La Stampa, 13 agosto 2023
Intervista a Pupi Avati
«Dopo ogni vittoria elettorale vengono scelte persone politicamente più prossime, ma il problema è trovare dirigenti all’altezza della scuola che fu di Roberto Rossellini e che ha avuto un corpo docente straordinario». Quando si solca il mare del cinema da mezzo secolo nelle vesti spesso scomode di regista indipendente, quale Pupi Avati rivendica di essere, le polemiche sulle nomine della nuova dirigenza del Centro sperimentale di cinematografia, per cui è stato tirato in ballo per la sua presunta vicinanza alla destra, scorrono via senza lasciare traccia. «Non appartenere culturalmente a una parte, in questo Paese è peccato grave, ma io coi miei film sono sempre volato più alto di questo. Poi l’indipendenza l’abbiamo pagata sia io che mio fratello (produttore dei suoi film, ndr)».
Presidente di giuria al Film Videoclip Award Italia di Rimini il prossimo 2 settembre, Pupi Avati annuncia il progetto di un nuovo film, L’orto americano, che farà felici i cultori del gotico padano, l’horror all’emiliana rimasto negli annali con La casa dalle finestre che ridono: «Gireremo fra Stati Uniti e Comacchio, nelle valli del Po». Dopo Il signor Diavolo, il suo penultimo lavoro, è la conferma di un ritorno alle atmosfere sulfuree generate dalla tradizione popolare cui il regista bolognese è tanto affezionato.
Lei deve a Fellini il fatto di essere diventato Pupi Avati.
«Io volevo proprio essere Fellini, debbo a lui la scelta di questo lavoro, se non avessi visto 8 e 1/2 non avrei capito la potenzialità del cinema. Avevo girato il mio primo film fra tante difficoltà sessantottine e gli scrissi centinaia di lettere piene di complimenti senza avere mai una risposta. Allora andai vicino casa sua, a via Margutta a Roma, e mi misi a pedinarlo camminando sul marciapiede opposto al suo. Non avevo un aspetto rassicurante col mio cappottone lungo nero e il barbone e lui si spaventò moltissimo, da quel vigliaccone che era. La quarta volta trovai il coraggio di parlargli, lui prima sbiancò, poi mi presentai e lui mi abbracciò sollevato: “Pupone, Pupone”, mi diceva. Da allora è nata un’amicizia vera e profonda».
Il suo nome circola per il Centro sperimentale di cinematografia perché lei è in quota alla destra.
«Non è questione di appartenenza, ma di competenza. Purtroppo in questo Paese quest’ultima non è considerata. Non importa si sia di destra o di sinistra, ma che si sappia insegnare cinema».
Pensa ci sia stato e ci sia tuttora ostracismo nei suoi confronti da parte della sinistra?
«Sono stato associato alla destra, ma il fatto è che mentre le persone di sinistra lo rivendicano e, se sei regista, è automatico esserlo, per me che non sono né dell’una né dell’altra parte diventa complicato: mio nonno era un operaio socialista e mio padre un monarchico convinto, io sono un mix molto interessante da questo punto di vista. Se l’Italia fosse un Paese democratico, cosa che non è, sarei considerato un conservatore ostinatamente credente in Dio, pur con tutti i dubbi del caso. Negli Usa per esempio sarei un repubblicano, il che non vuol dire essere di destra. Vorrei anzi suggerire alla destra italiana di cambiare il nome in partito conservatore. In realtà non c’è spazio per chi è come me».
Lei insegna recitazione ai giovani, come trova i suoi allievi?
«Trovo ragazzi che temono di illudersi e che hanno, tutti, un piano B. Penso invece che un giovane debba aspettarsi qualcosa di eccezionale dalla propria vita».
Parliamo dei grandi attori con cui ha lavorato: può raccontarci qualcosa di Ugo Tognazzi che l’abbia colpita in modo particolare?
«Tognazzi è la ragione per cui mi sono riconciliato col mondo, un miracolo l’incontro con lui: venivo da due disastri di film sessantottini e Ugo, che all’epoca era l’attore italiano più pagato, si offrì di lavorare con me. La prima volta che lo vidi, a casa sua a Torvaianica, mi fece subito il racconto di una sua défaillance con una donna la sera prima. Mi chiesi cosa c’entrasse col mio film quella dichiarazione di debolezza totale, ma poi mi fece capire che anch’io avrei dovuto replicare con un mio fallimento: io ne avevo una serie sterminata e glielo dissi. Ho imparato allora a raccontarmi attraverso le mie paure e le mie sconfitte, qualcosa che insegno tuttora ai miei ragazzi».
Il cinema italiano annaspa da tanto tempo, lei ce l’avrebbe un suggerimento per riportarlo a galla?
«In Italia si realizza una quantità di film strabordante, tanto che non si trovano costumisti o direttori della fotografia liberi, ma dopo trent’anni orrendi di commediole modeste e ripetitive, da qualche tempo i nostri registi hanno ritrovato una vena creativa con autori come Garrone, Sorrentino, i fratelli D’Innocenzo, Martone. È il Sud e il centro Italia che ci salvano».
Perché il Sud e il centro?
«Perché hanno mantenuto un’identità che si esprime nelle processioni e nelle feste di paese, mentre noi del Nord d’Italia ci siamo sbarazzati del passato privando l’Italia della sua identità. Il problema è che si sta estinguendo anche lì...».
Quindi come si raddrizza la barca del cinema italiano?
«Bisogna restituire la mono-sala al suo ruolo dopo che è stata schiacciata dalle multisala, che distribuiscono principalmente un prodotto americano. Penso a sale come il Cinema Eden qui a Roma, dove non hanno mai passato un brutto film, ma ce ne sono diverse altre così. È come un salumiere dove non hai mai comprato un salume scadente. La stessa filiera ci vorrebbe per il cinema. Si salverà solo la qualità».
Lei conosce il mondo del cinema da molto tempo, cosa pensa delle molestie sessuali contro le attrici?
«Che sono sempre esistite, in tanti casi con la complicità della controparte, anche se trovo profondamente squallido che ci sia chi approfitta del proprio ruolo di potere. Personalmente ho visto mamme che mi portavano le figlie per farle recitare in un mio film facendomi capire che la sera sarebbero potute uscire con me. Storie che nel cinema succedono, da Bellissima di Visconti in poi».