la Repubblica, 13 agosto 2023
I funerali di Michela Murgia
Tutto è stato alla fine come lei avrebbe voluto, anzi come aveva deciso che fosse. Dal cuscino sulla bara di legno chiaro, carciofi, peperoncini, rosmarino, ramoscelli d’ulivo, cardi, felci, niente fiori recisi ma soltanto spinosa bellezza, al dolente e dolcissimo canto sardo No potho reposare intonato dai tanti che a sorpresa conoscevano le parole. È stato così, ieri, nella Chiesa degli artisti a Roma, il funerale di Michela Murgia, un caleidoscopico intrecciarsi di politica e passione, di fede e laicità, di ironia e di dolore, tra le canzoni dell’Azione cattolica, gli scrosci di applausi, Bella ciao, il Vangelo, i brani di Accabadora, il suo romanzo più bello, letti da uno dei suoi quattro “figli d’anima”, Alessandro Giammei.
Mille persone, sopratutto donne, molte restate fuori dalla basilica di Santa Maria in Montesanto, la prima ad arrivare era stata Elly Schlein. Accanto alla bara con la foto di Michela vestita di rosso, la sua famiglia d’elezione, queer. Roberto Saviano, che piange e piange con la testa tra le mani, Chiara Valerio, Chiara Tagliaferri, il marito di Murgia Lorenzo Terenzi, i figli Raphael Luis, Michele Anghileri, Alessandro Giammei e Francesco Leone, tenore, che ha intonato molti dei canti religiosi che hanno accompagnato la messa di commiato, officiata da don Walter Insero, parroco della Chiesa degli artisti. Insieme ad Antonio Spadaro, padre gesuita, direttore di Civiltà cattolica. «Ero fuori ma sono tornato per Michela, ci univa un profondo amore per la teologia, ci sentivamo e discutevamo, era bellissimo confrontarsi con lei».
E se le parole di Saviano, affranto, il suo j’accuse nel ricordo delle “persecuzioni” subite da Murgia per le sue idee libere, dure, mai dome hanno dato al funerale quel colore politico che Michela voleva, così come le sue nozze, così come il racconto della sua malattia, più dolce invece è stato il passo del Vangelo dell’ultimo saluto. Saviano legge una lettera all’amica che non c’è più: «Con lei ci siamo conosciuti e ci siamo uniti non per quello che abbiamo fatto, ma per quello che ci hanno fatto». «Abbiamo scelto questa pagina dal Vangelo di San Giovanni con Michela», racconta don Insero, che negli ultimi anni ha celebrato i funerali di Gigi Proietti e Maurizio Costanzo. «Gesù è simboleggiato con la porta, cioè la soglia, quel luogo di passaggio che permette di attraversare lo spazio e andare oltre. Lei è nell’oltre, la sua anima è in viaggio verso il Padre, non verso il nulla. Ha fatto tante battaglie e ha conservato le fede. Ci ha lasciato questa testimonianza: è possibileamare nel dolore». Don Insero legge un messaggio del Cardinal Zuppi, presidente della Cei: «Michela Murgia si preoccupava degli altri in un momento così difficile per lei. Chiedeva della mia missione di pace. Diceva: non ho dolori e sono amata. Il resto è il lavoro del sorcio: rosicchiare ogni giorno un giorno in più. Il libro della sua vita non è finito». Ci sono Paola Turci e Francesca Pascale: «Non ci conoscevamo personalmente, ma le sono profondamente grata. Leggendola ho imparato ad amarmi» dice e non è poco. Ci sono Paolo Virzì, ricorda quando la scoprì leggendo il suo blog, la scrittrice Teresa Ciabatti, Lella Costa, che la saluta citando leLezioni americane di Calvino e poi con le parole di Fabrizio De André: «Credosia stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati». Chiara Tagliaferri che ha avuto in eredità il guardaroba di Murgia, sussurra alle amiche: «Condividiamo». In seconda fila, appartato, c’è il fratello di Michela, Cristiano, insieme al sindaco di Cabras. «Ci siamo sentiti fino a poco prima che morisse». Si commuove Cristiano soprattutto quando canta, forte, No potho reposare,non posso riposare, insieme a tanti altri amici sardi. Schlein abbraccia Chiara Valerio, Saviano, i figli di Michela, è qui in veste privata, “no, del governo non c’è nessuno”, conferma. Scomoda Murgia fino alla fine, nonostante, nei giorni scorsi, “l’onore delle armi” fosse arrivato anche da chi – possiamo dirlo – la detestava apertamente. Spina nel fianco, ancora nelle settimane terminali, di tutti i fascismi dichiarati o travestiti da soprusi e ingiustizie.
La folla è immensa, arrivata da tutta Italia, la chiesa non la contiene, il caldo è quasi insopportabile, a centinaia restano fuori, dove un enorme cartello recita: “God save the Queeer”. Virginia e sua figlia: «Dai libri di Michela ho imparato il femminismo». Carmela: «Ascoltandola mi sono ribellata alla violenza maschile». Patriarcato. Sessimo. Le sue battaglie. Ma il centro di questo funerale pop, nel senso più nobile, popolare e politico, è poi nella lettera di Saviano. Testimonianza di un’amicizia solidissima e solidale. «Sono le parole più difficili della mia vita. Per Michela il senso di tutto era la condivisione. “Dove sei, non restare solo” mi diceva se avevo un problema».
«C’era quando nessuno c’era – legge Saviano davanti all’altare con la voce che si spezza – era accanto a me a ogni udienza in tribunale. Sapeva che questa deriva autoritaria si può disinnescare solamente facendo i dissidenti». Già ma quanto costava a Murgia la critica militante? «Soffriva enormemente. Contro di lei c’erano il dossieraggio, la pressione mediatica, l’orrore dei populisti che si accanivano. In questo Paese è stato possibile che si considerasse una scrittrice come un nemico politico». «Michela ha sempre scelto di stare dalla parte dei diritti e sapeva che avrebbe pagato un prezzo. Ma questo per lei era il modo di essere felice». Il suo addio, infatti, è stato un lungo dialogo pubblico sui social, provando a scardinare fino alla fine ogni categoria consolidata, ogni luogo comune. Un matrimonio alla rovescia, una casa come una comune d’affetti. Ha scelto di morire restando viva, per usare una sua frase, è andata “oltre la porta” dolcemente, con la sedazione profonda affidata ad un testamento biologico, anche questo un diritto civile. Allora «ciao bella, bella ciao» cantano tutti, sventola la bandiera dell’Anpi, la bara esce portata a spalla dai figli d’anima, dall’amico di anima anch’esso Saviano. Fuori il cielo di Roma era azzurrissimo, come fosse già settembre.