Corriere della Sera, 13 agosto 2023
Meno bandierine più idee
Una democrazia sana conosce i suoi riti e di conseguenza non ha senso alcuno criticare il summit governo-opposizioni organizzato venerdì scorso sul salario minimo. Tanto più in una fase storica dove la politologia parla correntemente di post-democrazia per indicare inediti percorsi di rivisitazione delle procedure decisionali e della formazione del consenso. Viva dunque i confronti bipartisan – espressione ormai démodé – pur sapendo che sulla loro preparazione e gestione possono prevalere (come nel caso di specie) le esigenze della comunicazione su quelle del più laico problem solving. Dato a Giorgia quel che è di Giorgia, è legittimo però sostenere che la gestazione di un provvedimento per affrontare i problemi del lavoro povero più si spoliticizza più avrà chance di produrre un esito positivo per quei 3 milioni di persone che lo attendono con maggiori aspettative. L’opposizione ha fatto il suo mestiere nel coagularsi attorno alla proposta Guerra di introduzione del salario minimo, è probabile – visto il relativo successo -che continui a farne elemento di propaganda e comunicazione ma il vecchio adagio che sosteneva l’enorme distanza tra il dire e il fare vale anche per Elly Schlein, Carlo Calenda e Giuseppe Conte. Spoliticizzare, dunque, vuol dire affidare la materia e la risoluzione dei nodi più controversi a una sorta di magistratura tecnica.
In Germania e nel Regno Unito si è adottata la soluzione della commissione indipendente, se da noi si vuol mettere alla prova il Cnel e misurarne l’efficacia poco cambia. L’importante è che la definizione dell’ammontare del salario minimo venga sottratta a un’asta che, specie in previsione delle elezioni europee di primavera, vedrebbe inevitabilmente impegnati i leader più combattivi. Ma togliere politica e aggiungere pragmatismo implica una seconda decisione opportuna da prendere: quella di rinunciare a scrivere un provvedimento-omnibus risolutivo delle contraddizioni che ci sono sul campo e invece adottare la pratica della sperimentazione, della verifica dell’impatto ed eventualmente della successiva estensione delle norme all’intera platea dei soggetti interessati.
Come è stato già ventilato, si potrebbe iniziare ad applicare un provvedimento di salario minimo a quei settori meno bagnati dalla contrattazione o che comunque anche in presenza di intese negoziate con le parti sindacali indicano una soglia di salario orario troppo basso. Il riferimento più ovvio è al settore dei servizi e in particolare a quelle prestazioni giudicate a basso valore aggiunto, come ad esempio la vigilanza privata o l’assistenza nelle Rsa. Perché ci pare necessario seguire il percorso della spoliticizzazione? Non certo per una sorta di spirito di revanche sulla politica, pur onnipresente, ma per una constatazione più terrena che investe le caratteristiche peculiari delle relazioni industriali in Italia e di conseguenza il giusto confine tra privato e pubblico, tra negoziato inter partes e norme universali. In queste settimane di dibattito pubblico sull’introduzione del salario minimo, è circolata infatti una narrazione al ribasso della valenza della contrattazione. È prevalsa in molti interventi l’idea di una sorta di rendita parassitaria del sindacalismo italiano, un territorio che la democrazia della mediazione ha lasciato a Cgil-Cisl-Uil per ragioni storiche o addirittura per ipocrisia politico-culturale. Ma non è così. La contrattazione nazionale e, ancor di più, quella decentrata sono un terreno di sperimentazione di soluzioni, di innovazione sociale e di avvicinamento tra patti e mercato. Prendiamo l’esempio più noto, quello del welfare aziendale nato da un’intuizione sviluppatasi in casa Luxottica e poi allargatosi progressivamente sia a un numero sempre maggiore di imprese sia in sede di contratti nazionali. Il welfare aziendale altro non è che una prova della modernità delle idee di sussidiarietà, di un privato negoziale che sa costruire dal basso soluzioni efficaci per i tanti modellando la scarpa a misura del piede che si vuole calzare. Comprimere gli spazi della contrattazione non sarebbe quindi un investimento sul futuro, ma equivarrebbe a una statalizzazione della redistribuzione sociale. Solo la legge resterebbe a sancire i rapporti di forza creati dal mercato e la politica conquisterebbe nuovi ambiti di primazia. È questa la cultura che sembra esserci dietro l’offensiva dell’opposizione e soprattutto dietro l’appoggio convinto dei 5 Stelle e di una parte del Pd (che pur di mondarsi dai peccati liberal arriva a gettar via il bambino con l’acqua sporca).
È indubbio che una norma che fissasse a 9 euro il nuovo salario minimo rischierebbe di invadere i territori della contrattazione. Potrebbe spingere le imprese oggi firmatarie dei contratti nazionali manifatturieri – quelle che si rinnovano con una significativa puntualità – a «pescare» in basso pur di risparmiare e allo stesso tempo renderebbe assai difficile mettersi in regola per le imprese dei servizi a scarso valore aggiunto. Siccome tutti noi, nessuno escluso, vogliamo che dalla novità del salario minimo ne vengano benefici per i lavoratori low cost sarebbe ben paradossale che ne venisse fuori una regressione redistributiva invece che un miglioramento e una scelta di equità. Da qui il valore metodico di una sperimentazione ad hoc e di un’attenta valutazione delle conseguenze della norma sul funzionamento del mercato del lavoro povero.
Resta poi da spiegare in chiave politologica la conversione a U della premier Meloni per i temi del salario minimo. Entriamo in un ambito decisivo per analizzare e giudicare i comportamenti del governo conservatore, quello della relazione con le constituency elettorali e la modulazione dei provvedimenti di governo sulla base degli input che arrivano dai sondaggi. Il pericolo che vediamo però è che la maggioranza si comporti come il cliente di un supermarket alle prese con l’acquisto del consenso. Ma «mi dia un po’ di balneari, aggiunga i taxisti a buon peso e una manciata di lavoro povero» può essere una formula per la politica d’agosto, rischia però di non reggere alla prova della legge di Bilancio.