La Stampa, 14 agosto 2023
Intervista a Emmanuelle Beart
«Se incontrassi me stessa da ragazza le direi di non essere così timida, di non prendere tutto così tanto sul serio». Al traguardo dei 60, che compie oggi, Emmanuelle Beart, l’attrice francese che non ha mai avuto il cuore in inverno, a dispetto del titolo del film con cui ha fatto innamorare schiere di spettatori del mondo, arriva con un sorriso dolce e con un’aria tra l’arrendevole e l’accogliente: «Oggi vivo il mestiere in modo molto diverso, ho fatto dieci anni di teatro no-stop e adesso quello che mi guida, nelle scelte professionali, è la vita, l’autonomia delle scelte. So che questo è un gran privilegio».
Ospite d’onore quest’estate del Filming Italy Sardegna Festival diretto da Tiziana Rocca, Beart è apparsa di recente in Passeggeri della notte, regia di Mikhael Hers, un piccolo gioiello cinematografico in cui interpreta l’enigmatica conduttrice di un programma radiofonico notturno, ora ha in programma una serie per Arte, titolo La miraculeè, un film in Grecia, l’adattamento cinematografico di un romanzo, soprattutto il debutto dietro la macchina da presa. Gli impegni non mancano, ma l’importante, come spiega lei stessa, è soprattutto vivere: «Detesto l’idea di sopravvivere, ho sempre voluto vivere, appassionatamente. Oggi sono una donna innamorata, un’attrice, ma anche una madre di tre figli e perfino una nonna».
Che cos’è per lei un cuore in inverno?
«Ne ho incontrati parecchi nella vita, si tratta di persone che si sono negate la capacità di avvertire i sentimenti, di cogliere il fluido vitale che scorre dentro di noi, che non possiedono l’appetito della vita, un dono meraviglioso che viene dall’educazione ricevuta, dal modo in cui si è cresciuti. I cuori in inverno sono quelli feriti dall’esistenza, e io ne ho sempre subito il fascino, forse proprio perché sono l’opposto e perché penso sempre di poter salvare qualcuno».
Ha recitato a Hollywood, in blockbuster come Mission Impossible, ma poi ha scelto di abbandonare l’America e tornare in Francia. Perché?
«È stato molto divertente lavorare in Mission:Impossible, ero poco più che una ragazzina, mi piaceva moltissimo. Poi sono andata a Los Angeles per il lancio del film e ho cominciato a sentire il desiderio forte di tornare a casa, stavo male, non ero pronta a lasciare il mio Paese, i miei film francesi, anche quelli d’autore, difficili da mettere in piedi finanziariamente. E poi a casa avevo mio marito, e i bambini che mi aspettavano. Però devo dire che Tom Cruise è sempre stato gentile, professionale, pieno di attenzioni, abbiamo girato sei mesi in Gran Bretagna, ero l’unica donna francese sul set, mi trattavano tutti benissimo, Brian De Palma era un regista splendido, non ho nessun brutto ricordo di quel periodo».
Ha lavorato in Italia, a Cinecittà, con Ettore Scola nel «Il viaggio di Capitan Fracassa». Come andò?
«Sono stata sei mesi a Roma. Sa che ricordo ho? Se devo essere sincera, è qualcosa a metà strada tra l’incubo e l’avventura».
Perché?
«Era veramente un gran casino, non avevo mai lavorato prima con italiani, e ho capito che si può anche impazzire. Se chiedevo qualcosa mi rispondevo tutti “ma sì, che bello, facciamo così”, e poi non succedeva niente. Ettore era continuamente impegnato nelle riunioni del Partito Comunista, e così il direttore della fotografia Luciano Tovoli, io e anche Marcello Mastroianni eravamo lì che aspettavamo per ore. C’era anche Ornella Muti, una vera diva, non capisco come facesse a essere così paziente. Io non ne potevo più, un giorno sono fuggita dal set, con addosso gli abiti di scena, con quei tempi di lavorazione pensavo che non sarei mai riuscita a tornare a casa. Però, in quelle riprese, c’era anche una magia infinita, i costumi, le scenografie, tutto magnifico».
Lei ha figli e nipoti, pensa che le generazioni precedenti siano state più fortunate?
«Purtroppo le guerre ci sono sempre state, ma è chiaro che un conflitto alle porte dell’Europa come quello ucraino è particolarmente traumatizzante, la situazione è preoccupante. Tutti i giorni mi chiedo che cosa farà l’Europa e come ne usciremo. Ho conosciuto una documentarista ucraina e stiamo lavorando a un film di cui sarò regista, l’abbiamo scritto insieme, ancora non posso parlarne, ma posso dire che lei ha messo in questo progetto tutta la sua sofferenza».
Che cosa la preoccupa di più del nostro contemporaneo?
«Viviamo in un mondo molto violento, penso che i giovani abbiano grandi difficoltà a concentrarsi e a godere il presente, sono abituati a vivere immersi in questo fiume costante di informazioni, social, attività ininterrotta online. E poi mi toccano molte altre cose, il nostro mare, che è diventato un cimitero, e i danni che abbiamo provocato all’ambiente, il fatto che abbiamo asfissiato la terra in cui viviamo».
Come si descriverebbe?
«Amo la gente, mi interessa capirla, ascoltarla, ma non mi aspetto che tutti mi accettino. Se ribelle vuol dire essere come voglio essere, cercare la libertà, allora sì, sono una ribelle». —