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 2023  agosto 14 Lunedì calendario

Iran, il regime scricchiola sempre più

“Spionaggio per conto di una potenza straniera”: è il capo d’accusa che il tribunale rivoluzionario di Teheran, a inizio agosto, ha formulato alla fine contro Niloufar Hamedi e Elaheh Mohammadi, le due giornaliste che per prime, lo scorso settembre, avevano documentato il caso di Mahsa Amini, la giovane curda iraniana di 22 anni picchiata a morte a Teheran dagli agenti della polizia morale, la gasht-e ershad (“le pattuglie di orientamento islamico”), per non aver indossato correttamente il velo. Il processo, che si si svolge a porte chiuse, è iniziato a fine maggio. Al termine delle due prime udienze, i magistrati hanno deciso di proferire accuse senza legame diretto con l’omicidio di Mahsa Amini, che ha incendiato l’Iran per mesi, avanzando un altro motivo: circa un anno e mezzo fa le due giornaliste avevano partecipato a un seminario di giornalismo in Scozia diretto da “un ebreo”. Un’accusa che, se fossero aggiunte delle circostanze aggravanti, potrebbe valere alle due donne la pena di morte.
Niloufar Hamedi, 30 anni, che lavora per il quotidiano Shargh (L’Oriente), è specializzata nei diritti delle donne nel suo Paese. Era stata lei a pubblicare su Twitter le foto di Mahsa Amini, ricoverata in coma e poi morta in ospedale, e le testimonianze della famiglia. Una settimana dopo, Elaheh Mohammadi, giornalista al quotidiano Ham-Mihan, aveva documentato i funerali della giovane a Saqqez, nel Kurdistan iraniano, dove erano iniziate le rivolte sociali. Non è la prima volta che dei giornalisti iraniani vengono accusati di spionaggio a favore di potenze straniere, in genere Israele, Stati Uniti o Gran Bretagna. Dalla creazione della Repubblica islamica, nel 1979, la giustizia iraniana ha aperto circa 120 inchieste di questo tipo, basate spesso su confessioni estorte sotto tortura. Il regime intende punire ora chi ha rivelato la morte di Mahsa, ma indirettamente, evitando una condanna in relazione all’omicidio che rischierebbe di risvegliare le proteste sociali all’avvicinarsi del 16 settembre, primo anniversario della morte della giovane donna.
Nei mesi scorsi è iniziata in Iran una violenta repressione contro i giornalisti, soprattutto donne, tre delle quali sono state condannate a quattro anni di reclusione. Il 4 agosto, l’avvocato Narges Mohammadi, portavoce della ong Defenders of Human Rights Center (Dhrc), è stata condannata a un anno di prigione e 154 frustate per aver reso nota una lettera clandestina in cui le detenute denunciavano le molestie sessuali subite e la cosiddetta “tortura bianca”, una pratica che consiste nel mettere i detenuti in isolamento totale e che lei stessa aveva subito per più di due mesi nel carcere di Evin, uno dei più duri, gestito dai pasdaran (le guardie della rivoluzione). Secondo l’ong Iran Prison Atlas, 117 attivisti e oppositori politici, tra cui 13 donne, sono stati condannati da settembre a un totale di 7.404 frustate. Nasrin Sotoudeh, anche lei avvocato, che per prima ha difeso le donne che rifiutavano di indossare il velo, e per questo è stata condannata a 38 anni e mezzo di carcere e 148 frustate, è stata di recente rilasciata su cauzione per malattia. Sulla questione del velo, la magistratura, il presidente Ebrahim Raisi e il suo governo, così come la guida suprema Ali Khamenei, sono intransigenti. I negozi che non vietano l’ingresso alle donne senza velo vengono chiusi. Nuove punizioni sono state introdotte contro le detenute, tra cui l’obbligo di lavare i cadaveri e di sottoporsi a visite mediche in cliniche psichiatriche, come è successo anche a due note attrici in Iran, Afsaneh Bayegan e Azadeh Samadi. Emergono, tuttavia, anche crepe nel regime.
La polizia morale ha ripreso la caccia alle donne bi-hijab (senza velo) nelle grandi città, ma all’interno del regime nessuno ha voluto pubblicamente prendere le responsabilità della decisione. Secondo l’agenzia di stampa Tasnim, legata alle guardie della rivoluzione, è stata presa dallo stesso presidente Raisi e dal capo della magistratura Gholamhossein Mohseni Ejei. Una legge sull’hijab, in 70 articoli, finalizzata a sanzionare le donne senza velo, deve essere votata dal Majlis (l’Assemblea islamica), ma per molti deputati sarà di difficile applicazione. Nel campo dei riformisti, discreditato agli occhi degli iraniani per lo scandaloso silenzio sulla repressione delle proteste, è tornato al centro della scena Mohammad Khatami (già presidente dal 1997 al 2005), che a luglio ha apertamente riconosciuto che la maggioranza della popolazione non vuole la nuova legge. Il giornale Kayhan, il cui direttore è nominato dalla guida suprema, lo ha accusato “di agire in collaborazione con il nemico nell’intento di eliminare la castità” dalla società iraniana. “L’obbligo di indossare l’hijab per tutte le donne è stata una conquista per questo regime, ma è evidente che la battaglia è persa – spiega Reza Moini, politologo e specialista dei diritti umani –. Le forze dell’ordine non riescono a imporlo e soprattutto vogliono evitare scontri. Si ritirano in caso di agitazioni, come è capitato di recente a Rashtn nel nord-ovest dell’Iran, e a nord di Teheran. Non era mai successo prima”. Anche tra i religiosi si è aperto il dibattito. Alcuni restano radicali. “La sanzione contro le donne senza velo deve essere dissuasiva e una semplice multa non risolve il problema. La migliore punizione è la frusta”, ha detto Ali Moalemi, vicino alla guida suprema, all’inizio di agosto. Ma per altri religiosi indossare l’hijab, non essendo apertamente prescritto dal Corano, non può essere obbligatorio.
“Non so se si possa parlare di rivoluzione culturale, ma si assiste ad un reale cambiamento culturale, la cui importanza non può essere misurata ora a causa della repressione – continua Reza Moini –. Non c’è solo la questione del velo: nel caso del quartiere di Ekhbatan, alla periferia di Teheran, dove vive essenzialmente la classe media e la protesta è stata intensa, i rapporti tra gli abitanti stanno cambiando”. Malgrado la repressione, gli iraniani che non approvano la Repubblica islamica hanno ora un altro elemento per attaccarla: una vicenda di sextape che coinvolge direttamente il regime. Dei video, diffusi tra il 18 e il 21 luglio su GilanNews, un servizio di messaggistica di Telegram amministrato da un giornalista iraniano dalla Germania, mostrano rapporti sessuali espliciti tra diversi mullah e di uno in particolare con dei giovani uomini.
Lo scandalo colpisce il governo anche perché uno di questi religiosi, Reza Seghati, è il direttore generale dell’ufficio del ministero dell’orientamento islamico nella provincia di Gilan (nord-ovest dell’Iran), che ha di recente condotto una campagna su “hijab di quartiere e castità virtuosa” volta a far rispettare le leggi sul velo. Un altro religioso coinvolto, Mahdi Haghshenas, è l’ex direttore dell’Ufficio per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, un organismo statale molto attivo nella repressione degli ambienti lgbtq+ e che sostiene l’applicazione radicale della Sharia, che prevede la pena di morte in caso di rapporti omosessuali. Secondo il sito Iran International, nel novembre 2005, due uomini, di 24 e 25 anni, erano stati impiccati in pubblico per aver avuto rapporti omosessuali a Gorgan, nel nord dell’Iran. “Tutti parlano di questa sextape in Iran – osserva Reza Moini –, anche mentre si fa la fila dal macellaio. La cosa più sconvolgente per gli iraniani non sono tanto i rapporti sessuali tra i mullah ma l’ipocrisia del nizem, il sistema. Gli iraniani sanno che l’omosessualità esiste, come attestato dal poeta Saadi, ed è anche tollerata, fino a un certo punto. Detto questo, i video sono stati girati di sicuro da agenti del regime nell’ambito di una guerra interna per il potere a carattere mafioso”. “Questo regime avrà fatto di tutto per far allontanare la gente dalla religione – osserva la direttrice di un’istituzione culturale privata di Teheran, che ha chiesto di restare anonima –. Le moschee sono vuote, la gente non prega più e non si osserva più il digiuno del Ramadan. Nella mio ufficio, su dieci persone, solo una lo ha seguito quest’anno e aveva più di 70 anni”.