il Giornale, 14 agosto 2023
Cristina Mercuri, vuole diventare la prima donna italiana Master of Wine
Sorriso che incanta e personalità di ferro, Cristina Mercuri, pisana, attorno ai 40, ha un sogno. Diventare la prima donna italiana Master of Wine, ovvero MW, sigla che le 412 persone al mondo che possono vantare questo titolo fanno seguire al proprio nome, come fosse una particella nobiliare. Ma certamente ci sono al mondo più principi e baroni che MW, sacerdoti assoluti del vino consacrati dopo un percorso di studio e pratica talmente lungo, faticoso, costoso e di incertissimo esito da costituire un miraggio per chiunque. Per dire, a oggi l’Italia ha solo un MW, Gabriele Gorelli, e solo dal 2021.
Cristina, quando hai iniziato questo iter infernale?
«A fine 2018, ho passato i primi due step relativamente presto, ci ho messo due anni, il percorso è stato faticoso e totalizzante, ho sacrificato la mia vita e la mia accademia. Avevo una tabella di marcia per cui tutta la giornata era dedicata allo studio della teoria e alla pratica».
Com’è organizzato il percorso?
«Ci sono tre fasi, tre stage. Il primo è un esame di un’unica giornata: la mattina assaggi dodici vini alla cieca e al pomeriggio affronti due saggi teorici su temi variabili: viticoltura, enologia e marketing. Il secondo stage è un vero big exam, lo scoglio su cui si arenano quasi tutti. Quattro giornate di degustazioni alla cieca, devi individuarli e motivare il perché quell’origine, quel vitigno, quella qualità, quel costo, quel potenziale commerciale. Un esame anche di abilità comunicative in inglese. E poi ci sono cinque paper su temi differenti».
Quanto ci vuole per preparare tutto questo?
«Uh, non basta un anno. Che dico, forse nemmeno due. Ci arrivi se lo vuoi davvero tanto e se hai una visione molto allargata del business globale e di ogni regione».
Che poi nemmeno abbiamo finito. C’è il terzo stage...
«È quello che sto vivendo io. È il momento del search paper, tu proponi all’istituto un progetto di ricerca, che ti può essere approvato o no. Se viene approvato hai fino a cinque anni».
Ne riparliamo nel 2028?
«No, io spero di consegnare nel prossimo dicembre, al massimo a giugno dell’anno prossimo».
E dopo che succede?
«Loro la valutano come se fosse un articolo scientifico. E se tutto va bene dopo due mesi ti scrivono per dirti che sei diventato MW».
Incrociamo le dita. Su cosa stai lavorando?
«Sugli ibridi, i vitigni resistenti, di più non posso dire. Ma la mia ricerca deve essere ancora approvata».
Quante persone riescono ad arrivare fino in fondo?
«Di 100 che iniziano solo 5 diventano MW, hai solo tre tentativi».
E i soldi?
«Un problema. Se lavori non hai tempo da dedicare allo studio. E se non lavori come vivi? Poi c’è la fee annuale da pagare all’istituto, sui 7mila euro. Ma a costare tanto sono i vini da acquistare, le consulenze dai master of wine che ti aiutano a passare e i viaggi da fare. Puoi spendere mille euro al mese, come anche 5mila. Molti studenti hanno la fortuna di essere finanziati da aziende ma non io».
Ma perché attraversare queste forche caudine?
«Era il mio sogno fin da quando ho iniziato a studiare il vino, volevo arrivare nel punto più alto possibile. Mi piace eccellere, prendere voti alti, studiare. Sono una secchiona. E poi volevo far vedere che non sono la biondina carina, che cacchio vuoi che ne sappia di vino.... Ve lo faccio vedere io quanto ne so di vino».
Una rivincita...
«Diciamo un modo per mettere a tacere alcuni sedicenti esperti che appartengono a una generazione di persone dalla mentalità chiusa, che pensano che le donne debbano avere un ruolo minoritario nel vino».
Va bene l’orgoglio, la rivalsa. Ma diventare MW farà anche guadagnare qualche soldino...
«Solo in parte. Ci sono quelli che hanno una vena imprenditoriale e vedono nel diventare MW la possibilità di avere collaborazioni prestigiose. Ma se diventi MW in un’area dove ce se sono molti, prendi Londra, non monetizzi molto, c’è troppa concorrenza».
Quattrocentodiciotto MW e un solo italiano. Dove sbagliamo?
«Uh, ci sono un sacco di fattori. Intanto l’istituto del Master of Wine ha incominciato a promuovere corsi fuori dall’Inghilterra solo dall’inizio del Duemila. Poi è molto difficile trovare vini del mondo in Italia. Li reperisco su un sito tedesco».
E problemi culturali no?
«Ci stavo arrivando. Noi italiani siamo sbruffoncelli, pensiamo di sapere tutto ma appena ci confrontiamo con gli standard internazionali cadiamo. E poi l’italiano medio tende ad abbandonare quando vede che la sfida è un po’ troppo alta. Vogliamo le cose comode, la bella vita. Italians give up, dicono all’estero. Gli italiano mollano».
C’è una questione femminile nel mondo del vino?
«Sì, anche se negli ultimi anni, dalla pandemia in avanti, c’è stato un grande cambiamento e sento meno questo problema. Le nuove generazioni sono molto meno interessate alle questioni di genere».
Ti sei mai sentita danneggiata in quanto donna?
«Altroché. Mi chiama un’azienda del lusso, e mi chiede se conosco un esperto di vino per una presentazione di un gioiello. Dico: E perché non io? Perché sei donna, mi sento rispondere. Ma ogni volta che ciò accade reagisco aumentando il mio impegno per non dare alibi a queste persone».
Tu sei nel vino relativamente da poco...
«Facevo l’avvocato, mi occupavo di proprietà intellettuale. Lavoravo in Danone, al precontenzioso della pubblicità e del marketing».
E il vino?
«Ero appassionata, guardavo in tv questo sommelier che parlava del vino in termini romantici, la banana acerba del Madagascar, e mi irritava. Volevo capirne di più».
E quindi?
«Ho fatto un corso, mi sono appassionata, ho capito che il vino poteva essere il mio piano B. E siccome passavo di studio in studio e non mi trovavo mai bene, ho capito che il problema ero io. E dopo un periodo in cui di giorno facevo l’avvocato e la sera organizzavo eventi di un certo successo attorno al vino, ho saltato il fosso e ho lasciato la professione. Mi sono diplomata Wset, diploma level, e ho fondato la mia accademia».
Il Mercuri Wine Club.
«Sì, formiamo professionisti a tutti i livelli ma organizziamo corsi anche per amatori. Ho un approccio tailormade: dimmi qual è il tuo obiettivo e costruiamo assieme il percorso».
Prima mi parlavi di linguaggio arcaico applicato al vino. Il tuo qual è?
«Ho un approccio molto diretto, oggettivo e con termini il più possibile vicini all’interlocutore. Mi soffermo poco sul naso che i principianti non capiscono e molto sulla bocca, che non mente mai».
Odi mai il vino?
«Lo odio spessissimo. Ci sono giorni in cui non sei in forma, in cui degusti male: in quel caso io mi dico che sono un’incapace e il vino lo detesto proprio, lo tratto male. Ma se sono in buona sento che il vino mi parla. Devi accogliere il vino, non lo devi pressare. Se ti imponi, se gli chiedi insistentemente chi è, lui resta muto. Ma ho imparato e quando questo accade vado a farmi un giro in bici».
Mi stai dicendo che ogni tanto ti disintossichi anche tu?
«Certo, qualche volta bisogna riposarsi, a me capita di stare per cinque o sei giorni senza vino. Non lo devo mai vivere come una forzatura, deve essere un rapporto di gioia».
La più grossa cantonata che hai preso con i vini?
«Uh, mentre preparavo l’esame MW mi è capitato di confondere un Cru Classé Level, un Bordeaux, con un Syrah del Rodano. Quando l’ho scoperto sono andata a gambe all’aria. E poi mi hanno sempre mandato in crisi i vini da dessert, avevo difficoltà con l’esatto grado zuccherino. Ma da secchiona ho studiato e ho elaborato un metodo mio, cacciando la lingua dentro il bicchiere. Una cosa non bella a vedersi...».
Esiste uno specifico femminile nella degustazione del vino?
«Noi abbiamo una ciclicità mensile, l’uomo ce l’ha giornaliera. Quindi nel mese abbiamo finestre con sensibilità più alte rispetto all’uomo, io in certi periodi vado come un treno, riconosco tutto subito. Quando ho il ciclo sono una degustatrice pazzesca. Ma magari è una cosa solo mia...».
Posso dire che sei la più brava sommelier italiana?
«Io non sono una sommelier. Sono una wine educator».
Mai contraddire una bionda secchiona orgogliosa.