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 2023  agosto 14 Lunedì calendario

Intervista a Natalia Aspesi

«Quest’intervista non è per la mia morte?». No. «Ma guarda, anche se fosse, non me ne…». No, te l’avrei detto prima.«Tu sei sempre carino d’aspetto, come mai?». Ma non mi pare, sono uno straccio. «Oh no, insomma. Sai che cosa? Forse perché sei giovane». Ho sessant’anni, Natalia. La gioventù mi sembra un’altra storia.
È metà luglio, è sabato, ovviamente si muore davvero, dal caldo. Dopo un tiramolla bestiale – classico suo – alla fine siamo finiti nella giornata peggiore. Sono salito apposta dal mare per lei. Contronatura. Non c’è stato verso. Poi durante la giornata ha sadicamente spostato di mezz’ora in mezz’ora l’incontro. Sono le quattro, in pieno sole. Suono il suo citofono. Niente. La chiamo, mi semi-insulta come fa sempre, ma bonariamente. Il portone – pesantissimo, di ferro istoriato, del palazzo in pieno centro di Milano – non cede. La chiamo, terrorizzato. Non risponde. Pacco, mi ha tirato un pacco, maledetta. E invece no, mi richiama. Deve scendere lei, a questo punto. La vedo dopo un po’ come un’apparizione dietro il vetro del secondo portone, mentre riesco non so come con una spallata a superare il primo. Maneggia con le chiavi. Niente. Ha una veste marocchina bianca, lunga fino ai piedi. È trafelata. Non si sente un cazzo. Penso che alla peggio questa conversazione (che non mi sono affatto preparato perché la conosco bene, ma non pensavo che mi avrebbe stanato praticamente subito) si farà così, tra i due vetri. Alla fine cede anche la seconda porta. Saliamo all’ultimo piano. Quello sconvolto dal calore bianco sono io, ci sediamo in salotto, dietro un terrazzo a giro-attico, curatissimo. Provo a darmi un tono.
La giornalista e scrittrice Natalia Aspesi, con gli immancabili occhiali da sole, fotografata nella sua casa di Milano;La giornalista e scrittrice Natalia Aspesi, con gli immancabili occhiali da sole, fotografata nella sua casa di Milano.  Bella la casa. La senti come un vestito su misura? «Non ci ho mai pensato. Come faccio a pensare alla casa, al vestito... Sono molto gelida nella mia vita». 
A volte, nelle interviste che ho trovato, hai parlato di una sorta di tua insensibilità… Queste cose su di te che ogni tanto dici… «Mah, non so di cosa parli. Insensibile? No, è vero, forse lo sono diventata. A me commuovono solo le cose vere. Ma guarda, sono molto cambiata,  ho 94 anni e fra sei ne avrò 100. Eh, amore, pensa che quando hai un’età, tutti ti dicono al compleanno “Cento di questi giorni!”. Ti rendi conto?». 
Sei nel posto giusto, uno dei pochi con più anziani al mondo. Lo sai, no? «No. Piuttosto, questo è un periodo in cui sono molto disperata per la politica, perché stiamo andando incontro a una vita mostruosa. Guarda il governo, scusa, se tu pensi che abbiamo un governo civile. Non ce l’abbiamo. Abbiamo quel La Russa, della gente mostruosa! Che io non la voglio neanche vedere! Guarda com’è carina, che me l’han portata...». Mi mostra una piccola statuetta con la figura caricaturale di Giorgia Meloni, col culo di fuori. «Questo è un “caganer”.  E son fatte tutte così dal Quattrocento, questa è la Giorgia. Viene dalla Spagna». 
Però l’altro giorno ho letto, ravanando, una conversazione che hai fatto sul Secolo d’Italia dove te ne uscivi con una mezza provocazione, una cosa del genere: tutto sommato ’sta Meloni la possiamo anche trattare meno peggio. «Ma noooo, te lo stai inventando! Ho detto che è carina, perché se fosse un cesso sarebbe meglio. Allora, fammi delle domande vere! Che poi le inventi e m’incazzo. Dove sono gli appunti?». 
Ma sto registrando. «Già, che scema! Fai delle domande serie, va». Ha subito capito che contavo sulla solita improvvisazione. Balbetto una cosa sullo stato della sinistra. «Qui siamo in Italia. In tempi disperati. E siccome, appunto, c’è l’incertezza, voti a destra. Perché più va avanti il tempo, più la Meloni aumenta i voti, hai notato? Cioè, più lei fa delle cazzate tremende, più la gente la vota. Vuol dire che l’Italia non è più fascista, son stupidaggini quelle, ma ormai siamo in un altro mondo, dove conta l’influencer, quello che diventa ricco inventando una macchinetta. Anche volere il salario minimo, che sarebbe minimamente giusto, non conta nulla. I giovani, che adesso non riescono a ottenere un lavoro qualificato, non sognano il posto in banca. Sognano di inventarsi, che so, una cosa per cui vanno su Marte in poco tempo, ecco, queste cose qua. È per quello che, secondo me, il Pd è fallito. E non c’è un sostituto. Per il semplice fatto che promettono cose vecchie. Se io avessi 20 anni, io vorrei delle cose banali, orrende, ma giuste». Iniziamo a carburare. E, invece, ecco che mi sgama definitivamente. «Io vorrei innanzitutto sapere cosa vuoi fare: vuoi fare una intervista così birichina… Io odio tutte le cose nuove, te lo dico». 
Vorrei provare a fare con te una conversazione che cerca di non toccare minimamente il tuo passato. «Il mio passato? Io ce l’ho tutto il mio passato». 
Sei tu che mi hai detto al telefono: sono stufa marcia di raccontare la mia storia. «Nooo, va beh, ma poi non è vero». 
Come funziona la tua memoria? «La memoria? Purtroppo ho avuto l’ictus. Vuol dire che tutto ciò che è avvenuto prima non me lo ricordo. Non mi ricordo più nulla». 
Sei nuova, quindi?«Sì, in questo senso sono nuova. Lavoro, nonostante tutto, ma faccio una fatica... Alla fine di un pezzo devo andare a letto, immediatamente. Però lo voglio fare e mi obbligo a farlo». 
Da qualche parte hai detto: alla fin fine io camminavo in mezzo alle bombe. Pensi che questa cosa in qualche modo ti abbia rafforzato? «Indubbiamente la vita che si faceva allora era una vita povera. Io non avevo il papà, che era morto giovane, in ospedale. Avevo la mamma, faceva la maestra e tirava su me e mia sorella, che ogni tanto morivamo di fame, ma senza lamentarci. Vivevamo, eravamo contente. E io non mi ricordo un attimo di paura, di tristezza, si viveva così, con le bombe o senza bombe».
 Tutto sommato tu hai sempre vissuto così. «Sì, ho sempre vissuto oserei dire leggiadramente. Immagino che ci sia della gente che con la guerra è stata traumatizzata, io no. Avevo mia madre, dolcissima, una donna unica al mondo, che mi ha molto aiutato. Non mi ricordo l’orrore, perché la guerra è finita che avevo quasi 15 anni, ma in quel periodo a me interessava solo trovare dei giovanotti. E basta». 
Era facile per te? «No, era molto difficile, perché eravamo molto poveri. Quindi soffrivo del fatto che non potevo essere come gli altri». 
Ah, quindi una sofferenza ce l’avevi. «Sì, questa ce l’avevo. Però credo che mi abbia formato. Io sono una che anche adesso, col piede nella tomba, son contenta». 
Scusa, ma sei contenta di che? «Mi alzo e sono contenta. Poi comincio a pensare al coso, lì, come si chiama, a quello del Senato, e allora mi incazzo. Mi fa troppo orrore questa gente ignorante, come si chiama il ministro della Cultura che ha detto: “beh, i libri…”, ma insomma! Non si può». 
Bisogna essere sinceri, però: si sono viste comunque grosse mediocrità, magari meno orripilanti, e da molto tempo. «Non è vero, c’è una differenza gravissima. Perché noi avevamo sì anche degli stronzi tremendi, però c’era sempre il rispetto di qualcosa. Adesso non c’è più rispetto di nulla». 
Ti manca – si fa per dire, visto che poche cose ti mancano – il fatto di stare in mezzo a persone dense di cultura come negli anni 60 o 70? «No! Impregnate di cultura… Nooooo! Che orrore.. impregnate poi...». 
Però hai capito cosa intendo dire. «No. Io ho tutti amici, sì, come te, persone carine che ancora mi frequentano, fra i quali tutti i gay». 
Ed eccoci qui, dentro questa tua infinita passione omosessuale, diciamo, che porti avanti da decenni. «Ahah! Beh, sai, alla mia età…». 
No, l’hai sempre avuta. In America si dice fag hag, cioè quelle donne che sono circondate da persone non binarie. «La questione è che, dopo i 50, puoi anche travestirti, morire, puoi fare quello che vuoi, ma se sei una donna non ci sei più. Se sei una signora – anche se si rifà le bocche, le rughe, le cose – non ci sei. Ci sono solo degli uomini invece – giovani, meno giovani, di tutte le età – che sono contenti di stare con te: i gay. Perché per loro sei una persona con cui, per dire, è facile parlare di varie cose e io lo sono per tutti i miei amici. Gli altri, come ci vedono, scappano. Ma perché dai, diciamocelo, le donne – tutte, belle e brutte – non trovano nessuno che fa loro dei divertimenti, andiamo». 
Ma che vuol dire? «Parlo di 70 anni fa, eh, non adesso, ma quando incontri un uomo che ti fa impazzire… Il più delle volte invece sono una roba che dici “ma, insomma, noioso”. Siamo sempre lì. Le donne cadranno sempre con l’uomo, scusa, che le fa godere. Siccome l’uomo sa fare di tutto tranne quella roba lì, quando trovi uno che finalmente ti fa godere… vai fuori di testa. Ma non puoi!». 
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Foto di Laila PozzoFoto di Laila Pozzo Tu non hai mai avuto esperienze omosessuali? «Nooo. Però c’era una ragazza che mi piaceva molto, e avevo pensato che forse avrei provato, poi non sono stata capace. Continuavo a dirmi: beh, magari la prossima volta. E non l’ho mai fatto. No, mi piacevano gli uomini».
Quando hai deciso di darla via? «Tardi! Tardissimo, perché noi eravamo educati al fatto che darla via voleva dire essere preclusa per sempre al matrimonio. Anche perché la mia mamma aveva sottomano figli di impiegati, ragionieri, orrendi, che non voleva nessuno! Io ho sempre rifiutato, zitella, perché mi presentavano degli uomini mostruosi». 
Ok, quando hai deciso infine di perdere la verginità? A 25 anni? «No, un po’ prima. Però è stata… non mi son neanche accorta. È la verità». 
Non ti ricordi chi fu?«No. Io ero continuamente pazza d’amore. Ma incontravo delle persone che non valevano nulla. Mi sono svegliata verso i 28-29 anni quando ho cominciato a fare la giornalista. Per me è stato il lavoro che ha cambiato tutto».  
Perché eri finalmente felice. «Sì, ero contenta. Sapevo chi ero, mi stavo liberando di tutte le cose che mi terrorizzavano». 
Tu sei stata anche una grande intervistatrice.  «Ah, ti puoi immaginare. Pensi che mi ricordi delle cose che ho fatto durante una vita? Le ho fatte e le ho dimenticate. Brigatisti rossi, assassini, quelli di Mani Pulite, Madonna… Ed erano tutti uguali, da Rita Pavone a non so chi. Non ho mai pensato di fare cose strane, era normale. Era il mio lavoro. Anche se all’inizio ero timida e tutte le volte che dovevo partire speravo che accadesse qualcosa lungo il tragitto per non poter arrivare. Poi, una volta che cominciava l’intervista, facevo quello che dovevo». 
Le star hollywoodiane? «Certo, tutti… Johnny Depp, che era veramente molto bello… Ma per me era un signore qualsiasi, non mi faceva impressione. Per noi erano solo oggetti da intervistare, non eravamo fan, influencer. Noi facevamo le cose che potevano contare in quel momento, forse anche straordinarie se mi mettessi lì a pensare, ma non ne ho voglia».
Cosa significava stare in una redazione nella quale tutti cercavano di dare il meglio? «Era normale. Ma, sai, ho vissuto un’epoca nella quale, nei giornali, se non eri bravissimo in una cosa, non ti prendevano. Forse siamo stati l’ultima generazione di autentici veri giornalisti, che andavano sul fatto. Sì, è stata tutta una bella avventura…». 
Che è poi la stessa che stai affrontando tu in questo momento anche dall’ictus in poi. In fondo come al solito sei dentro un’avventura, che riguarda il futuro…«Mi stai dicendo di morire?». 
Il contrario, di vivere. Perché subito dopo è iniziata un’altra volta l’impresa del vivere, di diventare altra. «Sì guarda, devo proprio dire che il lavoro mi ha risvegliato ogni possibilità, gli devo tutto».
Secondo me tu non hai età, posso dirtelo sinceramente? «Perché?».Perché sei un’entità.  Anzi, un’entità morale. Natalia Aspesi è fuori da ogni paragone, la più grande giornalista italiana vivente. Completamente meneghina, dopo l’infanzia e la giovinezza che qui ha raccontato, si getta subito in lavori per emanciparsi e – grazie ad un carteggio con un innamorato di allora che ha l’intuizione di presentarla alla redazione di La Notte – scopre che scrivere è la sua vera casa, e che le viene benissimo. Fa cronaca, poi inchieste. Passa a Il Giorno, assunta, fatto assolutamente straordinario per una donna, allora. Poi viene chiamata, un mese prima dell’uscita, a Repubblica che non ha mai abbandonato. Si occupa di quello che si chiamava costume e società («Cos’è questa storia che Eugenio Scalfari ti mandava le rose?», le ho chiesto durante questa chiacchierata. «Ah sì, quello mi faceva incazzare. Perché lui, per dirti che ti adorava, ti premiava per congratularsi che avevi fatto un bel pezzo. Allora a ogni cosa, ’sti fiori, siccome ero una donna. “Io sono qui per lavorare”, sbottavo»). Poi passa alla moda, raccontando la nascita di quel comparto economico e umano (fino a immergersi dentro il flagello dell’HIV che lo colpì all’epoca, con inchieste da San Francisco formidabili, già dal 1982). Le viene naturale occuparsi anche del lato “frivolo” (dice lei, consapevole del contrario) dei festival cinematografici, e poi del cinema, dove ovviamente svetta con il suo stile unico e la sagacia che nemmeno dobbiamo raccontare. Nel 1979 inizia la sua leggendaria Questioni (non solo) di cuore sul Venerdì, dove guida la difficilissima emancipazione della donna italiana (e dell’uomo e dintorni, evidentemente), rubrica che ha interrotto per pochissime settimane con il racconto dell’ictus che l’aveva aggredita poco prima. Si è subito sollevata e come avete letto – sottoposta a villanie e al nulla pneumatico di questa conversazione bombardata dall’afa e dalla mia incompetenza – è l’implacabile furia di sempre.