La Stampa, 14 agosto 2023
Scuola in cerca d’autore
Cent’anni fa Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Mussolini, organizzava la scuola italiana con la riforma che porta il suo nome. In realtà si trattava di sei diversi atti normativi, emanati con Regi Decreti nel corso del 1923, i più importanti dei quali venivano portati alla firma del sovrano nell’estate ed erano dedicati rispettivamente alla scuola elementare, alla scuola media e alla scuola superiore: una riforma realizzata in tempi rapidissimi, approfittando dell’iter legislativo semplificato dai pieni poteri concessi a Mussolini per razionalizzare la burocrazia statale.
Quali fossero le linee ispiratrici della riforma è noto. Anziché modernizzare il sistema adeguandolo ai cambiamenti sociali ed economici introdotti dall’impetuoso sviluppo industriale di inizio secolo, Gentile mirava ad un duplice obiettivo: da un lato, creare i presupposti formativi per il rinnovamento spirituale ed etico dell’Italia e per la creazione di uno Stato nazionale forte e coeso; dall’altro, restaurare i privilegi in campo scolastico di una ristretta élite borghese, il cui status veniva tutelato attraverso un complesso sistema selettivo che doveva fungere da barriera sociale.
Meno nota (e curiosamente attuale) è la premessa dalla quale muoveva Gentile: egli avvertiva la necessità di proporre una riforma organica di “tutto” il sistema della formazione capace di sostituire la legge Casati del 1859, che costituiva l’unico intervento complessivo sulla scuola in più di sessant’anni di storia unitaria e che era stata oggetto di rivisitazioni, ritocchi, polemiche, stralci, ma nella sostanza era rimasta l’impalcatura del sistema, transitando dal Regno di Sardegna al regno d’Italia.
In un intervento al Consiglio Superiore dell’Istruzione, quello che diventerà il “filosofo in camicia nera” denunciava la miopia politica e i danni delle «piccole riforme», tanto incapaci di progettare un modello nuovo quanto invasive nello smantellare il modello esistente. «Dal 1859 in qua – egli affermava – si è pensato sempre a riformare questa o quella parte isolata, senza affrontare mai il problema nel suo complesso organico». Alcuni ministri avevano legato il loro nome a stimoli intellettuali di valore (primo fra tutti, Francesco De Sanctis), altri a provvedimenti significativi (come Michele Coppino, che nel 1877 aveva portato da due a tre anni l’obbligo scolastico), altri ancora a interventi marginali destinati a non lasciare traccia nella memoria storica: il risultato complessivo era stato comunque una progressiva erosione che aveva indebolito il modello originario, perché le riforme devono essere figlie di «un’idea unitaria» e non di «suggestioni contingenti».
La conclusione della riflessione era perentoria: avvertendo il momento come «rivoluzionario» per le trasformazioni portate dalla Grande Guerra e dalla marcia su Roma, Gentile sosteneva che «al principio di questo periodo nuovo della storia d’Italia, in cui sentiamo di essere entrati, occorre una riforma complessiva, “una” legge che affronti tutti insieme i problemi della scuola». Insomma, non la «politica dei ritocchi», ma il coraggio di un «progetto di sistema».
Certamente Gentile non pensava che la sua riforma avrebbe avuto un destino analogo a quella del conte risorgimentale Gabrio Casati, e meno che mai che l’erosione non sarebbe durata sessant’anni, ma avrebbe attraversato tutti i decenni di un secolo. Perché nel nostro attuale sistema scolastico le tracce “gentiliane”, per fortuna, non sono molte, spazzate via dalla scuola media unica del centrosinistra di Moro/Nenni/Fanfani, poi dal ’68 (è del 1969 la liberalizzazione degli accessi agli studi universitari, sino ad allora interamente “aperti” solo ai diplomati del liceo classico), poi ancora dalle politiche inclusive degli anni Settanta, ma è altrettanto vero che l’ultima riforma complessiva della scuola è stata proprio quella del 1923.
Se ci limitiamo agli ultimi trent’anni, possiamo ricordare le riforme Berlinguer, Moratti, Gelmini sino alla “Buona Scuola” di Renzi, ognuna limitata ad aspetti parziali, smentita al cambio di maggioranza, ridefinita da nuove proposte. Insomma, correzioni e controcorrezioni, senza una visione d’insieme e con il risultato di paradossi evidenti. Uno su tutti: nel 2010 la circolare ministeriale 101 ha stabilito che l’obbligo di istruzione riguarda i ragazzi dai 6 ai 16 anni, ma nessuno ha provveduto a ridefinire in modo conseguente ordinamenti e programmi della scuola secondaria superiore. Se il biennio del superiore diventa obbligatorio, è naturale immaginarlo “unico” o comunque rivisitato in funzione dei nuovi accessi, altrimenti si confonde la “formazione” con la permanenza dietro i banchi.
Strano destino della scuola italiana, con il passato e il presente che si inseguono e si ripetono sovrapponendo limiti, polemiche, storture. Con buona pace di Gentile, ma anche di suoi colleghi altrettanto illustri. Che cosa direbbe, ad esempio, Francesco De Sanctis aprendo oggi il sito del Ministero o sfogliando le pagine di Orizzonte scuola e smarrendosi in una pletora di circolari e note prescrittive? Nel 1861, diventato il primo ministro dell’Istruzione dell’Italia unita, egli criticava il carattere accentratore della scuola voluta dal Casati ed esclamava alla Camera: «è questa ingerenza minuta in tutte le cose, è questa smania d’istruzioni, di circolari per regolare ogni minimo passo che deve fare il professore, che fa sì che l’insegnamento, per troppo zelo dei medici, si trova ammalato». O che cosa direbbe Benedetto Croce di fronte alle montagne di schede e rilevazioni perditempo che la burocrazia ministeriale richiede ogni giorno? Ministro dell’Istruzione nel 1920, Croce sognava di una scuola “snella”, posta «in una situazione di moto uniformemente accelerato, di progresso naturale e di autonomia». Il passato che non passa, i vizi che si ripetono.