la Repubblica, 14 agosto 2023
I segreti dei papaveri
Tra i campi ci si ferma ad osservare i fiori mentre si è stesi e si tocca la terra, la sua crosta. Si osservano nel loro svettare umile ma pieno di decoro ed eleganza. Ha ragione chi disse – invitando a conteplare i gigli di campo – che non faticano e non filano, eppure neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.
Nella nostra estate c’è un fiore la cui fioritura, pur raggiungendo l’apice nel mese di giugno, si protrae da maggio a luglio, e talvolta anche fino all’inizio di settembre. È il papavero, un fiore che i poeti hanno amato. Che cosa possiamo dire del papavero?
«Siamo ora costretti al concreto / a una crosta di terra / a una sosta d’insetto / nel divampante segreto del papavero». In questi versi visivi e sonori diCostrizione, scarni quanto densi, Bartolo Cattafi sembra definire la vita, cioè la condizione umana, come «costrizione», legata alla concretezza del reale. Le sillabe si accartocciano tra i suoni str e cr e così la vita stessa, ruvida. C’è una durezza, quasi coriacea, che però appare anche friabile per attrito. L’uomo è costretto alla terra per la durata di una sosta d’insetto. Niente di kafkiano qui: l’orizzonte è altro. La sosta talvolta è lunga in una immobilità che sembra contemplativa. A volte invece è breve, nervosa, fuggevole. Ma è una sosta, mai un radicamento, mai una abitazione domestica.
Ma la crosta di terra e la sosta d’insetto sono immagini circoscritte da un mistero che le avvolge e le include. In questo mistero la parola del poeta si immerge e risuona come uno squillo di tromba: il «di-vam-pan-te se-gre-to del pa-pa-vero». Il verso è una vera esplosione, uno squillo luminoso perché contiene al suo interno i suoni pan…pa…pa. L’enigma del mondo è tutto affidato a questa immagine rossa, aperta, solare, simbolo diuna trascendenza, di un oltre dal cuore di fuoco, che è l’orizzonte della realtà in cui viviamo, della crosta e della sosta. C’è la vampa. È il papavero che schiude in modo bruciante il senso.
È possibile compiere un viaggio nel giardino dei papaveri dei poeti e comprendere quale esperienza sia in grado di farci compiere. Impossibile farla senza avere un papavero davanti a sé.
Kobayashi Issa, uno dei più grandi compositori di haiku vissuto a cavallo tra XVIII e XIX secolo, scatta una bellissima istantanea: «Si fa largo / tra la folla, / brandendo un papavero». Chi? Come? Perché? Non sappiamo. Possiamo vedere noi stessi brandire il fiore come un trofeo. Ma è lui che vince, bello, glorioso, che si fa largo mentre lo teniamo nella mano, la quale scompare.
Jack Kerouac, grande lettore e autore di haiku, aveva ereditato la sensibilità per il valore straordinario del papavero: «Papaveri! – / Ora posso morire / In dolcezza». Aveva capito che questi fiori custodiscono la cifra del senso dell’esistere. Se li contempli avverti la dolcezza del compimento.
Il fiore dischiude l’immaginario. Sempre. Proprio perché il suo mestiere è dischiudersi, aprirsi. Il papavero lo fa in maniera unica. Scrive José Tolentino de Mendonça, portoghese, prete poeta e ora cardinale in una raccolta dal titolo Il papavero e il monaco : «Quando si è estinto / il rosso del papavero / è rimasto vuoto il giardino». Ha ragione. Il giardino è il paradiso, l’esistenza vissuta, amata nella quale ci sentiamo a casa. Se si estingue quel rosso, resta il vuoto. L’immagine rossa si impone. Abbiamo un disperato bisogno del papavero perché non si imponga il vuoto. Che ci facciamo al mondo senza?
Johannes Scheffler (1624-1677), noto col nome di Angelus Silesius, nel suo capolavoro Il pellegrino cherubico scrive l’aforisma tanto caro al filosofo Martin Heidegger: «La rosa è senza perché. Fiorisce poiché fiorisce, /Lei a se stessa non bada, non chiede che la si guardi». E certamente quanto si dice si può dire anche del papavero, in questo caso. Il papavero non fiorisce senza senso, ma senza lahybris della spiegazione. La sua presenza è troppo divampante per esigere un perché. Non ha bisogno di giustificazioni, come tutte le cose belle della vita.
Ma quali possono essere, allora, le domande plausibili da porre al papavero? Ce ne sono? Forse è Andrea Zanzotto che può aiutarci a formularle. In Haiku per una stagione scrive: «Papavero, profumo assente, profumo mentale? / Perché spalanchi l’occhio? / Perché così vivo, unicamente vivo?». Le nostre domande, anche quelle più inquiete, davanti alla gloria umile del papavero non trovano risposta, ma un invito a sostare, a contemplare, a goderselo così semplicemente, a considerare l’importanza misteriosa di esistere. La presenza del papavero è disponibile e senza pretese. Fiorisce, vivo, in accordo con il proprio essere. E basta. Chi si accorge oggi di essere vivo?
Torniamo a Tolentino de Mendonça: «L’estate / insegna la stessa preghiera / al papavero e al monaco». La sua preghiera è il suo stesso essere, il suo essere che è rosso. E l’insegnamento avviene d’estate, appunto, sotto il sole caldo d’agosto.
E a insegnarci questo dialogo col cielo è il papavero rosso di Louise Glük che scrive in L’iris selvatico :«Ho / un signore in cielo / chiamato sole, e mi apro / per lui, mostrandogli / il fuoco del mio cuore, fuoco / come la sua presenza». Ecco, dunque, perché il papavero fiorisce e si dischiude. Ecco la sua mistica: mostrare al sole il fuoco della propria intimità. Che dialogo erotico di fuochi che si svelano! Il pudore lascia definitivamente il posto alla vampa.