la Repubblica, 13 agosto 2023
1955, le vacanze cinesi
C’erano scrittori, giornalisti, scienziati, medici, filosofi, pittori, ma neanche un fotografo nella folta delegazione di intellettuali italiani (e che intellettuali: Fortini, Bobbio, Cassola…) che nell’autunno del 1955 si recò in visita nella Cina fresca di rivoluzione. Ma poi alla fine più o meno tutti quegli illustri fotografarono. Con accanimento, entusiasmo, poca estetica e meno tecnica. Le migliaia di immagini, quasi tutte inedite, che portarono a casa sono un documento importantissimo. Non della Cina, no. Per quello, abbiamo di quegli anni i reportage di Henri Cartier-Bresson, o del nostro Caio Mario Garrubba.
No, sono documenti dell’atteggiamento degli intellettuali italiani più liberal nei confronti di un Paese da cui si aspettavano molto e di cui non capivano quasi nulla. Recuperate da Silvia Bertolotti nell’archivio di Piero Calamandrei, con l’aiuto della nipote Silvia, e pubblicate nel volume Uno sguardo dal Ponte dal Museo storico del Trentino, quel reportage fotografico collettivo fatto da non-fotografi eccellenti è la prova di come la fotografia non parli solo di quel che sembra mostrarci, ma anche di chi ce lo mostra.
Calamandrei, intellettuale, politico, fu l’animatore del viaggio. Nel 1953 era nato a Roma il Centro per lo sviluppo delle relazioni economiche e culturali con la Cina, il cui presidente era Ferruccio Parri, proveniente dal Partito d’Azione come Calamandrei. Fu quell’associazione a promuovere lo scambio culturale, in un momento difficile.
La Cina comunista non era neppure riconosciuta dalla Repubblica italiana. Portare oltre la “cortina di bambù” un pullman di intellettuali non del tutto organici era in quel momento, per l’isolata dirigenza rivoluzionaria, un fiore all’occhiello. Il pretesto per il viaggio fu la realizzazione di un numero speciale (e illustrato) della rivista Il Ponte, da dedicare a “La Cina d’oggi”, coi contributi di tutti.
E dunque, sorvolata la Siberia, ecco scendere dall’aereo, il 24 settembre, una ventina di signori incappottati e insciarpati e, a giudicare dalla foto di gruppo, leggermente intimiditi. L’elenco è un Gotha della cultura italiana dell’epoca: oltre a Calamandrei ci sono Antonello Trombadori, Norberto Bobbio, Cesare Musatti, Franco Antonicelli, Umberto Barbaro, Carlo Cassola, Carlo Bernari, Franco Fortini, Ernesto Treccani, solo per citare gli umanisti: e poi esimi patologi, zoologi, chimici… Calamandrei ha con sé una fotocamera Rollei. È un fotoamatore esperto, cominciò addirittura nella Grande guerra. Ma giorno dopo giorno,ecco dalle borse degli altri viaggiatori spuntare altre fotocamere. Calamandrei viene presto surclassato per bulimia iconografica: trecento sono le immagini nel suo carniere, tre volte di più in quello di Bernari (una decina saranno pubblicate sull’ Espresso ), e addirittura 2500 quelle del giornalista Corrado Pizzinelli. Ma fotografano anche Cassola, Trombadori (che vediamo a sua volta fotografato da Calamandrei mentre si china per prendere da sotto in su uno ieratico monaco ad Hangzhou), Fortini, Antonicelli (anche lui appassionato fotografo privato) ed anche il pittore Treccani, che pur preferendo tracciare schizzi a mano fa scorta di ritratti per eventualeuso futuro.
Che cosa cercano, questi occhi così speciali? Soprattutto persone. Come nell’affannoso tentativo di capire se un barlume di uomo nuovo fosse in gemmazione. Talvolta rimangono male per la reazione irritata dei cinesi: «Ci rivolgono sguardi e parole di un’allegria canagliesca, che disarma i nostri obiettivi fotografici», annota Fortini, con percepibile disagio. «C’è un atteggiamento da spedizione etnografica in questa smania delle fotografie», medita ancora, «mi chiedo come giudicheremmo lo straniero che venisse fotografando la gente in via Veneto o le nostre massaie che fanno la spesa». La sinologa Maria Regis Arena, unicadonna della delegazione, rimprovera i colleghi che inquadrano solo la Cina povera, arcaica: «Fotografano il lato vecchio della strada. È questa la Cina che a loro interessa, la Cina misera che piaceva tanto agli occidentali, e ne vogliono un’ultima foto». Ma il malcelato sguardo coloniale, se disturba la coscienza democratica dei visitatori, non riesce a dissuaderli.
Ancora Fortini, autoironico: «Troppo spesso mi è venuto da protestare per le foto degli altri, nel momento medesimo in cui mi portavo il mirino all’altezza dell’occhio...». Tentazione irresistibile, anche perché il mondo cinese sembra offrirsi con generosità disarmante: davantia un tempio di Buddha, un monaco vuole raccontare la sua storia a Bernari, scrittore di epopee proletarie, in realtà vuole soprattutto essere fotografato: «Scelse da sé le pose più spontanee, chiedendomi ogni volta, proprio come una comparsa adusata a quel mestiere: va bene così?». Per il critico cinematografico Barbaro «la Cina di Mao Tse Tung è un paese di grande trasparenza, un paese che si capisce tutto d’acchito. Un paese limpido, un paese fotogenico». Solo pian piano si insinua in qualcuno (erano intellettuali, dopo tutto) la sensazione che questo mito di trasparenza funzioni da ansiolitico del disagio di vedere senza capire. Assistendo senza comprendere nulla a uno spettacolo di teatro, Bernari fotografa gli attori, cercando di «supplire con la fotografia alla mia deficienza, cogliendo cioè i momenti salienti di quel baccano, per avere domani un documento su cui poter meditare con calma».
La fotografia promette di rimandare il momento della comprensione. Antonicelli: «Eravamo premuti dalla stanchezza di tanti giorni di viaggi. Sentivamo il bisogno di vedere le cose non più da vicino, ma da lontano, in prospettiva, accostarle nella memoria, affrontarle in un giudizio più riposato». La fotografia come bottino di conoscenza differita. Ma, Fortini, con onestà, riconoscerà che la fotografia promette un dispiegamento del senso che non può mantenere. Che tra il reale nella storia e il realismo sulla carta passa un abisso. Lo dirà fra le righe di una poesia: Ho una foto alla parete. Vent’anni fa nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi. Guardano diffidenti o ironici o sospesi Sanno che non scrivo per loro. Io so che non sono vissuti per me.