Avevamo vinto tutto e ci mancava solo di conquistare la Coppa del mondo per club. Quel giorno c’era a Tokyo anche il figlio dell’Avvocato, Edoardo. Era una partita decisiva. Arriva un arbitro che mi annulla quel gol. Quel gol: palla fatta passare sulla testa del difensore e tiro al volo nell’angolo. L’avrei ammazzato. Quel gesto era un atto di disperazione. Che faccio: gli vado addosso, gli rifilo due sberle, lo ammazzo, lo strangolo? Mi faccio espellere e lascio la squadra in dieci? Ma come, mi annulli un gol così, nella finale della Coppa del mondo? Sono quei gol che già se ti vengono in allenamento... Ma in una finale... Come quello di Van Basten nella partita decisiva dell’Europeo 1988. Sono reti che girano il mondo, che restano nella storia. Quel giorno faccio un gol così bello e tu me lo annulli per un fuorigioco passivo segnalato da un guardialinee di Singapore? Era da ammazzarlo. Mi sono sdraiato a terra, mi sono appoggiato su un gomito, l’ho guardato. Era un gesto di protesta non violenta. Non era per la televisione, era pura disperazione».