la Repubblica, 13 agosto 2023
Corsa allo spazio
Il 12 settembre 1962, al Rice stadium di Houston gremito di persone, il presidente Kennedy pronunciò un discorso che passò alla storia: «Abbiamo deciso di andare sulla Luna e fare tutto il resto non perché sia facile, ma perché è difficile». «Haahd», pronunciato col suo accento bostoniano. E farlo «per primi». In quel momento gli Stati Uniti ancora inseguivano l’Unione sovietica. L’anno precedente il primo uomo nello spazio e a entrare in orbita attorno alla Terra era stato Jurij Gagarin. Sappiamo poi come andò a finire: la promessa di Kennedy, assassinato proprio in Texas, a Dallas, poco più di un anno dopo, fu mantenuta. Il 20 luglio 1969 Neil Armstrong e Buzz Aldrin piantarono la bandiera a stelle e strisce nel Mare della Tranquillità.
Gennaio 2023. L’amministratore della Nasa, Bill Nelson, parla di nuovo di “space race” ed esprime la sua preoccupazione in questo modo: «Faremo meglio a stare attenti che non arrivino in un posto sulla luna con il pretesto della ricerca scientifica. Non è fuori dal campo delle possibilità che dicano: “State fuori, siamo qui, questo è il nostro territorio”». Parla della Cina, non più della Russia. Sessant’anni fa la Luna era un traguardo, ora ci si va “per restare”, come recita lo slogan americano: una tappa tecnologica, economica, oltre che un trampolino di lancio per Marte. C’è Pechino, ora, alla guida di un blocco orientale. E tutto lascia pensare che sarà un testa a testa.
Gli Stati Uniti lavorano al programma Artemis (nome evocativo, la mitologica dea sorella di Apollo), uno sforzo che richiede un grande impegno economico. Finora 12 persone hanno camminato sulla Luna: tutti maschi bianchi americani. Il primo obiettivo è quello di portarci la prima donna e la prima persona di colore entro la fine del 2025, 53 anni dopo l’Apollo 17 (1972). Al loro fianco c’è un partner ormai storico: l’Europa, con l’Agenzia spaziale europea (Esa) e singoli Paesi che hanno firmato gli Artemis accords, un’intesa per esplorare e sfruttare le risorse lunari in modo pacifico. Sono in tutto 27, tra quelli europei ci sono Italia, Francia, Spagna, e Regno Unito. Poi Canada e Giappone, Brasile, India e Israele. Nazioni dello “spazio che conta”, e altre che non hanno mezzi per arrivare così lontano. L’occasione per arrivare sulla Luna, dunque, per loro è adesso.
In un primo momento c’era anche la Russia. Era il 2017 quando le due agenzie spaziali, Nasa e Roscosmos, firmarono l’accordo per costruire assieme una stazione spaziale orbitante attorno alla Luna, il Lunar Gateway. Un’intesa durata pochi anni. Mentre il concept del Gateway prendeva corpo, la Nasa rafforzava il proprio impegno con investimenti più cospicui. Le posizioni si sono andate via via distanziando, fino al divorzio per l’eccessivo “protagonismo” americano, secondo le parole dell’allora direttore dell’Agenzia spaziale russa, Dmitrij Rogozin.
Nel 2021 Mosca fa il passo decisivo verso Pechino. L’accordo tra Cina e Russia prevede la collaborazione per costruire una International lunar research station (Ilrs), una base lunare, l’embrione di una colonia. Al piano cinese hanno aderito Pakistan ed Emirati arabi (unico Paese che ha siglato anche gli Artemis accords), oltre all’Organizzazione per la cooperazione spaziale Asia-Pacifico, che comprende, oltre alla Cina, Banghladesh, Iran, Turchia, Mongolia, Pakistan, Peru e Thailandia. Si è aggiunto, a luglio 2023, anche il Venezuela. Si delineano così due “blocchi” che ricalcano sfere di influenza geopolitica già note. In quello “orientale” solamente la Cina si può permettere di investire abbastanza nell’impresa. L’India, nuovo “gigante spaziale” che ha di recente lanciato la sua seconda missione per compiere un allunaggio robotico, si è schierata firmando gli Artemis accords.
La Luna fu un obiettivo molto ambizioso. Si passò dal primo uomo a volare oltre l’atmosfera nel 1961 allo sbarcare su un altro corpo celeste nel 1969. Negli anni ‘60, per la corsa alla Luna il budget Nasa lievitò fino a oltre il 4% della spesa federale. Un’enormità anche rispetto a oggi. Ma i rischi di fallimento delle missioni Apollo oggi non sarebbero più accettati. Il presidente Nixon, il 18 luglio 1969, aveva già pronto il discorso da pronunciare al mondo in caso di impossibilità di riportare Armstrong e Buzz Aldrin a casa, il sacrificio di due eroi periti nell’affrontare l’ignoto. Soprattutto, ora gli americani sanno che non conviene fare tutto da soli. Servono alleati e i privati.
L’Agenzia spaziale americana ha varato lo Space launch system, un razzo di vecchia concezione, costosissimo, ma basato su tecnologia molto affidabile (alcune parti, come i motori, sono addirittura quelli dello Space shuttle). La prima missione del programma Artemis è decollata a novembre 2022: l’Sls ha spinto una capsula Orion per un viaggio di andata e ritorno per l’orbita lunare. La Orion, il cui modulo di servizio che fornisce propulsione ed energia è uno dei contributi europei al programma, sarà quindi il “bus” fin verso la Luna. Ma per scendere gli astronauti dovranno trasbordare su un altro veicolo, il razzo più potente mai costruito: Starship di SpaceX. L’astronave della compagnia di Elon Musk è la prima scelta. La seconda è Blue Moon, fornito dalla Blue Origin di Jeff Bezos. Due tra gli uomini più ricchi del mondo inseguono il sogno di arrivare alla Luna, sfruttando le immense ricchezze guadagnate nell’economia digitale. I tempi, però, sono molto stretti.
La tabella di marcia prevede una nuova missione, Artemis II, con il primo equipaggio, entro la fine del 2024. Decolleranno in testa all’Sls, a bordo della Orion, gireranno attorno alla Luna per poi fare rientro verso la Terra. Mentre Starship, vuota, dovrà dare prova di poter raggiungere la Luna, posarsi al suolo, e decollare di nuovo senza incidenti. Senza un successo in questa fase, sarà impossibile sbarcare per Artemis III, il volo che dovrà riportare esseri umani a camminare sul nostro satellite, l’anno successivo. Riuscirà la compagnia di Elon Musk a validare un nuovo veicolo per la discesa sulla Luna in poco più di un anno, dopo che il primo test si è concluso subito con i fuochi d’artificio? Difficile, qualcuno direbbe impossibile, se non si parlasse di SpaceX ed Elon Musk.Nel frattempo partirà la costruzione del Lunar gateway, un base di ricerca orbitante attorno alla Luna che sarà anche un “porto” al quale attraccare, una volta che le missioni anche verso il suolo diventeranno frequenti. I primi elementi, un modulo abitabile costruito a Torino da Thales Alenia space, e un modulo di servizio, dovrebbero essere lanciati già nel 2024. Col tempo, si aggiungeranno altri ambienti: lì potranno attraccare cargo di rifornimento, la Orion e i veicoli di discesa lunari. Il Gateway avrà un’orbita ellittica accentuata per transitare regolarmente molto vicina alla Luna e portare, o raccogliere, gli astronauti in discesa e risalita. Fino all’inizio degli anni ‘30, almeno, le permanenze saranno piuttosto ridotte, una o due settimane al massimo, accompagnate da una lunga serie di missioni commerciali per cercare nuove possibilità di fare affari.
La Cina, invece, sulla Luna c’è già. Il suo rover, Yutu-2 (Coniglio di giada), della missione Chang’e-4 (la dea cinese della Luna), è stato il primo robot a sbarcare sul lato nascosto del nostro satellite, che da Terra non si vede mai e ha bisogno di un satellite dedicato per inviarci dati e immagini. E pare che ancora comunichi con gli ingegneri cinesi. Nel 2020, Chang’e-5 ha raccolto e spedito a Terra campioni di suolo lunare, con una serie di manovre orbitali che hanno funzionato alla perfezione. La Cina non era mai stata sulla Luna prima del 2013, all’arrivo della prima missione Chang’e-3, ma finora non ha sbagliato un colpo. È diventata una super potenza spaziale, ha una propria stazione spaziale, la Tiangong, razzi e veicoli per il volo umano e quindi un accesso indipendente oltre l’atmosfera. La Russia, al traino di Pechino, fa la sua parte: Luna 25, missione robotica per l’esplorazione, è decollata l’11 agosto. Sarà seguita da altre sonde nei prossimi anni, nell’ideale continuazione del programma abbandonato nel 1976.
Lungo gli anni ‘20 sarà questo il paradigma: esplorare, cercare il sito giusto e poi portarci le persone. Di recente, l’Agenzia cinese per il volo spaziale umano ha fissato proprio al 2030 il traguardo per il primo, storico, sbarco dei taikonauti: «A livello robotico al momento la Cina sembra in vantaggio – riflette Marcello Spagnulo, esperto di space economy, autore di “Geopolitica dell’esplorazione spaziale” e di “Capitalismo stellare” –. I progressi sul volo umano invece sono meno noti, forse ci sembrano più arretrati ma non sono molto dietro. Se da qui a pochissimi anni sveleranno un progetto di lander come Starship, l’obiettivo potrebbe essere realizzabile». A una prima lettura, sembra che non ci sia proprio gara. Ma l’America deve confrontarsi con i ritardi interni e di SpaceX. Il vincitore, insomma, non è ancora designato. Gli anni ‘30, poi, apriranno tutto un altro capitolo: costruire un insediamento e tentare di conquistare un monopolio. «L’America spinge l’imprenditoria ad arrivare per rivendicare prima il monopolio su un certo territorio – osserva Spagnulo –. La Cina non consente a privati posizioni imperanti sul mercato da confrontarsi con potere politico, ma gli obiettivi finali sono simili: arrivare dove non arrivano gli altri, monopolizzare ciò che gli altri non hanno ancora raggiunto».
Questa volta non sarà uno sprint, ma una maratona. Il programma Apollo era una “toccata e fuga”, pochi giorni (al massimo tre) sulla superficie. I prossimi vi resteranno una settimana, che possono diventare due, con le giuste strutture e habitat. Il motto è ora dunque “andare per restare”. Cioè costruire un avamposto, in orbita prima e al suolo poi, per fare della Luna una nuova colonia terrestre. Il costo supererà agilmente il centinaio di miliardi di dollari (almeno per la parte americana), e avrà obiettivi in parte diversi da quelli della prima corsa alla Luna.
- Nel suo discorso, Kennedy citò l’esploratore George Mallory, che alla domanda «perché vuole scalare il monte Everest?» rispose «perché è lì». La curiosità e la scienza: esplorare, raccogliere campioni, studiare. La Luna è un posto incontaminato, silenzioso, con un cielo primordiale. Ci sono progetti per usare i suoi crateri come radiotelescopi, per costruirci osservatori astronomici e persino di onde gravitazionali.
- La prima cosa che robot e umani cercheranno sarà il ghiaccio d’acqua. Nei crateri in ombra sembra essercene parecchio, soprattutto al polo sud. L’acqua significa sussistenza per un insediamento. Idrogeno e ossigeno, ricavati con l’elettrolisi, diventano aria da respirare e combustibile per produrre energia e carburante per i razzi.
- A lungo termine, dovranno esserci solide basi economiche, tradotto: un business plan. Quindi spianare, con fondi pubblici, la strada ai privati. La Nasa ha investito miliardi di dollari nel programma Commercial Lunar Payload Services: una serie di missioni con robot sviluppati e costruiti da compagnie private. Lì ci sono concentrazioni interessanti di elio-3, per la fusione nucleare, platino e terre rare. Il 90 per cento di questi materiali, indispensabili per la produzione elettronica, di batterie e di dispositivi legati alla transizione ecologica come pale eoliche e auto elettriche, è in mano alla Cina. Un motivo valido per andarli a cercare così lontano.
- Decollare dalla Luna costa molto meno in termini di energia, perché la gravità è un sesto di quella terrestre. Luna e la sua orbita potrebbero diventare una “stazione di servizio” o un “hub” per far rotta verso Marte, la prossima
space race.
Sulla cartina della Luna, entrambi i programmi hanno piazzato la bandierina al polo sud. Lì dove l’orlo di alcuni crateri è bagnato dalla luce solare quasi tutto l’anno come il Sole di mezzanotte in Artide e Antartide (sulla Luna un giorno ne dura 14 terrestri e altrettanti la notte), mentre il buio sulfondo conserva grandi quantità di ghiaccio al riparo da quella stessa luce. Significa energia e risorse in quantità. Un tesoro per pionieri e coloni.
Abitare e crescere sulla Luna
L’ultimo motivo per andarci ha a che fare con l’inventiva che servirà per abitare il luogo più ostile sul quale un essere umano ha mai messo piede. Senza un’atmosfera che faccia da filtro alle radiazioni e ai meteoriti (anche un sassolino che piove dallo spazio a decine di chilometri al secondo è un proiettile devastante), senza aria da respirare. Non c’è un campo magnetico per schermare raggi cosmici e solari altrimenti letali.
Durante le prime missioni, l’unico habitat disponibile sarà il veicolo col quale si è approdati. E tutto ciò che serve, materiali, provviste, ossigeno, acqua, dovrà essere portato dalla Terra. Ci saranno robot, rover, al servizio delle prime esplorazioni, per indagare ambienti più impervi e scendere dove non arriva la luce del Sole. Servizi come le comunicazioni e il posizionamento verranno forniti da privati con costellazioni di piccoli satelliti. A studi di architettura e aziende, come Blue Origin o Thales Alenia Space, il compito di immaginare nuove forme e modi di vivere. Moduli abitabili pressurizzati spediti da Terra in futuro verranno affiancati da rifugi con pareti stampate in 3D da robot carpentieri autonomi usando la polvere lunare, la regolite (in situ resource utilization). Potremmo persino tornare a essere “uomini delle caverne”, usando i giganteschi condotti lavici lunari per insediarci, al riparo, nel sottosuolo, dai pericoli della superficie.
Fino a che non avremo prosperato, ogni stilla d’acqua e di energia, ogni respiro saranno contati e centellinati. Ogni rifiuto riutilizzato. Saranno ambienti sostenibili quasi al 100 per cento, con soluzioni tecnologiche per i riciclo dell’acqua e dell’aria, di costruzione e di produzione energetica da fonti rinnovabili come il Sole, o nucleari (piccole centrali a fissione, per cominciare). Il cibo arriverà da serre di agricoltura intensiva riducendo al minimo risorse e costi. Per riparare qualcosa basterà inviare un file, pochi kilobyte, alla stampante 3D per produrre il ricambio. Lo stesso succederà per riparare il corpo umano, stampando i tessuti necessari.
Se tutto questo sembra fantascienza, vale la pena ricordare che era già successo con il programma Apollo, al quale dobbiamo molte innovazioni, dai pannelli solari ai materiali ignifughi, dai microprocessori al pacemaker. Nuove invenzioni, nuovi brevetti e modi migliori, più green e sostenibili. E questo, al di là delle scelte geopolitiche, interessa allo stesso modo cinesi e americani, russi ed europei, perché si tratta di progresso ma sarà anche e soprattutto business.
Ma la si può vedere anche in un altro modo. Tommaso Ghidini, capo della divisione Strutture, meccanismi e materiali dell’Esa, lavora anche alle sfide tecnologiche per fare dell’umanità una civiltà multiplanetaria. E scrive nel suo libro “Homo caelestis. L’incredibile racconto di come saremo”: «Non pensate che vogliamo trasferirci su Marte perché ormai consideriamo la Terra spacciata. Vogliamo andare su quel pianeta per comprendere
e curare meglio la nostra attuale dimora».
Dalla geopolitica alla “selenopolitica”
Americani e russi hanno iniziato a collaborare in orbita già dalle missioni congiunte Apollo-Soyuz, era il 1975. Per finire con la costruzione della Stazione spaziale internazionale, nella quale, da oltre vent’anni, si lavora gomito a gomito, anche ora che i rapporti tra queste due super potenze sono ai minimi storici degli ultimi tre decenni. Sia la Cina, nel suo invito alla collaborazione, che l’America attraverso gli Artemis accords, sottolineano lo sforzo per l’uso pacifico dello spazio. Ma al di là delle dichiarazioni, il contesto è più complesso. Basti pensare che la Nato, nel 2019, ha dichiarato lo spazio extra atmosferico “dominio operativo”: significa che per il Patto atlantico, lassù si può fare la guerra.
Quasi tutti i Paesi che aderiscono alle Nazioni unite (comprese questa volta Usa, Russia e Cina) hanno firmato il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967. È l’unico documento che vincola anche le super potenze a un uso pacifico di quello che c’è oltre l’atmosfera. L’Outer space treaty proibisce di rivendicare sovranità su un corpo celeste ma non menziona la proprietà privata, sarà una questione da risolvere in punta di diritto. È a questo che puntano gli Stati Uniti e gli Artemis accords. Nel 2020 l’allora presidente Donald Trump, sul solco già tracciato da Barack Obama, ha emanato un ordine esecutivo per incoraggiare le aziende americane a esplorare e sfruttare lo spazio che “gli Stati Uniti non considerano un bene comune globale”. D’ora in poi qualunque compagnia americana in grado di sbarcare su qualsivoglia angolo del Sistema solare, o di agganciare un asteroide ricco di metalli preziosi, avrà il supporto del proprio governo.
L’Outer space treaty proibisce di “mettere in orbita” (ma non di far transitare) o installare su altri corpi celesti armi nucleari o di distruzione di massa. Proibisce di testarvi armi e condurvi manovre militari. Non sono proibite le armi tout court fuori dall’atmosfera. È un testo che ha quasi 60 anni con vuoti che andranno riempiti nel contesto di una competizione che vede le principali potenze dello scacchiere mondiale puntare alla stessa regione lunare, col rischio di contendersi anche lassù le stesse risorse: «L’ipotesi di un conflitto è plausibile mutuando le attitudini geopolitiche terrestri. Osserviamo le sfere di influenza nell’Artico: una volta che si apriranno le rotte, bisogna vedere cosa succederà – conclude Spagnulo -. Nello spazio è la stessa cosa. C’è un sistema di orbite strategiche che bisognerà occupare per operazioni di intelligence e spiare cosa fanno gli avversari sulla Luna. Come già succede con i satelliti in orbita attorno alla Terra. E come per i cavi sottomarini o il North stream, bisogna mettere in conto i sabotaggi. La Luna è difficile da raggiungere, una volta che si arriva non la si vuol condividere». Oppure si può vederla con l’ottimismo umanistico della scienza, come scrive di nuovo Ghidini in “Homo Caelestis”: «Oggi, per la prima volta nella storia, noi possiamo portare la nostra vita, i nostri ideali, la nostra cultura, i valori morali, le nostre emozioni e perfino i nostri amori dove la vita non c’è, e lo possiamo fare in pace».